giovedì 6 giugno 2019

Kosmè De Maria - Family blues

Quell'orribile, gigantesca onda plumbea l'avevo già vista troppe volte apparire all'orizzonte della mia vita e avanzare, quasi volesse travolgere soltanto me di tutti quelli che popolano l'intero pianeta, incombendomi addosso con quella sua cresta minacciosa, orlata di spuma biancastra come scarico di detersivo.
Si sollevava con un rombo assordante dal fondo dei miei pensieri, così, all'improvviso, minacciosa e violenta come una mano pronta a ghermirmi, a trascinarmi lontano.
Anche ora me la sentivo montare dietro le spalle, mentre guidavo nella pianura scura, flaccida d'acqua, verso il mare, ma questa volta non mi avrebbe fatto più paura.
La stavo lasciando indietro e, quanto più velocemente mi allontanavo da quella che era stata per quasi quarant'anni la mia casa, tanto più il cavallone maligno si assottigliava, fino a sfrangiarsi, a sfilacciarsi, confondendosi con lo sfondo livido dei cirri ammassati alle montagne.
Ero libero? Stavo finalmente riuscendo a fuggire?
Ancora non lo sapevo del tutto, troppi pensieri, troppi ricordi allucinati mi ingombravano la mente, tanto che mi pareva di non avere vissuto in prima persona tutto quello che era stato.
E pensare che avevo attraversato un periodo così gramo che, per il panico, non ce la facevo neppure più a uscire dalla mia stanza.
Un serpente che si morde la coda.
Quando si guida è il momento ideale per riflettere, succede a tutti: si inserisce il pilota automatico e la testa sembra rotoli via nel tempo e nello spazio al ritmo veloce delle ruote, con tutti i pensieri dentro. Rimane sempre un controllo remoto, come se ci fosse un altro al posto nostro.
Alle volte, però, sarebbe davvero meglio non esserci.
- ... Dato che la pensi così, te la puoi cavare da solo, ma ricorda che tuo fratello ha ancora bisogno di me, io mi sono spaccato la schiena per voi, ho tirato su una famiglia, che chissà che fine facevate tu e quella lì se non mi incontravate, e ora mi volete cacciare fuori da casa mia!
 - Papà, sai bene di mentire anche a te stesso, siamo arrivati a un punto di non ritorno - e la voce mi tremava per la rabbia repressa. Mia madre sedeva singhiozzando in un angolo della cucina.
- Tu prendi sempre le sue parti, ti lasci abbindolare come un fesso dalle sue solite moine...
- Oggi le hai messo nuovamente le mani addosso, papà, e se non ti prendo a cazzotti, è perché
sono sempre stato un figlio fin troppo rispettoso...

- Tu per me non sei mai stato davvero un figlio... - queste le sue ultime parole, bisbigliate con disprezzo, mentre usciva sbattendo la porta.
Meglio perderlo che trovarlo uno così, coi suoi modi rozzi, brutali, che, da piccolo, mi facevano pisciare addosso dal terrore, e ora continuavano a mettermi a disagio.
Mio padre Vincenzo..., o non era davvero mio padre? Poiché non poteva essere andata così, non aveva alcun senso.
Ma noi due non ci somigliavamo per nulla... Oppure sì, forse per qualcosa, ma mi durava fatica riuscire a ricordare cosa fosse, ora che la musica dell'autoradio mi invadeva, come un dolcissimo nettare tutto da bere con le orecchie.
Ah, la musica, se non ci fosse stata lei, forse mi sarei già fatto fuori in uno di quei momenti in cui niente girava bene: l'amore a rotoli, il lavoro che non c'era ancora, mia madre uscita di testa, mio fratello che stava rischiando troppo con la sua vita sregolata, uguale spiccicata a quella del padre...
Vincenzo e suo figlio, loro sì che si somigliavano davvero, e in tutto.
- Perché te ne vai? Perché mi lasci solo proprio ora che ho più bisogno di te? - mi aveva gridato dietro Fabio, strattonandomi per la manica del giubbotto, quasi a impedirmi di raggiungere la porta, ma io avevo tirato dritto, girandomi soltanto per sussurrargli, senza neppure un filo di astio nella voce: - Lasciami partire, fratellino, non è questo il momento di fare le tue solite menate, per te ci sono sempre stato, prometto che tornerò, ma questa volta si tratta della mia vita...
