venerdì 25 maggio 2012

Alessandro Ubaldi - Una goccia di speranza in un oceano di disperazione


Il cielo era completamente coperto di nubi, un tuono squarciò quel manto scuro e insieme alla sua eco si espanse una luce accecante, presto quelle nubi minacciose lasceranno al loro seguito una pioggia battente.
Cadono le prime gocce, eccomi, parto per il mio viaggio annuale, senza una meta precisa, posso vedere, curiosare ed osservare; quanti bei ricordi porterò con me!
Sono limpida, emozionata dalla mia trasparenza, elegante, scintillante, dai mille volti, dalle tante trasformazioni. Scivolo sui vetri, mi addormento dentro un fiore, cado sui sassi, scendo a valle, disseto prati, dove mandrie di animali verranno a pascolare e uomini a raccogliere bacche.
Quante volte, a furia di evaporare e di ripiovere, sono nevicata in cima a un monte, al disgelo sono penetrata nella fessura di una roccia e a volte sfociata in mare aperto, ogni volta la meta è diversa e una leggera brezza o una tormenta implacabile possono alterare il mio tragitto.
Ma fra tanta euforia, dove sono finita? Intravedo delle case, dei viottoli alberati, attorno campi coltivati e … sento in lontananza schiamazzi, risa di bambini che si rincorrono, si rotolano, giocano con un aquilone che volteggia inseguendo l’arcobaleno, tutt’intorno sembra tranquillo, pacato, sarà di certo una piccola isola felice.
Seguo i rumori, e le voci si fanno sempre più forti, infondono allegria, quei bambini hanno le guance rosse, non rammento che giorno fosse, provo a vedere dove mi trovo, sulla carta geografica questo paesello di campagna è contrassegnato con un insignificante pallino grigio, penso che forse non avrò niente di così interessante né di curioso da vedere.
Il caldo sole di primavera mi invita a tuffarmi nel laghetto, dove un susseguirsi di caprette vengono ad abbeverarsi, non resisto, la vista di quell’acqua mi attira, mi butto … ma ahimè! che brividi! sembra non esserci più vita, ci sono pesci morti che galleggiano, cosa sarà successo? Guardo intorno e vedo i larici coprirsi di teneri germogli dai quali spuntano fiori, è uno spettacolo perché la brina ha ricamato la ragnatela sospesa tra i rami.
Alice, Thomas, Federico, Ingrid raccolgono le margherite e ci fanno corone di fiori, che posano sul capo e si fingono fate e regine. Erano ancora capaci di sorridere al mondo, alla vita, forse perché ancora troppo ingenui, forse perché ignari di quel mostro dai sudici capelli color giallastro, sbiaditi e maleodoranti, che finisce qui la sua corsa.
Nel cuore della notte, proprio quando tutto è ovattato, avverto dei rumori, lentamente viene aperto il cancello divorato dalla ruggine, chiuso con una catena, anch’essa logorata dalle intemperie del tempo e che ad ogni capriccio del vento emette un rumore sordo che echeggia nell’aria.
Due carovane in fila indiana lo attraversano, vedo delle ombre vicino al laghetto che si agitano, che inabissano nelle viscere della terra liquidi neri e un odore acre pervade il paese e gli occhi pizzicano. Rimango perplessa, al mattino tutti si chiedono cos’era, ma senza una risposta, nell’aria rimane solo la nausea di quel gusto nauseabondo e dal sapore amaro.
Non tarda molto e l’estate arriva impetuosa, il sole è là fuori, alto nel cielo , imponente, ma sembra che i raggi non arrivino ad accarezzare le chiome; è abbagliante, soffocante.
Sconfinati campi di grano maturo colorano d’oro il paesaggio, ma al calar della sera non si vedono le lucciole, dove saranno? Questo è proprio uno strano paese!
E’ tardi e quei piccoli continuano a giocare, in circolo seduti con le gambe incrociate come gli indiani raccontano storie, hanno con loro i propri cuccioli. Alice porta con se la sua capretta, è nata da poco e vuole farla conoscere ai suoi amici, ma non è una solita capretta, è nata senza gli arti posteriori, fa difficoltà a muoversi, non può correre, camminare come le altre, ma Alice l’accarezza, gli sussurra parole incoraggianti, la carica sulle spalle e corre, anche gli altri bambini la prendono in braccio e ci giocano, povera bestiola!
Tra me e me, penso che la natura è capricciosa e imprevedibile, alterna sonno e veglia, follia e sofferenza, non conosce mezze misure e quando sembra aver trovato un equilibrio ti sorprende.
Ancora rumori, sono le quattro di notte, si apre di nuovo il cancello, un uomo bianco e tanti altri mostri con delle maschere al volto scaricano liquidi neri, inabissandoli nella terra.
Al mattino le voci si fanno più dure, denunciano il fatto, ma sono respinti come pezzenti.
Quando pian piano l’estate lascia il posto all’autunno, i colori sono forti, gli uccelli volano leggiadri nel cielo, l’odore ha il sapore forte del vino nuovo che riposa tranquillo, ma pian piano diventa amaro come il caffè, la piccola capretta di Alice muore, viene sepolta vicino al laghetto perché possa ancora sentire le voci dei piccoli che giocano.
