C’è un tempo per
dire e un tempo per sentire, perché la giovinezza vive di parole e la vecchiaia
è fatta di silenzi.
Dello slancio di
una volta, oltre le timidezze acerbe dell’età e delle ingenuità sottili
singhiozzate nei primi appuntamenti, delle voci ribelli nelle scuole, degli
slogan scanditi nei cortei, delle canzoni
sparate dalle radio libere, della rabbia gridata, del metallico fragore dello
scappamento del motorino, dei signorsì impettiti alle divise, non sono rimaste che
tracce, i solchi di un vecchio trentatrè giri della Ricordi, inciso di voci e di rumori, dimenticato, tra le cose inutili e gli ideali
spenti, nel soffitto di casa.
Adesso è
arrivata l’ora di ascoltare, pur nel declino inesorabile dei sensi, ogni piccolo accento, certe sfumature un tempo
inafferrabili, l’esatta percezione delle parole e dei suoni, una ragionevole
indifferenza solleva le passioni e le riflessioni avvicendano la spontaneità
più vera.
Osservo nello
specchio un’ombra svanita, come fosse di polvere e riconosco a fatica, nelle
pieghe fiacche e negli zigomi sporgenti del volto, nei capelli innevati e
stanchi, nella luce opalina degli occhi, nel tremore delle carni, la mia figura più intima, quasi
fosse di un altro.
E la casa, la nostra
casa di sempre, sfiorisce nel silenzio, avvizzisce di solitudine. Sono i miei
passi lenti sul legno e i tocchi del pendolo a darle vita, e sono le piogge nei
canali o il ribollimento di una caffettiera sul fuoco, il crepitare di una
spaccatura sul muro, il tonfo di una porta, le sue uniche voci.
Queste voci
hanno sempre abitato la nostra casa. Resistono
ai calendari, ai troppi capodanni, alle nascite felici e ai dolorosi addii.
C’erano già
allora, ma non le sentivamo, e si perdevano nelle nostre parole accese, tra i
pianti dei bambini e i loro giocattoli -
lo sferragliare composto di un trenino, il rimbalzo di una palla -
nell’abbaiare cocciuto del cane, nei battibecchi dei grandi, nelle feste con
gli amici, nelle musiche di Canzonissima alla televisione. Le nostre parole celavano,
soffocavano queste semplici voci e noi non avevamo orecchio per sentire, così, anche
nel silenzio assoluto delle notti, non ci accorgevamo di loro.
Ora sono rimasto
solo. A ottant’anni è una fortuna avere ancora un po’ di ragione nella testa.
Una figlia è andata via, impetuosa come tramontana, sulle onde di uno sposo marinaro
e il mio gemello signorino sta in un letto di un ospizio, con la bocca storta e
un pannolino sempre pieno. L’unico mio figlio vive lontano, molto lontano,
perché ha seguito l’istinto o forse strambe
idee, l’abbaglio di un mestiere complicato, un’avventura, il desiderio di
ricominciare dopo un matrimonio sciupato e qualche errore di troppo. Quando mi
telefona, succederà un paio di volte l’anno, dice di star bene, che non mi devo
preoccupare, ma, dalle sue parole vuote e d’imbarazzo, credo sia ricaduto in altri sbagli e non trovi
più il coraggio di tornare.
Ho perso mia
moglie da tempo e mi sono quasi dimenticato di lei. E’ rimasta nelle fotografie
sbiadite, incorniciata nei portaritratti d’argento sul cassettone, nei
crisantemi e nei lumini accesi di novembre.
Anche la sua
voce sottile riempiva queste stanze, vibrava nell’aria come melodia,
carezzevole d’amore, squillante nel
crescendo delle arrabbiature.
Ho imparato ad
ascoltare il silenzio. E’ fatto di suoni delicati, di leggeri segnali, di messaggi sussurrati.
Ho compreso,
pian piano, il suo linguaggio misterioso, decifrandone le declinazioni e le
sonorità, perché certi rumori sono parole. Il fruscio di un tessuto pare una
preghiera, il cigolio di un uscio è un lamento, lo scoppiettio del fuoco, una
risata e il gocciolio di un rubinetto, una ninna nanna. Quando esco in giardino ascolto le mie
piante. E’ la betulla la più loquace, quando d’estate bisbiglia con le fronde
al minimo respiro, inginocchiata al vento, flette le sue braccia bianche come
quelle di mia moglie, aveva pelle di latte, e mi chiede di ballare e le sue
foglie minute sembrano coriandoli,
quando cadono d’autunno, come un invito a festa, il nostro fidanzamento tra
le maschere di un vecchio carnevale e, sotto il peso della neve, lo schianto
lacero dei rami è un grido disperato, come
le sue ossa fragili assediate dalla
malattia.
E l’ulivo
antico, addossato al muro, con il tronco diviso quasi gemellare, contorto ed
ingobbito, ha chioma d’argento come mio fratello ed è come lui silenzioso e
schivo. Crepita la corteccia ruvida al carico degli anni, s’incava, come
sventaglio di mitragliatrice, e mi racconta della sua guerra, sulle montagne
d’Albania e dello scorrere inquieto della penna, in quelle lettere dal fronte, fitte
d’amore e di paura e perse in chissà quale cassetto di casa, che rinnovano memorie
e vecchie cicatrici. L’ulivo è, come lui, un maestro elementare accomodato su un’altura
come fosse su una cattedra, che insegna a scrivere sussurrando al vento
l’alfabeto, e i frutti sui rami sono le sfere di un pallottoliere per saper contare
e recita poesie nella brezza della sera, le rime di Gozzano e i versi d’Ungaretti, così lievi da volare,
al lumeggiare bianco della luna.
Di nessun altro
albero sento le parole. Talvolta mi pare di cogliere un mormorio da una coppia
d’abeti, interrati alla nascita dei miei figli. Sono cresciuti a fatica, trascurati
da genitori distratti e quasi sradicati da una tempesta, dalla furia del vento,
tormentati dai fulmini durante i temporali. Sono fragili, provvisori, inquieti.
So che i miei
figli non torneranno più in questa casa. Lo faranno solo il giorno del mio funerale, perché una ha
scelto il mare, lo sciabordio dell’onda, e l’ha fatto per amare e l’altro ha
inseguito un sogno e adesso suona, per due soldi, nei tunnel della
metropolitana, dall’altra parte del
mondo. Però, a me piace pensare che l’albero della barca e la cassa del
violino siano fatti dello stesso legno degli abeti in giardino.
Ho raccolto gli
aghi delle loro foglie sofferte e ne ho intrecciato una ghirlanda per Natale,
per sentirli vicino.
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