venerdì 29 maggio 2015

Lorenzo Bianco – Saluti da Honeymoon

Forse fu la nebbia. Un manto e spesso e umido si aggirava come uno spirito sul fiume. Oppure fu soltanto la noia: dieci giorni chiusa in casa con la bronchite mi avevano lasciato in bocca uno strano sapore di sciroppo fluidificante. Fu così che mi misi a sfogliare una di quelle riviste giovanili tanto di moda negli anni novanta, cercando qualche notizia sulle mie band preferite. Ascoltavo i Nirvana, i Guns, i R.E.M., come tutti, credo. Era il numero di novembre, anche se eravamo a gennaio e non c’era nulla che già non sapessi. Verso il fondo del giornale l’angolo degli amici di penna. Tra hobby e descrizioni poco interessanti mi colpirono due nomi: Tom S. – 230 West Broadway, Long Beach, New York -  e Huck F. – 1638 Ocean Ave, Santa Monica,  California.  Huck dice di avere la passione per viaggi, zattere e isole deserte, Tom per gangster, pirati e tesori nascosti. Pensai di avere a che fare con dei ragazzini, ma anch’io avevo solo quindici anni e il mio nome – quasi per uno scherzo del destino - è  Becky T. – 713 Bridge Street, Honeymoon, Missouri.

A scuola la maestra indicava il Missouri sulla cartina e diceva: “Questo è il cuore dell’America”. Poi con la bacchetta seguiva il corso azzurro del fiume e si fermava nel punto dove approssimativamente si trova Honeymoon. “Noi siamo qui!” e picchiettava la bacchetta più volte sulla carta.  Se il Missouri è il cuore dell’America, e l’America è il cuore del mondo, allora io vivo nel cuore del cuore del mondo. Qui il Mississippi è alla metà del suo corso e segna come una ferita aperta il confine tra i sogni avventurosi, la via dell’oro, l’ovest e la nostalgia delle proprie radici, il passato, l’est. Huck e Tom vivono sulle coste agli estremi opposti d’America e io sono a metà di quella distanza che li divide. La bizzarria dei nomi e delle circostanze mi convinsero a scrivere.

Non avendo carta da lettere  chiesi a mia madre di comprarmene, ma lei ritornò con un paio di cartoline identiche. Raffiguravano un battello a vapore sul fiume con sopra una scritta: “Saluti da Honeymoon”. Non potevo intuire che quella sarebbe diventata un’abitudine e le cartoline il mio modo di comunicare, per molti anni. Scrissi a Tom e a Huck lo stesso messaggio:

“Anche se Honeymoon ha un nome magnifico e il Mississippi è meraviglioso, qui non è una favola e Moonriver è solo il titolo di una famosa canzone. Sogno di viaggiare, incontrare pirati e cantare in una band. Ti prego rispondimi presto. Your huckleberry friend, Becky”.

Pensavo che i miei messaggi sarebbero stati cestinati, invece le risposte non tardarono ad arrivare. Il primo fu Huck: mi scrisse su un foglio recuperato chissà dove, con una gigantesca macchia d’olio al centro. Poteva essere la carta con cui era avvolta la focaccia che aveva appena finito di mangiare. Trovai la cosa divertente: mi dava l’idea dell’urgenza che aveva avuto nel rispondermi, come se fosse una necessità impellente. Mi disse che se volevo viaggiare avrei potuto accompagnarlo a spasso per l’America, perché lui era sempre in giro, un giorno qui e l’altro chissà dove. L’indirizzo che potevo continuare a usare era quello della nonna che viveva in una strana casa vicino alle spiagge più belle della California. Non sapevo se credergli, ma in fondo mi andava bene così.

