Punto terzo perché ho una tremenda
nostalgia degli anni della giovinezza e di tutto quello che vi era associato:
le canzoni, le estati al mare, le prime dolci emozioni.
Bevo un sorso robusto di Fundador e mi schiarisco la gola al sentire il
calore che si sprigiona nel petto.
Guardo fuori dalla finestra del bar:
il mare è calmo, con onde troppo pigre per frangersi in spuma. Forse è più
malinconia che rimpianto, ma comunque sia è un peso nel petto che il Fundador
aiuta ad alleviare. Ne bevo un altro sorso.
Punto quarto perché, al momento in cui serviva buttarsi, mi ero
improvvisato farmacista.
Benedetta stava nel mio stesso albergo con la zia. In spiaggia i nostri
ombrelloni erano a dieci metri di distanza. Stavamo sempre insieme, da mattina
a sera, si fa presto ad innamorarsi in questi casi.
Andavamo a nuoto al trampolino, un
chilometro fuori dalla spiaggia. Non era da tutti, qualcuno ci arrivava
prendendo in affitto un moscone. Prima di partire lei si dipingeva un mazzo di
fiori sul petto; arrivati al trampolino si tirava via il pezzo di sopra del
bikini e prendeva il sole in topless, cosicché l’abbronzatura le lasciava una
pallida macchia in corrispondenza. Lei stava lì, appoggiata con la schiena ai tubi
di ferro del trampolino, a occhi chiusi; io la guardavo abbagliato, mentre un
rivoletto di sudore le colava tra i seni andando a sfociare nel serbatoio
dell’ombelico.
Non solo per questo, per il suo splendido seno di diciottenne di robusta
costituzione, non solo per questo io di lei mi ero innamorato. Di Benedetta mi
piaceva la maniera che aveva di spalancare gli occhi come una bambina quando
poneva una domanda, la piccola ruga tra le sopracciglia quando ascoltava
qualcosa che la interessava, il fulmineo, liquido frammentarsi di lineamenti
del viso quando sorrideva.
Mi piaceva parlare con Benedetta, anche se con
lei non ci capivo nulla: parlava di teologia con voluttà e d’amore facendolo
apparire come un passatempo per i bambini dell’asilo. Era allo stesso tempo una
celeste strega e una santa lussuriosa.
Lei certamente capiva che il goffo
cameratismo che avevamo instaurato tra noi non mi era sufficiente, ma non
faceva nulla per modificare i nostri rapporti. Le andava bene così.
Aspettavamo Ernesto, il marito della cugina, un riccastro che sarebbe
venuto a giorni per portare moglie e cugina di là dal mare con la barca che
teneva al porto, una crociera di quindici giorni tra le isole della Croazia.
L’aspettavamo con la stessa ansia, benché di origine diversa.
Ricordo la stupenda spossatezza
che mi aveva colto dopo una giornata di mare, e il desiderio violento di una
sua venuta furtiva nella mia stanza, della sua risata ovattata, delle sue
ciabatte col tacco e con le piume. Ma quella notte insonne non venne, e perché
avrebbe dovuto? Ma quando il giorno dopo gliel’avevo detto, lei mi aveva
guardato con uno sguardo indifeso, congiungendo rammaricata le mani all’altezza
delle labbra.
Quella sera andammo a passeggiare
sulla spiaggia. Era piena di coppiette allacciate nel buio, sedute sui mosconi
tirati in secco. Noi camminavamo sul bagnasciuga e neanche ci davamo la mano.
Dal bar sul lungomare venivano le note un po’ lacrimose di una canzone in voga
quell’estate.
Benedetta, arrivata sul molo, si
fermò. Vedevo il suo viso illuminato dalle luci del lungomare. Si appoggiò con
una mano alla mia spalla, mi sorrise e con prudenza, per non sgualcire il
sorriso, mi baciò. Fu dolce e salato di brezza marina. Io le presi il viso tra
le mani e le dissi ingenuo:
Dì, come sei bella. Vuoi essere
la mia ragazza?
Ci fissammo un istante, poi un’ombra
veloce, qualcosa di simile ad un predatore silenzioso in una notte senza luna,
una civetta o che so io, passò sul suo viso con un’espressione fuggevole e
impacciata. Io pure mi sentii timidamente in imbarazzo, la presi per la vita e
incamminandomi verso la fine del molo dissi:
Sto scherzando, una frase che odio. Non farci caso, baby.
Uno può buttare lì la stronzata più
colossale di questo mondo, guardare negli occhi degli altri l’effetto che fa, e,
se va male, dire:
Sto scherzando, naturalmente.
La risposta in questi casi dovrebbe
essere:
No, caro. Hai detto una
stronzata. Il che non vuol dire che sei uno stronzo, ma vedi di non abusarne.
Non così disse Benedetta, ma oggi
sono propenso a ritenere che lo pensò. E tutto finì lì.
