Era l’inverno di tre anni fa. Quando
arrivò la prima neve nessuno fu colto di sorpresa: da almeno vent’anni, nel
nostro paese, non mancava la neve a tingere di bianco i nostri tetti e i nostri
alberi e a raggelare i cuori di tutti. Quanto
era gelido l’inverno nel mio cuore, quell’anno!
<<Ti
aspetto questa sera, non mancare, vedrai che ci divertiremo!>>, mi
gridò al telefono Roberto, quasi ad intimarmi un impegno senza possibilità di
scampo. <<Non ti prometto niente ma
ti ringrazio per il pensiero che hai avuto. Sai…è un periodo che non mi va poi
tanto di vedere gente…>> risposi con un filo di voce spenta, quasi a
voler raffreddare l’entusiasmo, per la verità praticamente perenne, beato lui!,
del mio amico d’infanzia. <<Ma
senti un po’ che stronzo!...>>, mi
rispose, ancora con un tono di voce alto, ma questa volta per
l’arrabbiatura e non certo per l’entusiasmo, <<…io l’ho sempre considerato il fratello che non ho mai avuto e
lui mi considera “gente che non ha voglia di vedere”! Bell’amico che sei!
Complimenti, veramente!>> incalzò, inchiodandomi davanti al muro
della mia apatia. E della mia antipatia!
Non era per me un periodo
brillantissimo. Avevo sempre le pantofole ai piedi. E prima ancora al cervello.
Nel continuo e vertiginoso saliscendi della mia vita stavo forse toccando il
fondo, alla ricerca continua di una pausa dal mondo. Il mio amico lo sapeva, ne
avevamo parlato più volte, e forse proprio per questo ero stato uno dei primi
invitati a quella festa. Conosceva benissimo il mio stato d’animo ma evidentemente
avevo esagerato, ero stato troppo scortese. <<Non
mi hai fatto finire…intendevo dire che non sono nelle condizioni di conoscere
gente nuova. Presenterei di me un’immagine peggiore di quella che già mi
appartiene!>> dissi cercando di placarlo con un tentativo, mal
riuscito, di essere fintamente auto-ironico.
Sin dai tempi del liceo ero sempre
stato un po’ invidiato dai miei compagni per il successo che ottenevo, senza
sforzo alcuno, con le ragazze che mi capitavano a tiro. A trent’anni non avevo
perso assolutamente niente, a parte qualche capello. Anzi! Le due/tre ore
settimanali del mio tempo libero, passate tra piscina e palestra, avevano reso
meno fragile e immaturo il mio corpo di adolescente. L’aver ottenuto una laurea
in giurisprudenza in modo brillante e le mie già buone affermazioni in campo
professionale mi avevano dato quella sicurezza che forse non sempre ero
riuscito a dimostrare negli anni dei miei studi liceali. Insomma, dopo essere
stato ritenuto “un bel ragazzo” oggi ero esplicitamente definito, da molte
delle donne che mi capitava di conoscere, “un uomo molto interessante”. Se
c’era un’immagine che molti avrebbero voluto avere, quella era proprio la mia.
<<Va
bene, faccio finta di non aver sentito, anzi di non averti neanche chiamato. Tu
fai finta di aver saputo della festa da qualcun altro. Poi fai come credi. Se
decidi di venire sappi che ti concederò di aprirti la porta!>> mi
rispose Roberto, ancora evidentemente risentito. Non ebbi il tempo di un altro
tentativo di placarlo che interruppe la comunicazione telefonica. Mi sembrò
quasi di vederlo lasciar cadere la cornetta del suo telefono fisso da una mano
e mandarmi a quel paese con un gesto dell’altra. Passai il resto della mattina
e il primo pomeriggio a cercare nei meandri nascosti della mia fantasia
un’altra scusa, un possibile, soprattutto credibile, contrattempo occorsomi
all’ultimo momento per giustificare, con una telefonata a Roberto, la necessità
di declinare il suo invito. Niente! Tutto mi sembrava maledettamente ed evidentemente
falso e rabberciato! Avevo paura di offendere, ancor più di quanto avevo già
fatto, il mio amico, l’unico vero che mi era rimasto ad aver ancora voglia di
ascoltare le mie pesanti e, per i più, ormai insopportabili litanie di uomo
tradito.
