Avevo pochi mesi allorché nel 1939 mio
padre , mastro muratore e costruttore di
case emigrò in Venezuela, scampando
appena in tempo alla chiamata alle armi
ed all’entrata in guerra dell’Italia. Con
l’inizio del conflitto ed il massiccio abbandono dei campi e delle fabbriche
per la chiamata alle armi, iniziarono ad
aggravarsi le già precarie condizioni
economiche della popolazione del mio
paesello come del resto d’Italia. Del periodo bellico ricordo vividamente lo stato di
privazione mia e di mia sorella, ma soprattutto di mia madre, che senza entrate, per noi si toglieva
il pane dalla bocca. Per questo
si ammalò di anemia cronica , che poi
,da medico ,ho capito che si era trattato di vera e propria carenza alimentare. Mamma
mia, periodicamente, era costretta a recarsi assieme ad altre donne, in Calabria , con i treni merci ,per
barattare biancheria del corredo, con
grano, legumi , fichi secchi ed altre derrate .Ricordo che , al suo ritorno, le
andavo incontro sulla strada di casa, per buttarmi felice tra le sue braccia.
Quanto mi rammarico di non aver raccolto e trascritto i suoi proverbi ed i detti popolari che conosceva a dovizia.
Allora , vicino casa, era accampato un drappello di cavalleggeri,
con i cavalli, come presidio militare. Erano tutti dell’Alta Italia
che da subito avevano familiarizzato con
la popolazione a cui non raramente
allungavano un po’ di rancio. Con il tempo alcuni sposarono pure donne locali.
Ricordo che spesso andavo a curiosare
nella fucina del maniscalco, affascinato
dal bagliore dei carboni ardenti e dalle scintille che sprizzavano dal ferro
battuto. Un giorno che il fabbro buttò per terra un pezzo di ferro dopo averlo
fatto raffreddare nell’acqua facendola
sfriggere,lo raccolsi credendolo freddo e mi ustionai la mano. Mia madre , cercò di lenirmi il dolore ungendomi la mano
con olio di oliva.
Ricordo quando i soldati uccisero con un
colpo di randello un gatto sorpreso a mangiare nella dispensa, che poi cucinarono per tutti.
Lo fecero assaggiare pure a me.Com’è vero che il miglior condimento è la fame. Quanto
era buono!
Ricordo
il 15 agosto del 43, il bombardamento di Sapri, di cui si
udivano i sibili sinistri e gli scoppi raccapriccianti delle bombe, essendo poco distante in linea
d’aria da noi.Gli angloamericani
credendo di aver individuato un deposito militare importante la
bombardarono con circa 30 bombardieri a
seguito di cui fu distrutta al 70% con la
morte di 83 civili, di cui 22 bambini.
Questo evento, dalla storia, non viene nemmeno menzionato ma la cittadinanza di Sapri lo tiene ben vivo nella memoria.
Ricordo l’otto settembre del 1943
,allorché tutti i cavalleggeri
uscirono in strada con i loro fucili per sparare in aria ripetutamente
per festeggiare l’armistizio mentre io
raccoglievo i bossoli di ottone per terra. Nessuno pensava che i guai
per l’Italia non fossero finiti e che il peggio dovesse ancora
venire.
Durante lo sbarco anglo-americano tutti ricordano l’accanito mitragliamento
delle torri di avvistamento antisaraceni costruite nel Cinquecento lungo la
costa scambiati per fortilizi militari, abbaglio che si ripeterà in maniera
eclatante per l’abbazia di Montecassino alcuni mesi dopo. Io e molti altri
subacquei , anni dopo, abbiamo raccolto
centinaia di bossoli di mitraglia d’aereo caduti in mare. Ancora oggi sulle
mura spesse tre metri di queste torri ,
si vedono i fori e le brecce aperte dai colpi.