Tom mandò una lettera scritta su carta pregiata, con un bell’inchiostro blu. Probabilmente aveva usato una penna stilografica. In allegato c’era una sua foto con una benda da pirata. L’immagine da scapestrato che ci teneva a dare di sé in qualche modo strideva con quella scrittura così ordinata, la mancanza di errori di ortografia, la cura con cui aveva compilato l’indirizzo sulla busta e la scelta del francobollo che raffigurava un battello a vapore del tutto simile a quello della mia cartolina. Non doveva essere stato facile trovarlo per uno che non vive dalle mie parti, forse era un filatelista, o forse, semplicemente, a New York si può trovare davvero di tutto. Devo dire che era bello e, nonostante un occhio fosse coperto, lo sguardo era quello penetrante di uno navigato, che ne ha viste e vissute tante. Sembrava scrutarmi come per cogliere dentro di me quello che lui aveva già visto, affrontato e archiviato. Mi piacque subito proprio per quell’aria di genio e regolatezza: quello che ogni ragazza in fondo, cerca in un uomo.

Con la bella stagione presi l’abitudine di scrivere giù al fiume. C’è una strada sterrata che affianca l’argine e raggiunge un promontorio dove è posizionato il faro di Honeymoon. Restavo lì a scrivere fino all’imbrunire; il fascio di luce del faro fendeva intermittente il buio fino a raggiungere la riva dell’Illinois e contemporaneamente si spingeva verso ovest. Mi pareva un lungo braccio luminoso che si allungava nella notte per raggiungere i miei amici ai due capi opposti del continente. Usavo le cartoline come carta da lettere, mettevo dei numeri per distinguere le pagine, poi le imbustavo tutte insieme, tanto che sembravano piccoli mattoni di carta che spedivo dalla buca delle lettere vicino all’imbarcadero.

Imparai a conoscerli meglio: Huck non pareva granché interessato alle ragazze, non so se perché la smania di conoscere il mondo lo avesse posseduto fino a cancellargli ogni altro desiderio, o se semplicemente perché preferiva la compagnia dei ragazzi. Con lui mi abbandonavo a quelle confessioni che in genere si fanno soltanto alle amiche più intime. Tom invece si comportava da spaccone, flirtava, mi raccontava quello che avrebbe voluto fare con me  se solo fossimo stati vicini. Ogni tanto lasciava trasparire un tono dolce e malinconico e lì mi sembrava di capirlo davvero, di raggiungerlo, di comprenderlo. Leggevo le sue lettere seduta sotto un pioppo gigante che emanava un profumo umido e legnoso che pareva la fragranza di quella malinconia segreta, una nota ombrosa e selvaggia su un ragazzo altrimenti piuttosto inquadrato.

Parlai molto all’uno dell’altro, tanto che si sentirono incoraggiati a conoscersi e incominciarono a scriversi. Mi piaceva pensare che parlassero segretamente di me, sentirmi al centro di questa stramba compagnia di amici. Facemmo un giuramento: anche se il nostro sogno era viaggiare per il mondo e vivere le avventure più pericolose non ci saremmo mai dovuti incontrare. Ero stata io a proporre questo patto: avevo paura che la realtà avrebbe rovinato tutto.

Poi un giorno non scrissero più. Il silenzio fu assordante. Prima che la mia stanza si riempisse completamente di rose di carta, fatte con i fazzoletti imbevuti di lacrime, mi ritrovai con un biglietto aereo in mano, destinazione California.
Sapevo che stavo tradendo la nostra promessa, ma anche loro non avevano tenuto fede alla nostra amicizia smettendo di scrivere.