***
Avevo investito troppo nel rapporto
con Federica. Non era facile cancellare cinque anni e mezzo, di cui gli ultimi
tre di convivenza, di una storia tutto sommato felice. Finché era durata! Fino
al giorno maledetto in cui, durante una passeggiata, mi trovai a guardare
attraverso la vetrina di un bar una coppia seduta ad un tavolino davanti a due
aperitivi. Lei era seduta quasi di profilo e mi incuriosì subito perché aveva
gli stessi capelli lunghi e biondi di Federica. A un certo punto, dopo che
insieme avevano sorseggiato il loro aperitivo, lui le mise una mano tra i
capelli, scoprendole metà viso, per avvicinarla a sé e baciarla. Era lei.
L’impulso fu quello di sfondare la
vetrina, per raggiungerli prima e…Invece m’imposi di frenarmi, girai le spalle
al bar come se la cosa non mi riguardasse, tornai a casa, la nostra casa,
camminando lentamente come un automa fino alla metropolitana. Dopo venti minuti
ero a casa a preparare le mie cose. Per anni al centro del fiume in piena mi
ritrovavo alla deriva. A reinventarmi. Non ebbi bisogno di spiegazioni. Anzi
non le volli! Forse le temevo.
***
Alle 19,00 ero già pronto per uscire
di casa per recarmi da Roberto. La lunga e calda doccia che avevo fatto non era
riuscita a scaldarmi più di tanto. Fuori faceva veramente freddo ma io ero
ancora nel tepore della mia casa, sprofondato nel divano vicino al camino. Come
nel baratro della mia disperazione, a percorrere un passato senza l’immagine di
un futuro.
Trascorsi quasi un’altra ora a fare
zapping col mio telecomando solo per far passare il tempo. Non volevo arrivare
il primo a casa di Roberto per sfuggire al suo probabile incalzare di
rimproveri. Quando, verso le 20,15, suonai alla sua porta e lui mi aprì
accogliendomi con il suo solito sorriso e con un abbraccio più affettuoso del
solito ebbi la certezza che mi aveva già perdonato. Ne fui rinfrancato.
Una composita ventata di profumi
maschili e femminili e di odori di cocktails e pizzette mi avvolse insieme alle
note di un gradevole sottofondo musicale che consentiva benissimo ai gruppetti
di ospiti, formatisi nell’enorme salone in stile moderno di Roberto, l’intimità
dei loro colloqui. Il fuoco che scoppiettava allegro nel grande camino
dell’angolo destro della parete di fronte fu la prima cosa che richiamò la mia
attenzione, e subito dopo, appena accanto, notai una ragazza dall’età apparente
di venticinque/trent’anni anni, stupenda senza essere appariscente, dallo
sguardo assente, che in quel momento parlottava con un collega di Roberto.
I capelli neri, corti, le mettevano
ancor più in evidenza il suo bel volto pulito, e le lasciavano scoperto il
collo sottile e la pelle leggermente abbronzata. Guardando di tanto in tanto
verso di lei mi avvicinai al tavolo degli aperitivi, chiacchierando con Roberto
e con un paio di suoi amici cui mi aveva presentato. Per la verità prestavo la
minima attenzione richiesta dalla banalità dei loro discorsi. I miei sforzi,
intellettuali e fisici, erano invece diretti ad incrociare lo sguardo, che
continuavo a percepire poco presente, di quella sconosciuta che mi aveva
colpito. Ci riuscì più volte, almeno così mi illusi. Ma il mio narcisismo
rimaneva ferito dal notare che gli occhi di lei sembravano continuare a
perlustrare il salone come se io non ci fossi. Sembrava che il suo sguardo scivolasse
su di me senza “toccarmi”. Il mio famoso fascino stava probabilmente venendo
meno! O, forse, si era già sparsa la voce che dentro un discreto involucro
c’era, in questo momento, solo un uomo antipatico e arido!
