“Lucy Jane Butler – Scomparsa” era scritto su un
volantino attaccato a una trave orizzontale posta sopra le scale che,
dall’esterno, conducevano ai binari della stazione metro Osnaghi. Al centro del
foglio c’era la foto di una ragazza e, più in basso, l’appello. “Lucy non dà
più notizie di sé da sabato 28 maggio. È stata avvistata per l’ultima volta
verso le 23:30 alla stazione Osnaghi, sola e in stato confusionale, senza soldi
né cellulare. Portava una lunga gonna color lilla e un top nero senza spalle.
Lucy parla solo inglese e conosce poco la città; ha 37 anni, è alta 162 cm e ha
in testa lunghi dreadlocks rossi. Ha una rosa tatuata sulla schiena, sotto al
collo. Chiunque abbia notizie di lei chiami Betty”. Seguiva un numero telefonico.
Lo spazzino della mattina, dopo aver ramazzato i gradini
e aver dato un primo sguardo distratto all’annuncio, risalì la scala e si mise
a leggerlo con attenzione.
“Quante ne ho viste, io” pensò “di queste tipe in stato
confusionale! Eccone un’altra. Ma poi l’età: 37 anni, come me! Io che mi alzo
prima dell’alba per portare a casa la pagnotta, e loro che escono a quell’ora
dalle discoteche. Vai a capire dove si sarà cacciata, questa qua. Comunque,
tipi così non è un male che spariscano: non lavorano, non hanno voglia di fare
un cazzo. Nessuno ne sentirà la mancanza”.
Lo spazzino riprese a salire le scale; poi si voltò
indietro e guardò di nuovo il foglio.
“Ma come avranno fatto a metterlo lassù? Di sicuro
qualcuno è salito sulle spalle di qualcun altro”.
Erano le quattro di mattina. I cancelli della metro si
aprirono e sulle scale passarono i primi pendolari. I loro occhi vaghi si
soffermavano sull’avviso.
Fuori, la piazza si stava riempiendo delle bancarelle del
mercato. Una signora mattiniera, che all’alba aveva già fatto la sua spesuccia,
scese le scale una alla volta, tenendosi al corrimano. Notò l’annuncio e lo
lesse.
“Povera ragazza” pensò “oggi questi giovani non sanno più
dove andare; sono persi, persi; noi, ai nostri tempi, avevamo le idee più
chiare: anche perché mica c’era tanta scelta! Povera ragazza. Speriamo stia
bene, che la ritrovino in fretta, che non le sia successo niente di brutto. Chissà
dov’è finita, povera ragazza”.
Col trascorrere della mattina la scala si affollava sempre
più, la gente saliva, scendeva e si sfiorava frettolosa. La stazione Osnaghi era
uno snodo fondamentale della città, vi si incrociavano le linee più importanti
dei trasporti pubblici: era una stazione di scambio, un fulcro per il quale transitavano
tutti. Non c’era da stupirsi che Lucy Jane Butler fosse stata vista per
l’ultima volta proprio là.
Le ore passarono, gli uffici si svuotarono. Un giovanotto
al primo giorno di lavoro in banca, vestito di tutto punto e con al collo una
cravatta bella ma male annodata, scendeva le scale della stazione con la sua
ventiquattrore vuota in mano. Notò il foglio attaccato alla trave: lo lesse attentamente
e poi passò oltre, ma non fece in tempo ad arrivare al binario che la sua testa
si inondò di pensieri.
“Lucy Jane Butler. Lucy
Jane. Lucy. Il nome non mi dice niente, ma quel viso mi pare di averlo già visto.
Quegli occhi azzurri… non si dimenticano mica facilmente! E quei capelli rossi!
Dicono che le rosse stiano scomparendo. È un peccato, io adoro le rosse. E chi
dice che puzzano è un miserabile, uno che non è mai stato con una rossa o uno
che ha la merda nel naso. Che belle le rosse! Lucy. Deve essere una del giro
dello Stax. Ci sarò stato un milione di volte, allo Stax: magari l’ho vista lì.
Ma chi si ricorda… Con tutta la roba che mi sono ingollato! Erano belle le
nottate allo Stax. Parlavo un po’ con tutti, si facevano amicizie facili. E se
c’era una rossa in giro, mi buttavo subito a ballare dietro di lei. Che tempi!