Ricordo dello scontro aereo che ci fu proprio
sopra il cielo del mio paesello tra un
caccia angloamericano ed uno tedesco. Questo ultimo ebbe la peggio e precipitò
sopra una montagna vicina . L’aviatore si lanciò con il paracadute. Pur essendo atterrato alcuni chilometri distante, in poche
ore raggiunse a piedi i resti del suo
aereo .Poi , minacciando con un revolver ,tenne in scacco la popolazione per un
paio di giorni prima di consegnarsi ai carabinieri. Voleva sparare in testa ad
un mio cugino che cercava di recuperare la sua vecchia bicicletta arrugginita
che il germanico gli aveva sequestrato.
Tra lui e mio cugino si frappose la madre disperata con le braccia
aperte per impedirgli di sparare, salvandolo a stento. Ogni volta che ricordo
questa scena mi sovvengono “I disastri
della guerra” di Goya.
Ricordo
il fragore dei blindati ed il
cigolio degli anfibi anglo-
americani sbarcati, diretti a Salerno,
che passarono proprio davanti casa mia ed i soldati che lanciavano alla
gente gallette.
In quel periodo con i miei compagni
avevamo costituito una vera e
propria banda di scugnizzi. Assieme giocavamo alla “guerra
francese” un gioco ereditato a seguito
del passaggio delle truppe napoleoniche
, che non richiedeva palle o attrezzi
ed a “strummulo” gioco che consisteva nell’avvolgere una cordicella
attorno ad una trottola di legno munita di
punta di ferro, che costruivamo
da noi e poi nel lanciarla per colpire quella dell’avversario. Andavamo a caccia di uccelli con la
fionda o i “lazzuli”, trappole , che
costruivamo, per acchiappare i passerotti usando come esca un’oliva .Ma il
massimo divertimento consisteva per noi,
sempre affamati ,nel rubare per le campagne: ciliegie , nespole , fichi e altra
frutta varia. Non raramente capitava di essere inseguiti da vecchi contadini
inferociti, perché i giovani erano tutti alle armi, che appunto per l’ età avanzata riuscivamo
facilmente a seminare.
Durante una di queste scorrerie
ladresche, nella fretta ingurgitai il
seme di una nespola. Allorché giunsi a
casa ,preoccupato lo raccontai a uno zio . Questi, forse per scoraggiarmi dal
fare future marachelle , fingendosi
visibilmente preoccupato, mi disse che da lì a qualche mese mi sarebbe spuntata
nella pancia una pianta di nespole che con il tempo sarebbe diventata sempre
più grande. Da allora per mesi vissi nel terrore che mi spuntasse l’albero e
ogni momento mi guardavo la pancia e mi tastavo la pelle.
Ricordo
il nonno paterno, perché abitavamo a
casa sua, che mi raccontava la sera davanti al fuoco, leggende e favole finché mi addormentavo. Allora mi prendeva in braccio e cullandomi con le
mani mi cantava la ninna nanna: “dormi…
dormi… niputello mio, dormi… dormi… ndà candarella i papoppo… dormi… dormi
niputello mio…”. “Candarella di papoppo” stava per culla del nonno.