Arrivata a Los Angeles rimasi abbagliata da quella città al tempo stesso infantile e pericolosa. Se dovessi paragonarla a un oggetto, direi che è come una pistola giocattolo, ma che alla fine spara davvero. Il cielo aveva colori chimici, ma comunque magici. Diedi l’indirizzo di Huck al tassista e poi sprofondai sul sedile posteriore in preda a un senso di nausea dovuta all’angoscia e a inspiegabili sensi di colpa. Palme lunghissime e sottili sfrecciavano dal finestrino, con le foglie altissime, come piume, simili a grandi uccelli preistorici. L’auto si fermò lentamente davanti a una villetta bizzarra con il tetto di pongo e la facciata in tinta pastello, esattamente come l’aveva descritta Huck. Suonai il campanello e comparve una vecchina con un sorriso disarmante e l’acconciatura più strana che avessi mai visto. I capelli bianchissimi erano avvolti a più giri sul capo come zucchero filato. Appena cercai di presentarmi mi riconobbe “Tu sei Becky!”e mi disse che era la nonna di Huck. Mi preparò il tè dopo avermi fatto fare un giro per la casa. Vivevano con lei un cane, un gatto e un canarino che andavano d’accordo come le creature del giardino dell’Eden. C’erano libri ovunque e strane statuine in porcellana, legno e terracotta che raffiguravano Marylin, Jim Morrison, la Madonna, James Dean e la foto di Huck con una tavola da surf. Tutto questo non bastò a prepararmi alla triste notizia: Huck era scomparso da due anni. La polizia e l’F.B.I. avevano smesso di cercarlo, ma lei non aveva ancora perso le speranze che un giorno sarebbe tornato, si sarebbe seduto come faceva sempre sulla poltrona dove ora ero seduta io e si sarebbe  messo a leggere tutte le  mie lettere. Piangemmo insieme, poi la salutai giurando che le avrei scritto e saremmo rimaste in contatto per comunicarci ogni notizia, anche minima, riguardante Huck.. Quando salii sul taxi che mi riportava all’aeroporto la guardai scomparire dal parabrezza posteriore: sembrava la versione americana della dea della Terra, la madre di tutti noi.

Non era ancora ora di tornare a casa, la prossima tappa era New York. Mi sarebbe piaciuto attraversare l’America guidando una decappottabile o saltare da un treno merci all’altro come il protagonista di un romanzo di Kerouac. Forse Huck stava vivendo così, girovago e selvaggio. Invece dall’aereo potevo misurare i kilometri di cielo che ci dividevano abbracciando un continente. Le nuvole sembravano i nostri pensieri, castelli in aria in uno spazio troppo grande per tre ragazzi che non avevano, però, smesso di amarsi.

Mi sono addormentata e ho fatto un sogno: mi trovavo al bancone di un bar con un Martini, aspettavo qualcuno. D’un tratto lui arriva ed è Tom, ma non è davvero Tom, non riconosco i lineamenti del viso. Penso di essere una sciocca, perché non l’ho mai visto e potrebbe essere un po’ diverso dalle foto che nel tempo mi ha mandato. Ma la sua faccia cambia continuamente. Per gioco mi volto, chiudo gli occhi e lo guardo: ho davanti un’altra persona, e così via all’infinito. Lui continua a parlare di cose che non mi interessano e intanto mi corteggia in modo sfacciato. Non mi riconosce. D’un tratto mi chiede come mi chiamo. Ci penso un attimo e decido di mentire “Il mio nome è Lana”.

Mi sveglio turbata da quella bugia, guardo il mio riflesso nel finestrino – ma chi è quella ragazza? – mi sento come se avessi smarrito le coordinate di me stessa.
Prendo sul sedile una cartolina con il logo della compagnia aerea e comincio a scrivere:

Caro Tom,

stavo per infrangere il nostro giuramento, volevo vederti, parlarti, chiederti perché non scrivi più. Poi ho capito che non aveva senso: abbiamo condiviso parti di noi che non mostriamo mai a nessuno. Se ci incontrassimo non ci riconosceremmo, avremmo sul viso la maschera che ci siamo scelti per stare al mondo, non le sembianze evanescenti del sogno. Se questo incanto si è spezzato voglio almeno conservarne il ricordo. Non potrei sopportare di guardarti senza davvero vederti. Sappi che ti ho sempre voluto bene e non smetterò di farlo.

Addio, Becky.

Il taxi si fermò davanti a un palazzone grigio e fatiscente. Un bambino giocava da solo per strada di fronte al portone principale. Gli chiesi se abitava lì il signor Tom S., lui rispose di sì e mi indicò col dito una delle decine di finestre in alto che non riuscii a localizzare. Suonai il citofono a un nome qualsiasi, dissi che dovevo fare una consegna, se mi potevano aprire. Trovai la casella con il nome e cognome di Tom. Prima di imbucare la cartolina scrissi sulla busta: “Sono stata qui”.

E me ne andai.

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