lunedì 2 giugno 2014

Valter Ferrari – Le voci del silenzio

C’è un tempo per dire e un tempo per sentire, perché la giovinezza vive di parole e la vecchiaia è fatta di silenzi.
Dello slancio di una volta, oltre le timidezze acerbe dell’età e delle ingenuità sottili singhiozzate nei primi appuntamenti, delle voci ribelli nelle scuole, degli slogan scanditi nei cortei,  delle canzoni sparate dalle radio libere, della rabbia gridata, del metallico fragore dello scappamento del motorino, dei signorsì impettiti alle divise, non sono rimaste che tracce, i solchi di un vecchio trentatrè giri della Ricordi, inciso di voci e di rumori,  dimenticato, tra le cose inutili e gli ideali spenti, nel soffitto di casa.
Adesso è arrivata l’ora di ascoltare, pur nel declino inesorabile dei sensi,  ogni piccolo accento, certe sfumature un tempo inafferrabili, l’esatta percezione delle parole e dei suoni, una ragionevole indifferenza solleva le passioni e le riflessioni avvicendano la spontaneità più vera.
Osservo nello specchio un’ombra svanita, come fosse di polvere e riconosco a fatica, nelle pieghe fiacche e negli zigomi sporgenti del volto, nei capelli innevati e stanchi, nella luce opalina degli occhi, nel tremore  delle carni, la mia figura più intima, quasi fosse di un altro.
E la casa, la nostra casa di sempre, sfiorisce nel silenzio, avvizzisce di solitudine. Sono i miei passi lenti sul legno e i tocchi del pendolo a darle vita, e sono le piogge nei canali o il ribollimento di una caffettiera sul fuoco, il crepitare di una spaccatura sul muro, il tonfo di una porta, le sue uniche voci.
Queste voci hanno sempre abitato la nostra  casa. Resistono ai calendari, ai troppi capodanni, alle nascite felici e ai dolorosi addii.
C’erano già allora, ma non le sentivamo, e si perdevano nelle nostre parole accese, tra i pianti dei bambini e  i loro giocattoli - lo sferragliare composto di un trenino, il rimbalzo di una palla - nell’abbaiare cocciuto del cane, nei battibecchi dei grandi, nelle feste con gli amici, nelle musiche di Canzonissima alla televisione. Le nostre parole celavano, soffocavano queste semplici voci e noi non avevamo orecchio per sentire, così, anche nel silenzio assoluto delle notti, non ci accorgevamo di loro.
Ora sono rimasto solo. A ottant’anni è una fortuna avere ancora un po’ di ragione nella testa. Una figlia è andata via, impetuosa come tramontana, sulle onde di uno sposo marinaro e il mio gemello signorino sta in un letto di un ospizio, con la bocca storta e un pannolino sempre pieno. L’unico mio figlio vive lontano, molto lontano, perché ha seguito l’istinto  o forse strambe idee, l’abbaglio di un mestiere complicato, un’avventura, il desiderio di ricominciare dopo un matrimonio sciupato e qualche errore di troppo. Quando mi telefona, succederà un paio di volte l’anno, dice di star bene, che non mi devo preoccupare, ma, dalle sue parole vuote e d’imbarazzo,  credo sia ricaduto in altri sbagli e non trovi più il coraggio di tornare.
Ho perso mia moglie da tempo e mi sono quasi dimenticato di lei. E’ rimasta nelle fotografie sbiadite, incorniciata nei portaritratti d’argento sul cassettone, nei crisantemi e nei lumini accesi di novembre.
Anche la sua voce sottile riempiva queste stanze, vibrava nell’aria come melodia, carezzevole  d’amore, squillante nel crescendo delle arrabbiature.
Ho imparato ad ascoltare il silenzio. E’ fatto di suoni delicati,  di leggeri segnali, di messaggi sussurrati.
Ho compreso, pian piano, il suo linguaggio misterioso, decifrandone le declinazioni e le sonorità, perché certi rumori sono parole. Il fruscio di un tessuto pare una preghiera, il cigolio di un uscio è un lamento, lo scoppiettio del fuoco, una risata e il gocciolio di un rubinetto, una ninna nanna.  Quando esco in giardino ascolto le mie piante. E’ la betulla la più loquace, quando d’estate bisbiglia con le fronde al minimo respiro, inginocchiata al vento, flette le sue braccia bianche come quelle di mia moglie, aveva pelle di latte, e mi chiede di ballare e le sue foglie minute sembrano coriandoli,  quando cadono d’autunno, come un invito a festa, il nostro fidanzamento tra le maschere di un vecchio carnevale e, sotto il peso della neve, lo schianto lacero dei rami  è un grido disperato, come le sue  ossa fragili assediate dalla malattia.
E l’ulivo antico, addossato al muro, con il tronco diviso quasi gemellare, contorto ed ingobbito, ha chioma d’argento come mio fratello ed è come lui silenzioso e schivo. Crepita la corteccia ruvida al carico degli anni, s’incava, come sventaglio di mitragliatrice, e mi racconta della sua guerra, sulle montagne d’Albania e dello scorrere inquieto della penna, in quelle lettere dal fronte, fitte d’amore e di paura e perse in chissà quale cassetto di casa, che rinnovano memorie e vecchie cicatrici. L’ulivo è, come lui, un maestro elementare accomodato su un’altura come fosse su una cattedra, che insegna a scrivere sussurrando al vento l’alfabeto, e i frutti sui rami sono le sfere di un pallottoliere per saper contare e recita poesie nella brezza della sera, le rime di Gozzano  e i versi d’Ungaretti, così lievi da volare, al lumeggiare bianco della luna.

Di nessun altro albero sento le parole. Talvolta mi pare di cogliere un mormorio da una coppia d’abeti, interrati alla nascita dei miei figli. Sono cresciuti a fatica, trascurati da genitori distratti e quasi sradicati da una tempesta, dalla furia del vento, tormentati dai fulmini durante i temporali. Sono fragili, provvisori, inquieti.  
So che i miei figli non torneranno più in questa casa. Lo faranno  solo il giorno del mio funerale, perché una ha scelto il mare, lo sciabordio dell’onda, e l’ha fatto per amare e l’altro ha inseguito un sogno e adesso suona, per due soldi, nei tunnel della metropolitana, dall’altra parte del  mondo. Però, a me piace pensare che l’albero della barca e la cassa del violino siano fatti dello stesso legno degli abeti in giardino.

Ho raccolto gli aghi delle loro foglie sofferte e ne ho intrecciato una ghirlanda per Natale, per sentirli vicino. 

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