Due pianeti diversi, noi due, nati dal grembo della stessa madre, una ragazza con tanti problemi, una donna con troppi rimpianti, ma non ancora del tutto sopraffatta dal destino.
Le mancava solo un poco a soccombere, chissà se fosse la stessa onda assassina da disaster movie di serie B a minacciare anche la sua di vita - mi sorpresi a pensare - però qualcosa in lei resisteva, un fragile steccato di amor proprio eretto contro la furia devastante d'un uragano.
Con lei si stava bene, non c'erano tensioni, non c'era dolore. C'era la consapevolezza di abbandonarsi a un amore dolente, esausto, rassegnato, ma assoluto.
Quello che ci si aspetta da una madre, aldilà di tutto il resto.
L'ho amata tantissimo, tanto che, a volte, mi capitava di compatirla, di provare dolore con lei, quasi che la mia di sofferenza non fosse già abbastanza dura da sopportare.
Era come se noi due, l'uno di fronte l'altra, ci guardassimo allo specchio e, senza più alcun pudore,
disvelassimo reciprocamente le disillusioni e le cicatrici dei traumi subiti dalle nostre anime, nel continuo, disperato tentativo di soppesare quanta forza rimanesse ancora per resistere.
C'erano stati tempi felici per la nostra famiglia?
Non riuscivo a ricordarmeli, neppure sforzandomi di trovare belle situazioni appena accettabili.
Non volevo più neppure ricordare quante volte potesse essere successo qualcosa di sgradevole, forse ogni giorno della mia maledetta esistenza.
Un supplizio infinito.
Ecco perché questa volta avevo detto a Fabio di non rompermi le scatole, di farla finita almeno per un po' di tempo, avevo bisogno di vivere, di respirare con la testa fuori dalla melma.
Troppi erano stati momenti in cui la normale complicità fraterna aveva assunto il colore di una stralunata paternità, da fratello maggiore ero stato tante, troppe volte il padre di Fabio, senza averne ancora né la cognizione, né la necessaria maturità.
Io ero stato comunque sempre meglio del padre vero.
Più amorevole e più presente.
Ma ora ne avevo proprio le palle piene.
Acqua passata, i ricordi brutti però sono quelli che ti rimangono più impressi nella mente, anche se tenti di cacciarli via con tutte le tue forze, delle cose belle ci si scorda troppo presto, purtroppo.
Il sorpasso fra due camion, addobbati di luci come onirici alberi di Natale lanciati in corsa, mi riportò per un momento al presente, misi la freccia, sterzai senza fretta verso la terza corsia, assicurandomi che non ci fosse nessuno a percorrerla.
Viaggiare veloci nella notte padana, così dritta e interminabile, carica di promesse di qualcosa che abbiamo la certezza di trovare oltre, soli con i nostri pensieri che, finalmente, si mettono ordinatamente in fila come su di un tapis roulant, e non ti si aggrovigliano addosso...
Lasciarsi alle spalle paesi coi loro campanili dritti come fusi impigliati nell'oscura caligine estiva, svettanti sulla piatta distesa di campi e cascine, boschi e acque, binari e capannoni.
Fino a questa sera non mi era mai capitato di abbandonare la via vecchia per la nuova, avevo sempre avuto troppa paura di riuscire ad affrancarmi da quel malessere che rimaneva comunque la mia ragione di vita.
Non c'era mai stata una contropartita sufficiente a spronarmi, a darmi il la, come mi succedeva, invece, quando imbracciavo la chitarra per provare un nuovo pezzo e lì saltava fuori tutta la mia vera passione e la mia anima di poeta si ritagliava un attimo di tregua, esprimendosi in libertà.
Ero divenuto molto prudente, questa cosa almeno io l'avevo imparata dalla mia esperienza sgangherata: non c'è mai fretta di cacciarsi nei guai.
Mio fratello invece no.
Sembrava che i casini se li andasse a cercare, che vivesse lo stesso delirio di onnipotenza di chi lo aveva messo al mondo.
Non si era fatto mancare niente, neppure i pasticci più bastardi, quelli in cui è meglio, davvero meglio non cacciarsi.