Quella notte stessa salì sulla barca
di Ernesto, abile skipper, e la vidi partire dal molo, per traversare l’Adriatico.
Un solo piccolo bacio, ma io mi ritrovai più che mai stracotto di lei, e
continuai ad esserlo per molto tempo dopo, senza nemmeno che ci rivedessimo.
Pensavo, e forse speravo nel
macerarsi del mio amore impotente, di sognarla, qualche volta. Non mi apparve mai
neanche una volta in sogno. Forse fu intercettata dalle autorità preposte al
controllo dei sogni, o forse fu lei stessa ad evitare di concedersi tali visite
che assomigliavano tanto, nel mio caso, a quelle carcerarie.
L’anno successivo tornai al mare nella stessa località, ma lei non
c’era. Le vacanze quell’anno aveva deciso di passarle in montagna con sua
cugina, mi disse la zia.
Il mio mese al mare, con tanti ricordi suoi, fu un piccolo supplizio.
Andavo al trampolino, e poi alla spiaggia appartata dove andavamo per stare
tranquilli, e mi sedevo sulla sabbia in riva al mare. Come un anno prima,
arrivava un’onda, ma, non avendo nulla da riferire da parte del mare che me
l’aveva rapita, si profondeva in un inchino sonoro di scusa. E guardavo la
schiuma incespicare su un frammento di bottiglia di birra, il cadavere di un
granchio, un coso di ferro qualunque coperto di ruggine, una canna spezzata in
due. Il cuore mi marciva vivo.
Quattordici anni dopo torno nella stessa località, nello stesso albergo.
Un quinto della vita se n’è andato, non vedo Benedetta da quell’ultima sera che
la vidi salire sulla barca di Ernesto. Tutto è cambiato, la gestione dell’albergo,
il bagnino, che non è più quello di un tempo. Tutto diverso, ma è lei che mi
viene in mente quando vado sulla spiaggia. Ed è sua zia la prima che vedo
mentre mi sistemo sotto il mio ombrellone.
Ci riconosciamo, ci salutiamo con
simpatia, ci scambiamo informazioni sulla reciproca vita trascorsa nel
frattempo. Il cuore rintocca pensieri e ricordi lontani, e batte così forte che
temo si senta. Aleggia nell’aria la domanda:
E Benedetta?
È qui, è andata al bar per la
merenda, ma sta per arrivare.
Una ragazzina di dodici anni si
avvicina di corsa, sbocconcellando un bombolone.
Ecco Elena, la bimba di
Benedetta.
Dietro la figlia la vedo avanzare.
Non mi ha ancora riconosciuto. Poi sorride. Mi abbraccia e mi bacia sulle
guance.
Ma guarda un po’ chi si vede…, dice, ed è subito chiaro alla zia, alla
vicina di ombrellone, alla spiaggia tutta, che tra noi c’è stata intimità,
molto più di quella che c’è veramente stata.
Ci sediamo, lei sulla sedia a sdraio,
io sul lettino della zia, che ha capito e ha accompagnato Elena al molo per
vedere i pescatori.
Benedetta indossa il bikini più
ridotto della spiaggia: il seno prorompe dalla parte superiore ridotta ad un
semplice nastro, poi lo sguardo mi scende fino ad un triangolo di stoffa rossa
così esiguo che è sufficiente che si metta di profilo perché il rialzo delle
cosce lo celi e lei sembri nuda. È un po’ come il re della favola: è più nuda
di quando è realmente nuda perché ha tutta la disinvoltura di chi si crede
vestito pur non essendolo. Mi parla di sé, del suo matrimonio fallito, della
nascita difficile della sua Elena, del fatto che non può più avere figli.
Ha la sicurezza raggiante delle belle
donne. S’è ingrassata un po’, e noto la leggera distorsione del suo viso. Il
suo aspetto e i lineamenti del viso sono stati definiti e resi più netti dal
bulino degli anni. Lo sguardo è strano, come distante, nei suoi occhi grigi,
quasi che quei pochi etti in più del suo corpo abbiano un effetto oppiaceo su
di lei. Ma poi capisco: neanche le sue parole sono più quelle che di lei
ricordavo, e mi do dello stupido: forse che poteva essere? Durante questi
quattordici anni avevo pensato che tutti gli orologi della natura, lo spuntar
del giorno e il tramonto, il germogliare delle foglie e il ritorno delle
rondini, l’azione corrosiva del tempo sul nostro corpo, insomma, le avrebbero girellato
attorno e sarebbero sprofondati in lei senza lasciar segno alcuno. E invece…
E invece ora sono qui.
Un altro, ordino al cameriere.
E quando arriva il bicchiere di
Fundador, ne bevo metà in un sorso, avidamente. Perché?
Punto primo perché Benedetta è ancor più bella di come me la ricordavo.
Punto secondo perché quando incontri la donna che ti piace, ti
devi buttare, senza pudori e senza imbarazzi. Non fare calcoli, getta dalla
finestra il bilancino. E chiudi la farmacia.
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