Eh sì, ne ho vista di gente seduto qui,
nella veranda lungo il fiume. Ne ho vista tanta… Fin da allora, fin da quando
assieme ai miei vent’anni aspettavo Godot, un Godot qualsiasi, e così bevevo
una birretta fresca e intanto guardavo l’acqua scendere a valle, sorniona.
Respiravo l’aria umida e, attraverso il fiume, mi gustavo lo spettacolo sotto
un cielo azzurro. Un cielo senza nubi sul quale scarabocchiavano le ali delle
rondini… E poco dopo ecco che arrivava il vecchio avvocato con il bastone in
mano e il Borsalino in testa, nobile,
distinto, un gran signore che sempre a quell’ora andava al lavatoio. Discendeva
gli scalini di pietra verso il fiume e guardava con soddisfazione la città e,
soprattutto, si riempiva gli occhi delle lavandaie con i cesti di biancheria in
testa, e si riempiva la vista di Agnese, la più bella, che alzava la gonna e mentre
si inginocchiava la gonna le si impigliava sopra le ginocchia, tra le cosce, e
al signor avvocato veniva un tuffo al cuore, e Agnese osservava nell’acqua
calma il proprio viso e si dondolava e i suoi seni si ergevano come due pani di
zucchero, e si aggiustava i capelli neri che continuavano a cadere, e intanto
una seconda Agnese si sporgeva invece dal fiume verso il cielo come la donna
delle carte piacentine. E poi Agnese prendeva dal cesto una federa o una camicia,
si chinava e imbrattava il suo ritratto. E il signor avvocato camminava impettito
sull’argine, lungo la riva, e un altro avvocato uguale identico camminava sul
fiume con le gambe in su, e quando Agnese lo vedeva lo salutava e lui faceva un
inchino e con un movimento si toglieva il Borsalino
e nel riflesso del fiume sembrava che attingesse acqua nel fiume.
E intanto io aspettavo quel mio amico,
quel mio Godot e un giorno arrivò Pietro, che aveva una faccia butterata come i
calzini rammendati male. Ordinava un peroncino e portava la sua enorme pancia
al mio tavolo. Pietro, che aveva visto Dio talmente da vicino che si era fatto
frate, finché la Chiesa
gli disse che il suo modo di amare il prossimo non era regolamentare e gli
chiusero ogni comunicazione ufficiale con le gerarchie celesti, e pure il saio
gli tolsero perché non stava bene girare con quel vestito in mezzo ai balordi, e
nemmeno trascinare i sandali tra la spazzatura umana e poi toccare il culo alle
suore e alle mondine… Pietro, che da giovanotto era andato a rubare il miele
nel podere di Piccini, e quando stava gustando compiaciuto il bottino, allora
non arrivò il fattore, arrivarono le api e Pietro aprì il temperino e tirò di
scherma per difendersi, perché quelle api non gli bucassero la faccia, ma
Pietro era giovane e inesperto e per difendersi tirò così male che si tagliuzzò
la faccia dieci volte di diritto e quindici di rovescio, come se lo avesse
torturato la santa Inquisizione.
Così. a mezzogiorno, Pietro arrivava
alla veranda e apriva la Bibbia
sul tavolo, tra la zuppa di cavoli e un quartino di rosso e borbottava in
latino e faceva ridere, ma quando sembrava che potesse predire il futuro, la
gente continuò sì a ridere di lui, ma da quel momento senza farsene accorgere.
Un mattino lesse nel futuro la sua morte
e forse la mia, così diventammo amici. E mi presentò Irma che viveva con lui,
secondo alcuni, mentre altri dicevano che Pietro alloggiava nella pensione
sulla tangenziale dove la Berta andava a battere, ma nessuno aveva voglia di
sapere, e nemmeno quando se ne andò, perché se ne andò esattamente nel giorno
previsto, quando la gente aveva già da tempo smesso di ridere di lui, ed io
piansi…
E Pietro mi lasciò Irma che era una gran
persona quella puttana, che aveva pregato con tutte le sue forze affinché il
cuore di Pietro non lo mollasse, s’era prostrata affinché continuasse a pompare
come la pompa dell’aia dov’era nata, quella pompa che aveva tirato su acqua dal
pozzo, con quell’acqua con la quale il padre la lavava e le toglieva la terra
da ogni buco, perché Irma era pulita ma il padre voleva toglierle la terra lo
stesso da ogni buco, da ogni buco dove Irma metteva la terra, perché pensava
che dai buchi l’anima avrebbe potuto andarsene e Irma sarebbe rimasta sola,
sarebbe morta senza la sua anima.
