«Non ho capito».
«Carlo sono tre volte che te lo
ripeto!».
Sotto ai portici della piazza
principale, Giacomo dà le ultime direttive. Sono le tre di notte, il cielo è
coperto, niente stelle, la luna sbuca da una nuvola per sbirciare cosa sta
accadendo.
Ci sono trenta persone, tutti uomini,
divisi in gruppi ai due lati della piazza. Aspettano il segnale.
«Quando accendo questa torcia a led
rossi, ci buttiamo tutti in mezzo, ok?».
«Ma in mezzo in mezzo? Non è
pericoloso?».
«Carlo, maledizione, ne parliamo da
giorni. Ora non è il momento di discutere. È in fondo alla strada, lo senti?».
«Sì, lo sento».
Alla fine della strada, fermo ad un
semaforo, un ragazzo con un casco nero sgasa strepitante sulla sua moto di alta
cilindrata.
«Ecco. Stanotte non la passerà liscia
‘sto bastardo».
Così dicendo, Giacomo passa a controllare
che tutti gli altri siano al corrente di quanto accadrà. Passeggia sotto il
portico più vicino, dà pacche sulle spalle, buffetti in testa, stringe mani,
abbraccia persone che fino a un mese fa conosceva appena. Sembra un generale
che attraversa le sue truppe alla vigilia di una battaglia decisiva. E ritempra
gli animi più sconsolati, quelli più impauriti, quelli che ancora si stanno
chiedendo se è davvero questa la cosa giusta da fare.
«Per me stiamo facendo una cazzata,
Già».
«Ne abbiamo parlato a lungo, alle
riunioni. Abbiamo deciso insieme. Ora non possiamo tirarci indietro, non
credi?».
Giacomo passa oltre, attraversa di corsa
la strada e raggiunge il portico di fronte, speculare al primo, dove
altrettanti sono in attesa del segnale.
«Allora aspettiamo te, Già. Gliela
facciamo pagare a quel bastardo».
«Sì, stasera pagherà per tutte le notti
che ci ha rovinato. Ci faremo giustizia da soli».
A Giacomo piace l’atmosfera che c’è.
Un’atmosfera solidale, o forse solo simile a qualche tipo di amicizia. Vive in
questo piccolo paesino di provincia da quando si è sposato, trent’anni fa. Ma
poche volte ha alzato il braccio per salutare, sorriso a qualche sconosciuto,
preso un caffè al bar centrale. Mai ha organizzato qualche cena, o preso parte
a comitati di quartiere, consigli comunali, associazioni, proloco, gruppi di
preghiera o di un qualsiasi tipo di sport o attività.
Ha vissuto la sua vita a una distanza
esatta dalla vita, per scelta o per necessità o per qualche assurda dinamica
interiore che gli è sempre sfuggita di senno. Ha passato gli ultimi anni della
sua vita da solo, laggiù, alla fine della strada, al primo piano dell’ultima
casa prima del semaforo. Sua moglie se n’è andata in tre mesi, per un cancro al
seno. Sua figlia in tre giorni, dopo aver compiuto diciott’anni, alla ricerca
di se stessa in giro per l’Europa con un gruppo di artisti di strada. Lui è
rimasto coi suoi 50 anni, il suo cane, la sua chitarra e le camicie sempre più
sgualcite. All’epoca, diceva spesso a sua moglie che mancava ancora tanto per
essere felici. Oggi a se stesso dice le medesime cose. Però poi, si ricorda
felice quando sua moglie gli passava una mano sul petto mentre vedevano la tv,
o sua figlia gli chiedeva di ascoltare la lezione di storia. Come funziona
allora? Se prima era felice e non se ne accorgeva, può essere che lo sia anche
ora? E se lo è anche ora, perché si sente diverso da prima? Quanti lati ha la
felicità?