Durante la guerra, riuscire ad allevare un maiale era
risolutorio per la fame e per la
carenza proteica.Ricordo che mia
sorella, più grande di me di un anno, provvedeva a raccogliere per i campi ,durante
l’intera giornata, erbe mangerecce, ghiande e radici per il maialino che come
la sentiva avvicinare da lontano iniziava a inerpicarsi sul muretto del porcile
con le zampe anteriori ed a grugnire
festosamente.Nel mese di dicembre, prima di Natale , si usava uccidere il
maiale per poi consumarlo tutto senza
buttare nulla come ovunque, ma allora più che mai. Quattro robusti contadini
afferravano il porco e dopo averlo sbattuto per terra e immobilizzato tra
stridenti e acuti grugniti che si
sentivano a distanza di chilometri e che evidentemente dimostravano che
l’animale non fosse d’accordo, veniva scannato all’istante con un affilato
coltello raccogliendo il sangue in un
recipiente , per poi farne gustose pietanze di sanguinaccio. Poi veniva
squartato e fatto a pezzi per preparare numerose varietà di salumi ed i prosciutti. Con le interiora si friggevano in vario modo le frattaglie. Gli intestini servivano come
contenitori dei salumi. Con lo stomaco si cucinava un’appetitosa trippa. Con la
pelle si cuocevano le cotenne. Con le
zampe si ricavava il cotechino e lo zampone. La coda corta e pelosa veniva usata come scopino. Con i
residui della carne grassa si assortiva
la “cicola”, ammasso
compresso che residuava dopo averla cotta e spremuta del grasso con cui
si faceva la sugna bianca. Questa veniva conservata a parte nella vescica del
maiale e poi utilizzata per svariati usi ma soprattutto in cucina in
alternativa all’olio di oliva. Per me la “cicola” assieme al sanguinaccio a
base di riso con uva passa e pinoli
erano i manicaretti supremi. Ma soprattutto ricordo il pianto irrefrenabile di mia
sorella che dopo aver cercato di
impedire l’uccisione del suo “nico” con
pianti e strepiti non riusciva a darsi pace perché avevano ucciso il suo
porcellino a cui si era affezionata, che sin da piccolo , l’aveva adottata come madre.
Allora c’era carenza di tutto. Ricordo
che su richiesta di mio nonno paterno a letto ammalato , andavo a staccare la
corteccia dal tronco di una grande
pianta di vite che poi tritavo affinché
potesse utilizzarla come surrogato del tabacco e prepararsi con piccoli pezzetti di carta le
sigarette.
I bei tempi che furono, sempre
tanto decantati e rimpianti ,lo
saranno stati per la nobiltà
decaduta, nostalgica di un passato
allorché essere nobile garantiva
privilegi , ma non certo per il popolo. A sentire quello che raccontava mio
padre di come fosse la vita per un popolano del mio paesello, negli anni
venti-trenta, il cosiddetto “sfasulatu”, cioè colui che era tanto povero da non
avere nemmeno i fagioli, che da sempre erano stati la carne del contadino, quella
dopo il boom economico era come stare in paradiso. Giorni fa leggevo sul
giornale che una grande famiglia di
imprenditori di Treviso aveva invitato
ad una suntuosa cena trecento VIP il cui piatto principale, elaborato da
un noto chef ,era stato a base di pasta
e fagioli. Mio padre raccontava
,che a quattordici anni fu
iniziato all’arte muraria, dal padre, alias mio nonno , mastro muratore di
vaglia, che era stato l’artefice delle mura e dei ponti della strada
provinciale del mio paesello finanziati
dal fascismo , ancora completamente integri dopo quasi cento anni. Per tre
anni, come apprendista, dové caricarsi sulle spalle e trasportare la “cardarella” piena , un recipiente metallico a cono tronco che poteva contenere fino a venti chili di calcestruzzo, su per le scale a pioli, per
rifornire i muratori. Doveva impastare
,per il restante tempo della giornata lavorativa, la calce con l’arena. E
questo dall’alba al tramonto. La sera la cena consisteva in un pezzo di “pane
nero” che era il pane dei poveri, senza
un filo di olio né companatico assieme ad un bicchiere d’acqua, per poi andare
a dormire assieme a tutti i fratelli in un unico grande letto con un materasso imbottito di sfoglie secche di pannocchie di granturco.