E, un giorno, uscii con Irma lungo il
fiume, camminavo accanto a lei che reggeva la borsa di plastica con l’involto
delle cotolette impanate e la bottiglia del vino, perché m’era scappato un… “Che
fai domenica?...”
“Niente, boh!, niente di particolare…”
Sicché le avevo detto… “Andiamo lungo il
fiume, eh?...”
Il fiume scorreva e s’increspava lungo
il viale di eucaliptus che si riflettevano sull’acqua capovolti. Carrozzine
colorate sospinte da giovani madri, calzoni e gonne e camicie variopinte
formavano un altro fiume di abiti e volti umani e movimenti. Un pescatore,
seduto, infilava nell’amo un pesciolino vivo, vivo e lucido come uno
specchietto, e il pescatore lo infilava con estrema cura per non romperlo e
poi, con un ampio arco, lo lanciava nell’acqua, e un altro pescatore stava seduto
nell’acqua, di fronte a lui, come un re di spada…
E così passeggiavo con Irma al fianco,
l’avevo presa delicatamente per il gomito e andavamo incontro alla varietà di
colori finché arrivammo fino a dove il fiume si divideva in un ramo morto, là
il fiumiciattolo scintillava come una perla e si acchetava, e decine di
pescatori stavano fermi, con in mano le canne da pesca, vicino ai parapetti,
sostavano tutte quelle persone attente solo ai galleggianti, e sull’altro lato
del viale si apriva un prato pieno di bambini che giocavano, di panchine e tavoli
di legno con madri e nonne, tutte sedevano al sole e offrivano i visi e le
spalle, tutte immobili, così che quel prato era un museo all’aperto di figure
umane, e poi da quel prato saliva in alto un viottolo a zigzag tra cespugli e
chiome d’alberi sopra le quali svettavano pioppi imponenti, e da quella parte
c’era più chiasso, c’era l’allegria del giorno di festa, sui lunghi tavoli i
vecchi giocavano a carte, si sentiva lo schiocco dei carichi e le risate dei
giocatori, e pure qualche bella parolina… Così la collina, da quella parte era
in movimento, era cosparsa di persone che si muovevano, che scendevano o
salivano su, busti di persone dimezzate dai cespugli o decapitate dai rami
degli alberi, e lì finiva il museo ma non l’arte, perché era come in un enorme
teatro, come in un film a colori.
E io camminavo con Irma al fianco ed ero
felice, anche se qualcuno si girava disgustato dopo averla riconosciuta, ma ero
felice perché per la prima volta mi guardavo veramente attorno, per la prima
volta toccavo il mondo, e vedevo in che modo vivevano persone uguali a me,
persone che forse erano nella mia stessa situazione, che per un momento avevano
lasciato a casa guai e patemi, tristezze e passioni, e vivevano la domenica
come se non gli fosse successo niente, come se si fossero tolti quei paraocchi
di tutti i giorni e vedessero la domenica come un regalo, un bel regalino, e
tutto davanti aveva la bellezza di essere come una sorpresa.
Mi meravigliai per come mi accadeva di
vedere le cose, le persone, gli alberi così belli, alberi di cui non mi ero mai
accorto, non che non ne avessi avuto il tempo, anzi, ma fino a quella domenica
avevo camminato come un cieco, e nemmeno come un cieco, ma come uno che sta a
guardare dalla finestra solo dentro se stesso, senza mai affacciarsi per il
verso giusto, così io avevo visto sempre testardamente solo i miei guai, i miei
mugugni, le mie tristezze, e non mi ero mai accorto di quanto sono belli gli
alberi, di quanto sono gradevoli i cespugli e tutta la vita che gli sta intorno,
l’anima che c’è nelle cose. Anzi, non mi ero mai accorto, se non in quel momento,
di quanto fosse molto più bella la vita, e neppure quando ero ragazzo me n’ero
accorto. E pensavo che solo una persona mi aveva dato quella possibilità, la
persona che procedeva accanto a me, che non aveva bisogno di parole per
spiegare, finché mi fermai, le presi una mano e ad Irma dissi… “Grazie.”