Non lo sa. Ma sono stati molti di più i
giorni di silenzio, che gli altri. Forse per questo adesso sorride. Adesso è al
centro di questa notte. Ha organizzato tutto. E lo cercano, hanno bisogno di
una sua parola, di stimolo, di motivazione. È il capetto di questo gruppo di
esaltati, e combatte la titubanza dei più restii all’offensiva con discorsi
degni di un comandante di frontiera.
«Volete ancora, amici, che le vostre
famiglie passino notti insonni? Volete che vostro figlio si addormenti sul
banco di scuola e vostra moglie si schianti addosso a qualche palo mentre va a
lavoro?».
Gli occhi di tutti sono addosso a lui.
Le orecchie tese.
«Volete essere costretti a chiudere le
finestre anche d’estate? Volete che un bamboccio in motocicletta decida quando
interrompere i vostri sogni più belli?».
Quest’ultima frase suscita molto
entusiasmo. Qualcuno accenna un piccolo applauso. Sono tutti con lui.
«Quando
vedrete questi led rossi, tutti in strada».
Osservare la dedizione con cui ognuno
cerca di fare ciò che gli è preposto, farebbe ipotizzare un antico rapporto di
cooperazione. Un’associazione. Vecchi intenti perseguiti insieme. Invece no.
Sta tutto in piedi da un mese appena. È successo in breve tempo.
Un giorno, Giacomo passeggiava lungo il
corso e ha incontrato un conoscente. Parlando delle solite sciocchezze, è
uscito fuori di come fosse diventato difficile dormire per quei poveretti che
avevano la finestra della camera da letto sulla strada principale. Insomma,
quell’uomo aveva notato una ciclicità preoccupante. Ogni notte, intorno alle
tre, un clacson di motocicletta deflagrava in un unico e fastidiosissimo suono
lungo quanto la strada. Si trattava con ogni probabilità di qualche bastardo
che si divertiva in quel modo sciocco e sgradevole. Giacomo si stupì di aver
notato la stessa identica cosa, senza però dare a quella ciclicità di orario un
significato simile. Così iniziò a farci caso. E si rese conto che la puntualità
di quel disturbo era esatta. Quasi imbarazzante.
Contattò quel suo amico e una sera
andarono a mangiare una pizza insieme. Vennero anche due vicini di casa.
Parlarono di cosa fare. Fu una bella serata. Giacomo non ne ricordava una così.
Bevvero birra e parlarono di lavoro, di donne e di come a volte la vita sappia
deludere ma senza mai rimuovere le radici. Magari recide il fiore, il bocciolo,
persino il gambo e le foglie, ma le radici le concede sempre.
E in qualche modo si rinasce.
Così decisero di vedersi ancora. Qualche
giorno dopo, stessa pizzeria. Ognuno aveva l’incarico di reclutare altre
persone infastidite da quel maledetto clacson che la notte teneva sveglie le
famiglie della via principale. Alla seconda cena erano in sei. Alla terza
dodici. Dalla quarta in poi decisero di vedersi nel retro di un bar di
proprietà di uno di loro, in una sala dove solitamente si giocava a carte. Si
poteva parlare con calma, in un ristorante c’era troppa confusione e le
tavolate numerose non erano ideali per confrontarsi.
Giacomo ha vissuto tutto questo periodo
in apnea. Senza porsi questioni, domande, problemi. Ha avvertito solo di far
parte di qualcosa, una volta tanto. E questo lo ha rasserenato.
La notte il clacson suonava. E quello
sembrava l’unico elemento a giustificare quella serenità. Un rumore di notte
che teneva insieme un gruppo di persone diverse, fino a qualche tempo prima
sconosciute, o ostili. Un rumore che aveva creato rapporti.
E si accorse di provare qualcosa di
simile all’apprensione. Giacomo arrivò a mettersi la sveglia qualche minuto
prima delle tre. Per essere sicuro che quel clacson suonasse ancora, di nuovo.
Per essere sicuro di sentirlo, e non sognarlo.
Di lì a poco, decisero di andare dai
carabinieri. Tutti insieme. Scrissero un foglio, raccolsero firme. I
carabinieri ascoltarono le lamentele, ma precisarono che serviva flagranza.