Oggi il pane integrale viene venduto
nelle panetterie come bene di lusso. La vita per i braccianti era ancora più dura. Il mattino all’alba, di
giorno in giorno, dovevano andare in piazza ad aspettare che qualche “caporale”
li assoldasse per lavorare nei campi duramente, dall’alba al tramonto per pochi spiccioli, cosa che capitava quasi
solamente durante i raccolti. E mio padre ci teneva a dire che la vita dei suoi
avi era stata ancora più dura e con più privazioni. A parte la domenica non
c’erano ferie. Non c’erano né mutue né
ospedali. Il medico se lo dovevano pagare di tasca propria . Quando era la
festa del patrono del paese il suo premio consisteva , unico in un anno intero di duro lavoro, in due soldi di
rame con cui riusciva a comperare un
piccolo cono di carta gialla pieno di
lupini e una piccola statuina di zucchero colorato di Cecco Peppe ,
alias Francesco Giuseppe Imperatore d’Austria e Ungheria. Questi racconti la
dicono lunga sul perché del massiccio esodo, nel mondo, di Meridionali che ci
fu specie dopo l’unità d’Italia ed ai primi del Novecento.
Al mio paesello ,da sempre ,fino
all’arrivo del gas ,il focolare è sempre
stato non solo l’unica fonte di riscaldamento
durante l’inverno ma anche la
maniera più comune per cucinare durante l’intero anno. Per
questo motivo a tutti i miei paesani, specie le donne, sulla pelle della parte
anteriore delle gambe, esposta al fuoco, si formavano i “ruezzi”che erano delle
striature rossastre, veri e propri esiti di ustioni. Oggi il camino durante l’estate non viene più
acceso , fatto salve in qualche sparuto
casolare di campagna, ma viene ripristinato ancora, in quasi ogni casa ,durante
l’inverno come fonte di calore alternativo o supplementare al riscaldamento a gas. A Natale , i pochi
paesani emigrati che di tanto in tanto fanno una rimpatriata nella loro madre
terra è attorno al focolare che ritrovano i ricordi della loro infanzia e
l’essenza della loro anima. Il camino , in tutto il mondo, anche se oggi è obsoleto
come calorifero resterà sempre in
uso come residuo atavico nella nostra memoria filogenetica del vecchio focolare
,attorno al quale , a far capo ad almeno
400 mila anni fa il nostro antenato
l’Homo erectus sicuramente già si riuniva con la famiglia. Al mio paesello
ancora si respira, nel periodo natalizio, assieme all’aria acre e odorosa di
legna bruciata nei camini, l’atmosfera di miti e di vecchi racconti. Ricordo
tra le tante leggende che mi narrava il nonno paterno, oltre a quella del
brigante Musolino che aveva imperversato in Calabria ai primi del Novecento
, quella del “mummacello” e del “lipombinu” alias il lupo
mannaro. Il “mummacello”, a sentire gli anziani che ne parlavano convinti e con
fervore, lo avevano visto tutti più di
una volta . Per questo motivo al “mummacello” finivano col credere pure
coloro che non lo avevano visto mai. Era un ometto senza tempo, quanto
un nano, scherzoso e beffardo che di
tanto in tanto compariva sornione davanti al focolare o accanto al letto per
fare boccacce o marameo. Oggi potremmo
assimilarlo ad uno hobbit. A pensarci bene doveva essere più un’allucinazione
ricorrente , frutto della fame, che parto
della fantasia popolare. Peccato che del “mummacello” oggi non se ne parli più. Perché se è vero che non
c’è più sua madre, la fame , abbiamo perduto pure suo padre: il mito incantato.
“U
lipombinu” cioè il lupo mannaro, più che un mito popolare derivante da lontane origini di fame atavica, come “u
mummacello”, è rapportato scientificamente al licantropo, cioè a colui che è
affetto da licantropia, forma di profonda crisi di sconforto
, assai diffusa un tempo in cui la grande miseria in Europa era di casa
. Ritengo che nessuno più di Munch “con il grido” abbia rappresentato meglio
questo stato esistenziale dell’uomo. Dalle mie parti i nonni , chiamati “mamma
rossa” e “tata rosso “a seconda il sesso, che erano i detentori dei racconti e
delle storie in tempi di grande analfabetismo e senza televisione , alla luce
dei lucignoli a olio di oliva ,dicevano con convinzione che quando ti trovi
davanti a “nu lipombinu”, per
neutralizzarlo devi pungerlo con un punteruolo oppure con la lama di un piccolo
coltello. E quei nonni quando lo raccontavano
lo facevano convinti di narrare una cosa vera, reale a salvaguardia dei
nipoti.