Lucy? Ho mai conosciuto una Lucy? Boh, forse. Allo Stax c’era gente di mezzo
mondo. Comunque, che strana sensazione. Mi pare proprio di riconoscerla. Ma no,
mi sbaglio”.
Il giovanotto aspettava sul binario e intanto, come
ultimamente aveva preso a fare quando era immerso nei suoi pensieri, si passava
una mano sopra la testa rasata di fresco, dolcemente, avanti e indietro. Si
beava di quella sensazione, di quei peletti folti e cortissimi: un piacere
inedito per lui che aveva sempre portato i capelli lunghi e si era rassegnato a
raparsi solo un’ora prima del suo colloquio di lavoro con la banca.
Il giorno finì, venne la sera e la notte. Alcuni ragazzi
e ragazze, usciti di casa per andare a ballare, si affrettavano scanzonati per
prendere l’ultimo treno che li avrebbe portati verso il loro club. Sarebbero tornati
a mattina inoltrata, saltando a piè pari le poche ore di chiusura della metro.
Si fermarono a leggere l’avviso e si zittirono tutti: Lucy Jane Butler, una
ragazza che sembrava una di loro, era scomparsa. Confabularono un po’, poi
qualcuno disse che dovevano sbrigarsi e ripresero a scendere le scale, di
corsa, ma stavolta in silenzio, con i tratti del viso di colpo incupiti, oscurati
da un fantasma di tristezza e di irrequietezza, sormontati dai tanti dubbi che
via via si riproponevano loro in testa come un rigurgito fastidioso ma
ineludibile. La stazione Osnaghi chiuse per la notte.
La mattina successiva, lo spazzino passò sui suoi soliti gradini.
Dette uno sguardo veloce all’annuncio ma non si soffermò, come il giorno
precedente, sul destino e sulle colpe di Lucy Jane Butler e di quelli come lei.
Pensava al fine settimana ormai prossimo, alla partita della sua squadra di
calcio, al regalo da fare alla bambina che avrebbe compiuto quattro anni di lì
a poco.
I cancelli riaprirono, la gente riprese a fluire. Tutti
vedevano la foto della rossa che parlava solo inglese e qualcuno, rallentando
il passo, aguzzava la vista per leggere l’avviso. A sera, il giovane bancario
ripassò con la sua ventiquattrore vuota e la bella cravatta, annodata un pochino
meglio rispetto al giorno prima.
La metro chiuse per la notte, poi riaprì. La vecchietta
mattiniera scese ancora le scale con le sue sportine, tenendosi al corrimano.
Senza fermarsi alzò gli occhi verso la foto di Lucy Jane Butler e poi proseguì
per la sua strada, con una nenia muta che le animava le labbra.
Passarono i giorni. Le persone andavano e venivano e Lucy
Jane Butler era sempre là. Ormai erano in pochi a non aver visto quella foto e
letto quell’annuncio. Ma qualcuno ancora c’era. Un pomeriggio, due ragazze
salirono la scala.
« Dov’è, dov’è? » chiese la prima.
« Ecco, guarda » rispose la seconda « eccola lassù.
Allora, che ne pensi? ».
« Impressionante. Stessi capelli, stessi occhi… ».
« E stessa espressione del viso. Guarda, avete anche lo
stesso sorriso ».
« Mi sento male ».
« Perché? Non sei mica tu: quella è Lucy Jane Butler ».
« Scusa, tu non ti sentiresti male al posto mio? Siamo
due gocce d’acqua! ».
« Beh, che significa? Sai che al mondo ognuno di noi… ».
« …ha sette gemelli, lo so. Ma si dà il caso che nessuno
li abbia mai visti, questi gemelli. Mentre io… Guarda là… ».
« Pensa se tu la incontrassi davvero, questa Lucy! ».
« Stai zitta, non me lo dire neanche. Dai, andiamocene,
questa cosa mi angoscia ».
« Possibile che nessuno ti abbia mai fermato in strada
scambiandoti per lei? ».
« No, mai successo ».
« Per ora ».
