Quando arrivai sul
piazzale del castello erano cinque anni che non tornavo in quella località del
Monferrato astigiano. Me ne ero andato il primo anno di università e da allora
ero rimasto nel mio appartamento di piazza Castello, gentilmente compratomi dal
mio paparino, senza più vedere né i miei genitori né il mio paese d’origine. In
altri tempi si sarebbe detto che ero uno scappato di casa, ma ritengo che nel
mio caso questa definizione sarebbe vera soltanto a metà; per scappato di casa
credo si intenda uno che si arrabatta per sopravvivere, senza la certezza di
mettere insieme il pranzo con la cena, utilizzando dimore di fortuna presso
anime pie che forniscono ospitalità. In realtà l’appartamento dove vivevo era
lussuoso, in pieno centro di Torino e potevo scegliere liberamente se mangiare
in buoni ristoranti o organizzare spaghettate con gli amici; mio padre pensava
a tutto, attingendo dai miliardi che gonfiavano i suoi conti bancari, conti
alimentati continuamente dai flussi di cassa della sua attività
imprenditoriale. Incompatibilità caratteriale. Io detestavo il suo
atteggiamento di uomo nato con le pezze al sedere e arricchito da duro e onesto
(?) lavoro; lui non sopportava che io non gli portassi rispetto e che non fossi
sufficientemente dedito al lavoro e al sacrificio. Più che una fuga da casa fu
un accordo tra gentiluomini; io sarei andato a prendermi una laurea e lui
avrebbe pagato tutte le spese. Devo ammettere che mi trovavo veramente bene in
quella condizione a tal punto che non tornavo più a casa, nemmeno in estate o
nelle feste comandate, con nascosto dispiacere di mia madre che per espresso
divieto di mio padre non poteva venirmi a trovare. "Se vuole vederci deve
venire lui!" E allora peggio per loro. Non provavo nemmeno vergogna per il
mio stato di mantenuto che si scagliava contro la vita borghese; diciamo pure
che avevo il cuore a sinistra e il portafoglio a destra.
"Arresto
cardiaco" era riportato sul referto del medico condotto; sì, insomma, un
infarto. Dopo il funerale avevo subito detto al geometra amico di mio padre di
pensare lui a tutte le pratiche, all’amministrazione del patrimonio immobiliare
ammassato da mio padre e anche alla cessione dell’azienda di famiglia; né io né
mia madre saremmo stati in grado di gestirla e a me interessava solamente
utilizzare le varie rendite disponibili. Volevo però dare un’occhiata all’ultimo
acquisto fatto dalla buonanima; non più di tre mesi fa, aveva comprato
nientepopodimeno che il castello del paese, antico maniero dotato di sole tre
torri perché la quarta era stata distrutta, si dice, dal Barbarossa.
A
quei tempi frequentavo senza grosso successo la facoltà di scienze politiche. Mi
dilettavo però nello scrivere racconti e poesie, ritenendo di essere un autore
dotato di talento e bistrattato da editori incapaci di riconoscere il futuro
premio nobel per la letteratura; la curiosità, unita alla convinzione che avrei
potuto ricavare una qualche ispirazione dalla visita al castello, mi avevano
convinto a non tornare a Torino subito dopo il funerale.
-Sei
incuriosito da quella macchia, vero?-
In effetti
appena arrivato, prima ancora di entrare, avevo notato quella macchia color
vinaccia su una delle torri degli angoli, subito vicino alla finestra, sopra
quei vecchi mattoni ancora originali; e mi stavo proprio chiedendo che cosa
fosse quando Don Giusto, appena uscito dalla casa canonica proprio a metà tra
la chiesa parrocchiale e il castello, aveva interrotto le mie meditazioni.
-E' la famosa
macchia di sangue che non scompare più; se provi a cancellarla, lei ritorna
sempre.-
Era un bel
personaggio don Giusto, con la tonaca da parroco di campagna e gli occhialini
sul naso da intellettuale di città; gli avevo anche fatto da chierichetto negli
anni tra la prima comunione e la cresima, prima di riuscire a trovare la scusa
di evitare le messe domenicali inventandomi un ateismo militante.