Ancora una notte insonne, ancora una volta qualcuno apre quel cancello, ancora uomini bianchi come angeli versano liquido, fiumi impetuosi  che bagnano quella terra, facendo raggrinzire quei ciuffi d’erba incolta che piegandosi su se stessi, finiscono al suolo, poi le loro sagome si nascondono velocemente tra la foschia.
Ecco che l’urlo collettivo fa eco, ma svanisce come nell’occhio di un uragano.
Il tempo sembra volgere inesorabile, l’inverno si è presentato con prepotenza, è in bianco e nero, la luce del giorno è breve e le notti senza stelle.
Corre veloce la notizia che è nato il piccolo fratellino di Alice, Lorenzo, un nuovo amico di giochi, ma non ha il sapore della gioia, i volti scuri, adombrati, anche l’aquilone cade al suolo, il piccolo Lorenzo è nato con l’arto destro incompleto, bisogna intervenire subito, amputargli la gamba e sostituirla con una protesi. Inizia la corsa, ospedali, medici, cliniche specializzate, viaggi, sofferenze, i genitori hanno il dolore scolpito in quella faccia di cera, c’è tanta tristezza negli occhi della gente, sono mesi lunghissimi, difficili, tra speranze e delusione, ma ecco che finalmente Lorenzo ritorna a casa nel suo paese.
Povero piccolo, lo stesso destino della sua capretta!
Ora comincio a capire chi sono i tanti fantasmi che si muovono indisturbati per questo paese. Quegli angeli bianchi, infernali, come assassini, hanno preso la vita di questa gente. Io sono solo un misero frammento di questo patrimonio e mentre mi ritrovo qui a vegetare, osservo e penso che dentro quelle tute non c’è un cuore, ma solo una marionetta insensibile. Pensavo che i fantasmi non esistessero, invece sono proprio qui, tra noi, come un vecchio che viene da un mondo antico, che cammina indifferente sotto il suo cappello, con i lineamenti non ben definiti, che vende la nostra terra per denaro e la uccide senza ripensamenti.
In un istante sono passati anni si sono alternate stagioni, in un batter di ciglio passerà la mia vita e la mia anima tornerà dal niente, da dove sono venuta, ma porterò con me solo i tristi ricordi, solo i volti di questa gente tradita, non sarò più trasparente, ma opaca e mi dico: «non essere triste gocciolina, non sei giunta alla fine, potrai ritornare cristallo di ghiaccio sulla cima di una montagna e riprendere il tuo viaggio».
Un tuono rimbombò dando inizio alle danze, un bagliore quasi accecante penetrò debolmente e mi mostrò una scala di fasci di luce. Risalii con fatica fino a raggiungere il soffice manto delle nuvole, dall’alto  scorgevo quel cimitero senza croci. Non ho mai capito cosa fossero quelle piccole goccioline nere che, troppo pesanti per volare, se ne stavano laggiù, accatastate, inconsapevoli del loro destino.
Di nuovo respiro a pieni polmoni, cercando di gustarmi ogni piccola particella di quest’aria così vellutata, che sotto forma di scie di vento descrive un tragitto confuso. Scivolo via come la prima volta e precipito quasi danzando su una pagina di giornale un po’ sbiadita, che aspettava di essere gettata, perché del giorno precedente.
Notai subito un particolare che richiamò alla mente la mia avventura, in quello stralcio di giornale dominava, su tutte le scritte sbiadite, quella foto ancora così chiara di Lorenzo, dietro le sue spalle si vedevano quelle montagne minacciose, piene di liquami velenosi e si leggeva: “quando decine di camion scaricavano tonnellate di rifiuti ogni giorno, noi protestavamo ma nessuno ci ascoltava, nessuno controllava. Ora i Noe hanno sequestrato quella cava, ma  nessuno è intervenuto per la bonifica, siamo stati abbandonati”.
Il dramma di Lorenzo non è finito, tutti sono stati assolti, tranne lui, che per tutta la vita dovrà continuare a scontare la pena della sua malformazione.
E così pian piano anche l’immagine di Lorenzo svanisce, ma questo inchiostro che lentamente scivola dalle pagine, si espande; ma la sua immagine rimane presente, anche se in una diversa disposizione.
E’ più il male che porta una scura goccia che scivola al suolo da quei camion, che la purezza che ripristina una limpida goccia d’acqua.
Caro piccolo, vedo la tua innocenza, la voglia di afferrare l’inafferrabile, ti osservo quando zoppicando corri avanti e indietro. Al vento i tuoi riccioli neri svolazzano come libellule, sento la tua voce gioire, intravedo dentro i tuoi occhioni neri la gioia di vivere e l’amaro della vita.
Sarà proprio con questi occhi che ti vedrai crescere, farti grande, diventare alto, le tue braccia forti e invecchiare.
Guarderai in faccia il mondo, non odiarlo, irati contro le ingiustizie, sopporta con pazienza il dolore, ricordati di non frenare la voglia di cambiarlo.








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