Malgrado io gli avessi sempre ripetuto che le cose sarebbero potute finire male, che gli altri non sono tutti degli stupidi e che lui non fosse l'unico a farla sempre franca sulla faccia della Terra.
C'è sempre una legge cui adeguarsi, pena la riprovazione sociale. C'è sempre qualcuno più dritto di noi che si mette di traverso sulla nostra strada e ce la farà pagare cara se gli pestiamo i piedi.
Fiato sprecato.
Però, a un certo punto, ti accorgi che non puoi vivere sempre in funzione degli altri, che non puoi eternamente portarti appresso il fardello dei tuoi cari, anche se tu vuoi loro bene, anche se sei il più forte, o fingi di esserlo per la disperazione.
Il lavoro?
Beh, quello era arrivato, ma avevo dovuto sgobbare per insegnare ad altri cosa fosse meglio non fare...
E poi un bel casino anche nell'amore, tante storie spesso finite appena sul nascere e l'ultima, quella durata un po' di più, che mi aveva straziato il cuore.
M'ero infilato da solo, per spudorato romanticismo, per quel senso disperato di giustizia che ho dentro, per mia ingenuità, in un romanzaccio fatto di intrallazzi, menzogne e tradimenti.
Gemma mi aveva usato per far ingelosire il proprio compagno e poi tornare da lui, magari dopo il rituale pestaggio dell'intruso, a dimostrazione d'essere la femmina destinata in premio al più forte.
Che non sarei di certo stato io.
Certe volte le donne esagerano proprio.
Ero stato un vero cretino a non accorgermi subito di quella bizzarra e crudele messinscena, ma avevo tanta fame d'amore dentro che anche un surrogato di bene era sempre meglio di niente.
Mi toccava sempre di vivere quelle situazioni in mezzo a un guado, in cui non riuscivo mai ad arrivare dall'altra parte, sulla sponda della felicità, della realizzazione di me, della serenità, sempre lì, quasi a portata di mano, ma in realtà irraggiungibile.
Perché?
Già, perché?
- Un tipo giusto, uno sempre aperto e disponibile, uno che non ti lascia se sei nei casini, che ti ascolta e ti riaccompagna a casa la notte, che non ti chiede di fare l'amore al primo appuntamento, che ti rispetta... - i giudizi delle ragazze su di me si sprecavano, ma più d'una volta m'ero ritrovato a cantarmele da solo le mie canzoni.
Da solo per le strade deserte della mia città di provincia, intrisa di nebbia o d’afa, a seconda delle stagioni e di nient’altro…
Di una sola cosa le ero grato: vi avevo conosciuto Barbara.
Un esame d'Università sostenuto insieme quindici anni prima, e poi, per lei, nuovamente una partenza improvvisa, dietro a una famiglia che si spostava su e giù per l'Italia con l'impazzimento di un go kart.
Il mio primo amore. Quella che mi tornava in mente quando scrivevo i testi delle canzoni. Quella cui non avevo mai davvero smesso di pensare.
Non ci eravamo più rivisti, forse perché non eravamo ancora pronti a farlo, troppo presi dalle nostre personali storie per dividerle con un altro...
Così ciascuno di noi due aveva vissuto un pezzo di vita in solitaria.
A lei non era andata male, di me sapete già tutto.
Poi un sms dallo spazio intergalattico, roba da non crederci, una telefonata inaspettata, e un cercarla affannato su FB, tanto per sapere dove fosse finita.
Era andata a stare proprio là dove finiva l'autostrada, dove la terra si lascia bagnare dal mare e gli inverni sono miti e non intrisi di nebbia, dove si canta e si suona sia nella bella, che nella brutta stagione.
E ora mi aspettava, forse per chiedermi di persona, guardandomi negli occhi e non soltanto con un messaggio via web, se tra noi sarebbe stato finalmente possibile ricominciare.
Ancora un ultimo, piccolo sforzo, una manciata di chilometri nella notte che già schiudeva dolcemente gli occhi al sorgere del giorno e poi saremmo volati l'una nelle braccia dell'altro.
Come ai vecchi tempi, quasi che tutti quegli anni trascorsi lontano non fossero stati altro che un breve, ma necessario intervallo, tanto per riprendere fiato tra un bacio e l'altro, in quel nostro disordinato amore, non di certo concluso, ma più vivo che mai.

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