« E comunque non ho tatuaggi, non ho 37 anni ma ben dieci
di meno, conosco al massimo venti parole d’inglese, non conosco nessuna Betty e
soprattutto non sono scomparsa! ».
« Dai, non ti alterare. Su, andiamo: i ragazzi ci
aspettano ».
Passarono giorni, poi settimane. Il foglio con la foto di
Lucy Jane Butler sembrava non invecchiare, o quantomeno lo faceva più
lentamente rispetto a quei pezzi di carta lasciati in giro per la città, volantini
pubblicitari o fogli slabbrati con offerte di lavoro, malamente appiccicati ai
semafori, sui pali della luce, nelle cabine telefoniche e abbandonati al sole,
al vento, agli schizzi della pioggia. Quel foglio, così difficile da
raggiungere e strappare, rimase per mesi attaccato sulla sua trave.
Un giorno alla stazione metro Osnaghi comparve una donna
matura. Aveva i capelli rossi, gli occhi azzurri e le mani curate. Era sempre
vestita di nero, parlava solo inglese e chiedeva ai passanti, nella sua lingua:
« Avete visto mia figlia? Dov’è mia figlia? » mostrando a quegli sguardi affrettati
e disattenti la foto di Lucy Jane Butler. Trascorreva le giornate seduta sulle
panche presso i binari: si metteva lì, cambiando ogni tanto la linea di metro.
Osservava con attenzione le persone che passavano e ogni volta che arrivava un
treno e si aprivano le porte, lei scattava in piedi, si mescolava alla folla e
guardava, uno per uno, tutti i volti delle ragazze nelle quali riusciva a imbattersi.
Una mattina il giovane bancario fu fermato dalla signora:
lei lo prese per un braccio, lo guardò fisso in faccia e gli chiese: « Hai
visto mia figlia? ». Poneva questa domanda sempre più a casaccio, ora a questo
ora a quello, e non mostrava più la foto. Il giovanotto, che aveva studiato
inglese e aveva riconosciuto all’istante quegli occhi, quel colore che la
natura aveva trasfuso pari pari dalla madre alla figlia, capì subito a chi si
riferisse la donna.
« Intende Lucy? » le chiese.
« Sì sì sì » rispose lei con il viso inondato di gioia «
l’hai vista? Sai dov’è? ».
« No, signora, mi dispiace » disse lui costernato « è solo
per quel foglio sulle scale, lo leggo tutti i giorni. Ma di Lucy non so niente,
purtroppo ». La donna riacquistò il suo volto cupo, quasi selvaggio, mollò il braccio
del giovanotto e guardò altrove.
« Va bene » disse, come ringhiando « vorrà dire che
l’aspetterò ancora. Deve per forza passare di qua. Tutta la città passa di qua,
prima o poi ».
Il giovanotto continuò a incontrare la donna per molto tempo.
All’inizio lei lo salutava da lontano, poi il suo sguardo lo eluse. Aveva le
unghie delle mani luride e alcuni strappi nel vestito. Stava seduta sulle
panche ma, quando arrivavano i treni, non sollevava più lo sguardo dal punto
del pavimento a cui l’aveva ancorato, in mezzo alle gomme da masticare
spiaccicate e annerite. Un giorno lui non la vide più. Invece di prendere subito
il suo treno, girò in lungo e in largo per la stazione: era scomparsa.
Passarono gli anni. Lui fece un salto di carriera, lo
spazzino cominciò a incanutire, la vecchietta della spesa non si vide più.
Sebbene protetta dalle intemperie, anche la foto di Lucy Jane Butler iniziò a
sbiadire; l’annuncio era diventato un foglio scialbo che nessuno si era mai
preso la briga di staccare. Troppo alto, troppo scomodo.
Un giorno la società dei trasporti decise di fare dei
lavori di ammodernamento nell’obsoleta stazione Osnaghi. La scala fu chiusa, la
trave fu scalzata dal muro e poggiata all’esterno. La foto di Lucy Jane Butler
era ancora là, sbiadita ma persistente. Le varie travi vennero raccolte,
caricate su un camion e avviate al recupero, un’acciaieria che rifondeva
metallo vecchio appena fuori città.
Bello. Scrittura limpida e trascinante.
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