La fame, che era il condimento primario
durante il periodo bellico, non faceva mancare le prelibatezze . Bastava
accontentarsi e non aver conosciuto le mense ricche. Così le castagne al forno
che preparava mia madre erano una di queste, assieme ai fichi secchi profumati
dall’essenza di alloro di cui si impregnavano
nelle cassapanche ove venivano
conservati. Quelli poi eccezionalmente
farciti con noci e/o mandorle erano il non plus ultra delle leccornie.
Così una prelibatezza era scrostare con il cucchiaio la “maracucciata” ,la
polenta che rimaneva attaccata alle pareti interne del pentolone di rame in cui
si metteva a cuocere sul fuoco nel camino
oppure mangiare quella commista con i “tozzarelli”, piccoli pezzettini di pane abbrustoliti. Per
non parlare delle patate arrostite nella brace che covava sotto la cenere del focolare, che pulivamo alla buona con le
mani e che mangiavamo con tutte le
bucce, che costituivano la parte più gustosa.Anni
dopo, da medico, dovevo apprendere che mangiare cibo commisto con cenere o
terra da parte dei bambini poveri del terzo mondo serve, quale contropartita
alla denutrizione, come integrazione minerale e che la sporcizia a questi
fanciulli oltre a fungere da vaccinazione plurima gratuita li premunisce dalle
allergie, di cui invece soffrono di frequente i
bambini superpuliti dei paesi ricchi.
Ricordo allorché frequentavo la seconda
elementare che la maestra, una donna bassa, tozza , pettoruta e con un evidente
accenno di baffi, spesso e volentieri mi propinava delle forti bacchettate sulle mani allorché
sbagliavo e se le schivavo me le suonava sul corpo. Questa consuetudine di
bacchettare anche duramente i bambini nelle scuole elementari al mio paesello è
durata fino a qualche lustro fa, proseguendo nella tradizione di Orbilio, il
maestro che Orazio ricorda soprattutto
per questo tipo di abitudine. Oggi a questi maestri, qualora fossero sfuggiti
al linciaggio da parte dei genitori dei bambini , avrebbero sicuramente
comminato l’ergastolo.
Per radio, avvinti, ascoltavamo
Mussolini allorché a piazza Venezia arringava le masse oceaniche o pontificava
al popolo italico. Ogni volta che rivedo i film luce girati a quei tempi
osservo come allora la popolazione fosse magra in paragone a quella delle
manifestazioni popolari attuali.
Quando sono preoccupato per l’attuale
crisi economica penso alla famiglia di un ciabattino povero durante la guerra,
costituita da lui, da 18 figli e dalla moglie che veniva soprannominata “la
coniglia” per averli avuti malgrado quattro aborti. Fino alla caduta del
fascismo aveva ricevuto il sussidio del governo che incoraggiava la natalità a
ogni piè sospinto perché occorrevano figli per “fertilizzare” l’Impero. Dopo
l’otto settembre, rimasto senza sussidio, il povero ciabattino allorché i figli
sentivano fame e gli andavano a chiedere del cibo diceva loro: “figli miei
mangiate me, mangiate me”. Quei ragazzi per sopravvivere si nutrivano dei fichi d’India che abbondanti crescevano nei
dirupi e di erbe di ogni tipo. Ciononostante
tutti sono sopravvissuti e si sono
sposati e sistemati. La moglie, di aspetto portante, morto il marito, ebbe ancora proposte di matrimonio.
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