Lo schiocco
dello starter ha cavalcato l’aria e mi è esploso nel cuore; sento i battiti
accelerare e spingere nei miei timpani.
Io sono già qui,
sospeso nel tempo. Aspetto.
Qualcuno laggiù
ha già iniziato a correre, a dilapidare quel gruzzolo di secondi nei quali si
esaurirà questa gara.
Poco meno
di un minuto e tutto acquisterà un significato necessario ed inevitabile: gli
allenamenti che hanno plasmato i nostri muscoli, trasformandoli in generatori
di potenza, e levigato i nostri tendini come corde tese di un violino, così
pronti a reagire alla minima sollecitazione; le noiose sessioni tecniche,
durante le quali abbiamo provato e riprovato partenze e cambi, cronometrato
ogni istante, elaborato strategie; le dolorose sedute di fisioterapia per
riabilitare qualche muscolo o legamento andati in tilt.
Oggi però,
finalmente, la corsa è vera.
E io sono qui,
nella zona di pre-cambio, un piede già avanti, con la mente proiettata verso il
traguardo.
Non ci sono
buoni pronostici per il mio team. Comunque, siamo arrivati fino a queste finali
e so che tutti faranno la loro parte.
Non ho dubbi:
ognuno concentrerà forza e volontà per percorrere la sua frazione come mai ha
fatto,
più veloce di sempre.
Questo è il momento del primo cambio:
non occorre che guardi, lo so. Ho il ritmo di questa gara nelle gambe e nel
sangue. Fatico a trattenermi, vorrei poter scattare. Mi sento come se avessi
delle catene alle caviglie ma fossi consapevole che fra un istante i morsi si
apriranno e potrò volare via, su questa terra rossa, guardando appena il nastro
bianco che racchiude il mio spazio scorrermi via di lato, con l’unica mèta di
quel filo di lana messo di traverso tra me e la vittoria.
Mi dondolo leggermente sulle gambe,
avanti e indietro, il dorso già un po’ piegato in avanti.
Il tempo scorre via veloce, come succede
sempre nella vita. Solo che qui sai quanto ne hai prima di partire. Quando
nasci invece nessuno ti dice quando devi
incominciare a far sul serio; allora può darsi che ti perdi per strada e va’ a
sapere se potrai giocarti il recupero.
Io sono stato fortunato, io una seconda
chance l’ho avuta.
Mi hanno fermato una notte, perso dentro
ai brandelli del mio sogno artificiale, con un ago piantato in un braccio.
Hanno chiamato mia sorella che non vedevo da anni: mi ha abbracciato forte
e le sue lacrime mi hanno bagnato la
t-shirt. E’ stata lei ad accompagnarmi in comunità tenendomi per mano: e lì ho
ricominciato a ripensare a me stesso come ad una persona, ricordandomi di
quando, bambini, andavamo a scuola e lei, più grande di me, mi lasciava andare
solo sulla soglia della mia classe, consegnandomi alla maestra.
C’è stato il secondo cambio. Ho visto
con la coda dell’occhio il testimone passare dal secondo al terzo frazionista:
quell’anonimo bastone sembrava un ponte tra le mani dei miei compagni.
Meno di dieci secondi.
Entrare in squadra è stata una
scommessa, più degli altri su di me che non il contrario. Io all’inizio ci ho
creduto poco. Ci hanno creduto prima le mie gambe. E, quando ho iniziato a
leggere la soddisfazione negli occhi del cronometrista, ho pensato che forse
non ero così male. Allora anche la mia testa e il mio cuore hanno incominciato
a crederci.
Siamo ultimi, non è una delusione, non è
una sorpresa; la sorpresa è stata riuscire ad arrivare fino a qui.
Però la gara non è finita: Vittorio mi
sta arrivando alle spalle veloce come un treno. L’ho appena intravisto ma lo
conosco: il suo volto, nel penultimo tratto, sarà diventato una maschera
dolorosa per lo sforzo e la tensione, le vene gonfie del suo collo sembreranno
voler esplodere.
Inizio a muovermi. Prendo velocità. E’
incominciata l’ultima frazione.
Devo ricordarmi di quello che mi dice sempre Job, il mio allenatore:
“Adegua la tua corsa al tempo che ti rimane e non dimenticare che questa è una
gara di squadra”.
No, non lo dimentico. Adesso, ad
esempio, so di non poter spingere ancora troppo: devo aspettare Vittorio che mi
sta raggiungendo nella zona di cambio, dargli il tempo per allungarmi il
testimone. Sento la sua voce scandire l’hop che dà il segnale qualche istante
prima di quanto me lo aspettassi. Forse abbiamo eroso qualche centesimo di
secondo.
Il mio braccio si è proteso
all’indietro, il palmo è aperto. Avverto appena la pressione del bastone ormai
nella mia mano. Le dita si richiudono forti in una presa senza scampo.
Vedo schizzare in vantaggio davanti a me
le due squadre favorite ma, nella corsia più interna, il cambio è appena
avvenuto mentre io corro già libero verso il traguardo. Forse potremmo non
accontentarci di un ultimo posto alle finali: chi ha fatto la gara prima di me
ha speso tutto quello che aveva per rendere al meglio. Io dove fare lo stesso.
I miei polmoni si espandono e raccolgono
tutta l’aria che possono contenere, i muscoli delle braccia e delle gambe si
contraggono, i miei occhi non vedono altro che la linea dell’arrivo, nelle mie
orecchie tutti i rumori si confondono.
Posso riuscirci. Sono l’ultimo
frazionista e il mio tempo è quasi finito ma c’è ancora della forza che mi
spinge. Non so da dove mi viene questa forza che è fuori e dentro di me: forse
dalla mia testa, dagli allenamenti fatti, dal tifo pieno di gioia, meraviglia e
speranza che i miei compagni stanno facendo.
Brucio le mie ultime riserve di energia
nelle due falcate conclusive, supero gli staggi dell’arrivo ed improvvisamente,
di schianto, le mie ginocchia si piegano
ed io cado a terra come un burattino al quale hanno tagliato i fili. Rotolo
nella sabbia rossa che si mischia con il mio sudore. I miei gomiti e i miei
avambracci raschiano il terreno e si coprono di sangue.
Alla fine, la mia corsa si ferma. Resto
lì disteso con le gambe e le braccia aperte a guardare il cielo.
Il cuore pian piano riprende un battito
normale ed iniziano a farsi nitide voci amiche: vengono a farmi festa per
questo penultimo posto in una finale inattesa.
Mi trovo a pensare che momenti come
questo nella vita sono rari. Provo una felicità
piena e neppure per un attimo mi sfiora il dubbio se tutta questa gioia
me la meriti davvero: ho corso l’ultima frazione nel tempo che mi restava, ho
corso l’ultima frazione mettendoci tutto me stesso e l’ho fatto non solo per me
ma anche per i miei compagni di squadra.
Sì, signori, questa felicità me la merito.
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