Loro potevano mettere su un posto di blocco, fermarlo, chiedere i documenti, ma
nulla più se non lo coglievano con il clacson strombazzante. Giacomo disse loro
di mettersi nei loro panni, le loro mogli non dormivano più, i loro bambini
piangevano. La loro vita era diventata una sciagura. Disse così, una sciagura.
Ci provarono una notte di quelle. Gli
agenti si misero con la macchina appena dietro la curva. A sirene spente.
Fermarono un paio di automobili. E aspettarono fino alle quattro passate, ma
non passò nessuno.
La questione era semplice: il ragazzo in
motocicletta era furbo. Passava la prima volta, in silenziosa ricognizione, e
se avvertiva qualche minaccia, o sospettava qualche interferenza, se ne
guardava bene dal transitare nuovamente. Andò così anche quella sera. Partì
dalla fine della strada e lentamente percorse la via principale. Arrivato a
metà, vide il muso di una macchina parcheggiata di sbieco, laggiù, nella
piazza. Così imboccò una via laterale e sparì.
Giacomo e gli altri conclusero di
lasciar perdere con le forze dell’ordine. E in una delle loro serate, delle
loro riunioni, decisero di farsi giustizia da soli. A volte è il modo migliore.
A volte non ne esistono altri.
Stanotte, in piazza, un gruppo di gente
aspetta il motociclista per gonfiarlo di botte. Farlo sanguinare. Lasciarlo a
terra. Bucargli le ruote della moto. Smontargli il clacson. Tagliargli la pelle
del sedile. Rompergli i fari. Ognuno ha in mente il suo modo per fargli male.
Non appena lui supererà l’ultima via laterale di fuga, loro gli si piazzeranno
davanti. E non potrà far altro che fermarsi. Lì partirà l’assalto. Qualcuno ha
portato bastoni, qualcuno un fazzoletto da mettere davanti al viso, qualcuno un
cellulare con la fotocamera buona per far vedere alla moglie che ha un marito
con le palle.
«Ricordatevi una cosa, è furbo. È
scaltro. Il classico figlio di puttana».
Con uno sguardo Giacomo abbraccia gli
occhi di tutti quanti.
«Prendiamoci il silenzio che meritiamo».
Ora la motocicletta è laggiù, al
semaforo. Sgasa rumorosamente. Il semaforo scatta verde. E lui scatta in
avanti, la ruota sgomma, il tubo di scappamento abbandona una nuvoletta di fumo
grigio. Non va velocissimo, sembra godersi la strada. Appoggia il dito sul
clacson e distende la schiena. Quel suono lo rilassa. Sembra goderselo. Sembra
fare ciò per cui è al mondo.
In piazza è tutto pronto. Sono tutti
fissi sui led spenti che Giacomo ha in mano. Lui tiene salda la torcia. E
quegli occhi addosso gli sembrano vita. Si sente un pezzettino di qualcosa di
più grande. Così dev’essere far parte di qualcosa.
Adesso non sa cosa gli prende. Il
ragazzo è a metà della strada, e il suo clacson risuona senza pause tra i
palazzi addormentati. Sono le tre. Esatte. Supera la via di fuga laterale. È il
momento. Ora.
Giacomo si guarda intorno ancora una
volta.
Il ragazzo si avvicina.
Giacomo pensa a domani notte, alle
serate dietro al bar che si diraderanno fino a scomparire, a quando ordina due
pizze a domicilio per lui soltanto così non paga il trasporto. Pensa al
silenzio. E pensa che forse il baratto vale la pena.
Il silenzio della notte per il silenzio
della vita.
La motocicletta attraversa la piazza,
con eleganza, e si allontana.
Tutti lo guardano, si guardano, sui visi
nulla che non sia una domanda: perché?
«Non era il caso. C’era gente affacciata
alle finestre. Ci riproviamo domani. Alle due ci vediamo tutti qui, ok?».
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