-L’origine
risale a quando il signore del castello, nel 1412, da quella finestra fece
tagliare il capo del suo figlio primogenito, colpevole di voler abbandonare il
castello; da allora la macchia del sangue è sempre stata là. Se provi a
eliminarla, lei sparisce, ma il giorno dopo sarà ancora lì, identica a prima, a
ricordare l’efferato delitto.-
Aveva parlato
senza smettere di guardare verso l’alto, con tono di voce serio e
professionale, da vero studioso del fenomeno.
-Naturalmente è
soltanto una leggenda; noi uomini di fede e di ragione abbiamo la reale
spiegazione del fenomeno. Il padre assassino volle che nessuno pulisse la
macchia a memoria della colpa del figlio e nei secoli nessuno osò farlo; ormai
i mattoni sono impregnati in tutto il loro spessore e se si prova a pulirli, a
sabbiarli, anche a grattarli, subito l’alone sembra sparire, ma in poco tempo
riaffiora lo strato inferiore con il color vinaccia ormai famoso. Però è bene
che la forza della leggenda rimanga; è un modo per far parlare di sé il paese,
per avere qualche tradizione storica, per poter ricordare il passato.-
Adesso mi
guardava con un sorriso sornione, come divertito di avermi convinto per un
attimo che lui credesse a simili fandonie. Però come leggenda era ben costruita
e mi incuriosiva vedere il fenomeno del riapparire della macchia; e poi
letterariamente parlando poteva anche uscirci una storia intrigante, da
giustificare il tempo perso trascorrendo una notte in quel paesino del
Monferrato astigiano.
Il mattino dopo
alle otto ero già sveglio, un vero record per chi come me viveva come se il
sole non sorgesse fino al proprio risveglio; la curiosità era però stata più
forte della pigrizia e mentre strofinavo la macchia e la vedevo gradualmente
sbiadire, mi stavo convincendo che quella volta non sarebbe più riapparsa.
-Ci avrei
giurato che avresti fatto una prova; il popolo dei Tommaso è sempre numeroso.-
Da sotto la
torre don Giusto mi guardava benevolo, mentre io affacciato alla finestra
restavo a fissare quella zona linda, dove il color vinaccia aveva ceduto il
posto a un meno macabro rosso mattone antico.
-Buongiorno don
Giusto. Non è che non mi fidassi, ma mi piaceva vedere…-
Caspita, stava
riaffiorando! Anzi, era completamente ritornata. Scomparso il rosso mattone
antico, tornato il color vinaccia con i suoi bordi irregolari.
-Don Giusto,
non saprebbe mica indicarmi un libro che parla dell’assassinio e della macchia?
Devo ammettere che è una storia più che interessante; noi uomini di cultura
siamo sempre affascinati dai fatti del passato.-
No, libri non
ne conosceva. Ma c’era Carlino, un libro vivente, una vera memoria storica, con
il suo archivio di fotografie, di articoli di giornale, di riviste e di tutto
ciò che parlasse anche solo marginalmente dell’amato paesello. Ci andai il
pomeriggio stesso. Carlino aveva un’ottantina d’anni discretamente portati; il
suo passo un po' impacciato tradiva un’operazione alla prostata brillantemente
sostenuta un paio di mesi prima.
-Tu vuoi sapere
della maledizione della macchia?-
Veramente io
volevo sapere della leggenda; cos’era questa storia della maledizione?
-Il signore dei
Roeri uccise il proprio figlio, colpevole di voler abbandonare il castello; lui
che era il figlio primogenito, destinato ad ereditare tutto, patrimonio e
titolo nobiliare. Un affronto del genere a quei tempi nemmeno un padre poteva
tollerarlo; lo fece decapitare alla finestra perché tutti potessero sapere e
vedere. Poi gli piacque l’effetto di quella macchia di sangue e rese manifesta
la sua volontà: la macchia sarebbe rimasta lì in eterno. Chi mai avesse osato
provare a cancellarla sarebbe stato colpito da tremenda maledizione.-
La storia si
faceva interessante; adesso volevo sapere quale fosse la maledizione.