Dopo una buona ventina di minuti di
schermaglie di sguardi, troppo interessati i miei e troppo distratti i suoi,
afferrai due bicchieri del cocktail leggermente alcolico che avevo già
assaggiato e mi avvicinai lentamente a lei, porgendogliene uno, con fare da
navigato conquistatore: <<Ho notato
che non si è mai alzata a prendere qualcosa…posso offrirle io un bicchiere
di…>>. Non ebbi il tempo di finire che aveva già allungato il braccio
verso il bicchiere: <<Grazie, è
molto gentile da parte sua>>, rispose con fare un po’ incerto della
sua mano destra, cercando il bicchiere. In quel momento ebbi un’intuizione.
Forse in ritardo. Sicuramente la manifestai con troppo anticipo rispetto ai
tempi di una conoscenza che non era ancora arrivata alle presentazioni.
<<Sei
cieca?>>, le chiesi brutalmente. <<Sì,
sono cieca. Lo sono diventata a 20 anni!>>, mi rispose con un largo
sorriso, <<E’ la prima volta che
qualcuno me lo chiede senza giri di parole. Nessuno dice “cieca” in mia
presenza. Grazie molte…veramente!>>. L’avverbio, aggiunto alla fine
ed accompagnato da un sorriso ancora più solare che non poteva che essere
sincero, mi fugò ogni dubbio che potessi averla ferita. Anche un breve sorriso
può essere eterno.
Con Rossella parlammo tutta la sera,
con la semplicità serena e il piacere intimo di una chiacchierata tra buoni
amici di vecchia data, ma anche con la reciproca voglia di conoscersi di due
persone che si piacciono da subito. Perché l’affinità è nell’anima.
Ci sono serate corte e serate
lunghissime. Quella trascorse velocemente, troppo velocemente, e alla fine, nel
salutarci, mi venne spontaneo abbracciarla teneramente. Ritrovai emozioni
fanciulle. Lei mi corrispose. Fu come se due anime si compenetrassero in
un’intimità di pensieri e di corpi. Fu l’inizio.
Ci rincontrammo, su suo invito, il
pomeriggio successivo per un piacevolissimo the caldo. E poi il giorno dopo…e
tanti altri ancora. Continuammo a raccontarci ogni volta pezzi di noi, io della
mia storia appena finita, lei della sua retinite pigmentosa, scoperta a
quattordici anni, che l’aveva progressivamente costretta a riorganizzare la sua
vita. Era molto tenera nel suo raccontare intenso. Ma la sua era la storia di
una donna dal carattere fortissimo. La scoperta della malattia, ancora
ragazzina, con tutti i problemi di quell’età, avrebbe potuto distruggere
chiunque. Lei, invece, dopo un brevissimo periodo di smarrimento, aveva
reagito. Aveva cominciato, senza perdere tempo, a imparare l’uso del braille e
quello del bastone. Arrivata a diciotto anni, mentre la malattia le spegneva,
ogni giorno di più, il sole negli occhi, aveva scelto con cura la facoltà più
adatta, così come aveva fatto, da subito, con le attività sportive.
Soprattutto, da subito, imparò a prendersi dalla vita tutto quello che i
cosiddetti “normali” neanche riescono a vedere e capire, a gustare il sapore
delle piccole felicità. Nella nostra epoca, l’epoca dell’immagine, riesce
difficile immaginare privazioni maggiori della vista. Facciamo fatica a capire,
noi “normali”, che la vita è fatta di molto altro. Ma lei non è normale. È
super!
Chissà!? Mi chiedo ogni giorno se
sarebbe mai diventata la persona eccezionale qual è se non avesse dovuto
confrontarsi con la malattia! E se invece la malattia avesse colpito una
ragazza più insicura, meno determinata, che donna sarebbe diventata? Non certo
la donna meravigliosa che oggi è Rossella, la mia donna.
Da tre anni viviamo insieme,
praticamente inseparabili da quella sera a casa di Roberto. Mi sono sembrati
speciali. Ma non sono mai gli anni o i giorni ad essere speciali. Speciali sono
le persone con cui li viviamo. Come Rossella. Anche quest’anno è arrivata la
prima neve. Ogni anno mi sembra sempre più bianca. Sempre più bella. Ed è per
questo che non mi stanco di continuare a descrivergliela…
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