E intanto i miei anni crescevano e quel
Godot qualsiasi era in ritardo, come sempre d’altronde. E quella volta
confessai ad Irma… “Sai, io sono cresciuto qui, vicino all’acqua. Quando andavo
a scuola, quando frequentavo le elementari attraversavo il ponte e poi dopo
ripassavo sempre per la stessa strada, la scuola non mi piaceva, non vedevo
l’ora di uscire, che arrivasse il pomeriggio, e la sera mi spaventava la
mattina dopo, perché dovevo ritornare a scuola e intanto non mi accorgevo che
la vita m’era iniziata a passare, passava come l’acqua del fiume, perché ogni
volta mi fermavo sul ponte e la vedevo quell’acqua passare sotto, e fissavo un
punto, una foglia caduta, un bastone e lo seguivo fin dove era possibile e ancora
più in là, lo seguivo non con gli occhi ma con la fantasia fino al mare, e io
sopravvivevo così… A me piace vedere l’acqua che corre, a me piace questa metafora
della vita… E come cambia il tempo anche l’acqua cambia di colore, cambia la superficie
a seconda del tempo, e forse anch’io cambio d’umore a seconda del tempo, quando
piove sono malinconico e come il fiume ho imparato ad essere taciturno e
pensieroso, e guardo il fiume come un innamorato, come una bella ragazza alla
quale voglio bene…”
Sicché con Irma avevo preso l’abitudine
di fare delle passeggiate lungo il fiume, non solo di domenica ma anche nei
giorni feriali. Di pomeriggio l’andavo a prendere al parcheggio dello stadio o
dietro la stazione, quando era stanca di quel suo mestiere per il quale, un
giorno, m’ero permesso di chiederle perché lo facesse… “Non lo so, non me lo
ricordo… Forse per campare, per abitudine adesso… E forse, prima, per i bei
vestiti, per farti guardare dalle persone mentre cammini, per leggere nei loro
occhi l’invidia, la condanna, la curiosità, lo schifo, a volta anche
l’ammirazione… Fai un patto, dici a te stessa che sarà per poco tempo, per qualche
mese, un anno al massimo, giusto il tempo di risollevarti un po’ da terra, ma
invece a terra ci vai ancora più giù e fai finta di non accorgetene, e così ti adatti,
perché le persone si adattano a tutto.”
Ecco, questo mi rispose Irma e un giorno
anch’io me ne sono ritornato qua, sul fiume, dove veramente sembra che il tempo
si sia fermato. Forse perché anch’io, come diceva Irma, mi sono adattato… Mi
sono adattato ad aspettare quel mio Godot qualsiasi, e intanto penso che quando
muore una persona giusta, o comunque una persona che deve avere dei giusti
meriti in cielo, be’, secondo me la sua anima si trasforma in una colomba,
perché sotto forma di colomba è venuta l’annunciazione a Maria con l’arcangelo,
e sotto forma di colomba è arrivato agli apostoli il messaggio dello Spirito
santo, così come la colomba era nel triangolo di Dio sul libretto del
catechismo. Così quando vedo volare le colombe sopra il fiume dico sempre che
una di quelle è Irma, che è stata sì una puttana, ma una puttana santa per
tutto quello che ha sofferto in agonia.
E negli ultimi giorni della sua vita mi
ha guardato in tutto due o tre volte e io non l’avevo mai vista così bella e così
piena di luce. E una di quelle volte Irma m’ha detto a fatica, a bassa voce, ma
meravigliosamente… “Ti ringrazio…”
E m’ha ringraziato come quella mattina,
come mesi prima l’avevo fatto io passeggiando con lei lungo il fiume, e dopo
tre giorni Irma è volata via, è volata oltra la sua casa e oltre il fiume, là
dove le colombe si liberano del peso della vita, perché ad Irma si era spezzato
quel filo che la teneva legata a se stessa.
Eh sì, ne ho vista di gente seduto qui,
nella veranda lungo il fiume. Ne ho vista tanta… Fin da allora, fin da quando
assieme ai miei vent’anni aspettavo Godot, un Godot qualsiasi, e così bevo una
birretta fresca e intanto guardo l’acqua scendere a valle, sorniona. Respiro
l’aria umida e, attraverso il fiume, mi gusto lo spettacolo sotto un cielo
azzurro. Un cielo senza nubi sul quale scarabocchiano le ali delle rondini. E
intanto aspetto quel mio amico, quel mio Godot che non so nemmeno da dove e
quando sbucherà fuori.
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