-Mi spiace di
non poter esserti di aiuto, ma nessuno ha mai saputo in cosa consistesse.-
No, adesso non
potevo rimanere nell’ignoranza; come destinato alla maledizione avevo il
diritto di sapere. Carlino mi lasciò una raccolta di fotografie e appunti
personali che ricostruivano tutti i proprietari che si erano avvicendati al
castello. Così la sera non ritornai a Torino; l’esame di quelle carte volevo
farlo in loco perché sapevo che avrei potuto avere bisogno di Carlino o di don
Giusto o di qualche altro personaggio del paese che conoscesse qualche elemento
in più. Il giorno dopo ero di nuovo in piedi alle otto, una mano sulla tazzina
del caffè e l’altra a sfogliare le pagine. Mi soffermai sugli ultimi 50 anni.
Dopo la caduta del fascismo il castello di proprietà comunale era stato ceduto
a un privato, un ricco avvocato di Torino che lì si era trasferito e aveva
vissuto fino alla morte. Poi era subentrato uno svizzero che aveva abbandonato
il paese di origine per stabilirsi tra quelle colline; c’era perfino la foto di
un giornale d’epoca dove si vedeva una sorridente faccia da svizzerotto
mostrare la famosa macchia. Dopo era arrivato un notaio da Ivrea che con moglie
e quattro figli era venuto ad abitare nel castello, iniziando un vita da
pendolare tra la sua nuova residenza e la città dove aveva mantenuto lo studio
notarile. Poi c’era stato un piccolo imprenditore di Torino che addirittura
aveva spostato la sua officina meccanica nel maniero pur di potervi risiedere;
dai suoi eredi aveva comprato il mio povero padre.
Quando
restituii tutto a Carlino, lo ringraziai con sincero senso di riconoscenza. Non
ero però riuscito a sapere in cosa consistesse la maledizione della macchia;
unica certezza, naturalmente, che l’anatema non aveva valore, perché tutti i
proprietari avevano provato a cancellare la macchia, ma nessuno aveva avuto
alcun tipo di problema. Anzi tutti avevano vissuto una vita agiata ed erano
morti serenamente di vecchiaia nel proprio letto, escluso mio padre che però
non faceva testo essendo morto prima di andare ad abitarvi. Ero spiaciuto per
il dubbio non risolto, ma avevo ormai deciso di partire definitivamente la sera
stessa; avrei solo più dato un’ultima occhiata all’ormai famosa macchia di
sangue e magari provato ancora una volta a cancellarla. Poi tutto sarebbe stato
solo un ricordo.
Questo è il
passato. Se a qualcuno interessa il presente, sappia che attualmente vivo nel
castello; sono ormai passati 10 anni e ci vivo da allora, non sono mai partito
quella sera. Vivo insieme a mia moglie e ai miei due figli, sono anche riuscito
a laurearmi e ho abbandonato le mie velleità letterarie. Ho aperto nel castello
una specie di bottega dei prodotti locali; vino, frutta, formaggi tipici. Tutta
roba di qualità, prodotta da gente del posto, e non posso lamentarmi del
guadagno; vengono dalla città a comprare e non si lamentano dei prezzi che devo
riconoscere essere elevati, ma si sa che oggi va molto di moda il prodotto del
contadino. La domenica mattina vado a messa come quando ero chierichetto e con
don Giusto, che è sempre un eterno giovanotto, sovente discutiamo sulla macchia
e sulla sua leggenda; nessuno
di noi due lo ammette, forse perché ci vergogniamo a tirare sempre fuori gli
stessi ricordi come fanno i vecchi di 80 anni che pensano con rammarico all’epoca
che fu, ma la leggenda della macchia ci fa amare il senso del tempo che scorre.
Il grosso rammarico è non avere mai
scoperto in cosa consiste la maledizione; vi prometto però che se un domani
dovessi mai risolvere l'arcano, ve lo farò sapere tempestivamente.
Volevo concludere mettendovi
al corrente di quanto ho fatto sei mesi fa. Stanco di vedere quella macchia e
di perdere del tempo nei continui tentativi di eliminarla, perfettamente
conscio dello scempio artistico che avrei commesso, ho eliminato il problema
alle radici; ho chiamato un muratore locale e gli ho fatto sostituire quella
ventina di antichi mattoni imbrattati con altrettanti nuovi di zecca. E'
bastato un giorno di lavoro per cancellare secoli di storia e slegare una volta
per tutte passato, presente e futuro.
Ah, dimenticavo
di dirvi. Il giorno dopo, sui mattoni nuovi, la macchia color vinaccia è
tornata identica a prima.
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