Non
faceva nessuna fatica a star piegata. In fondo era diventata la sua posizione
naturale: quel contatto con la terra si coniugava con una corrispondenza di
nascita e di crescita che pareva fosse una gratitudine d’amore che le zolle le
tributavano attraverso crescite rigogliose.
Era
robusta e forte Lilla. Ormai sui trentacinque anni, il suo corpo bruno si era
talmente abituato alla cura che lei aveva per la sua “Manta” che le pareva di
esserne parte integrante e indispensabile.
Quella
vasta estensione di terra l’aveva chiamata così perché dalla collina che le
stava dietro appariva come una coltre di verde variegato e una volta una sua
amica che veniva dalla città le aveva detto sorridendo che sembrava, una coperta,
una manta, come si diceva nel loro dialetto.
Lilla
viveva quasi esclusivamente là, per la terra, diventata la sua creatura
preferita. V’erano ortaggi e coltivazioni di ogni tipo a cui lei aveva
riservato zone ben delimitate, specie di quadrati, come quelli di una scacchiera,
dove vegetavano prodotti diversi. Dalla Manta Lilla ricavava tutto:
soddisfazioni, disappunti, aspirazioni, compiacimenti e delusioni. Tutto
dipendeva dalla corrispondenza fra la cura che ella metteva nel coltivare
quelle che lei considerava sue creature e le risposte di rigoglio o, talvolta,
di stenti e di rifiuti che venivano da quelle scacchiere.
Periodicamente
veniva a trovarla don Ciccio che le comprava i “pezzi” migliori per rivenderli
al mercato o allo “scaro”. Pagava anche bene don Ciccio, ma aveva un modo di
scegliere la merce che la indispettiva un po’ perché per lei tutte le sue
piante erano uguali, solo che avevano bisogno di cure diverse. Ma questo don
Ciccio, che pur era una brava persona, non poteva saperlo, prigioniero della
sua mentalità di commerciante. Del resto Lilla non poteva lamentarsi. La terra
era buona e la Manta ,
che era piuttosto grande, si comportava bene sotto ogni punto di vista.
Una
parte l’aveva ereditata dai suoi genitori e l’altra che stava più in fondo era
stata di Salvuccio, suo marito, con il quale avevano condiviso non solo la
terra ma anche il tetto coniugale e un amore intenso e leale. Finché …
La
sera, specialmente in primavera e in estate, Lilla e Salvuccio si sedevano a
guardare il tramonto nello spiazzo davanti alla casa ed era lì che il marito la
affascinava col racconto di Paesi lontani, di nature diverse, di modi fare e di
vivere che sapevano più di fiaba che non di racconto. Era un sognatore
Salvuccio e Lilla, immersa nel lavoro durante la giornata, pregustava la
dolcezza dei tramonti e lo schiudersi della fantasia ai racconti di Salvuccio
che le teneva la mano.
Si
era tanto abituata che quando al sabato il marito andava in paese per fare
bisboccia e bere qualche bicchiere con gli amici, non soffriva ma lo aspettava,
pregustando un’altra specie di contatto più intenso, fisico ma non solo, che
appagava i suoi sensi e l’empito d’amore che provava per il suo uomo. Aveva un odore aspro, inconfondibile il
corpo di Salvuccio, sentore che la
inebriava e che lei cercava di rivivere con l’immaginazione quand’egli non
c’era. Poi, quel mattino.
Era
domenica. Salvuccio la sera prima aveva fatto l’amore con lei. E ora, come in
ogni giorno festivo, Lilla si attardava nelle coltri aspettando che il marito
si svegliasse per stare a chiacchierare un po’ con lui o magari, come spesso
succedeva, per ripetere e continuare quell’atto d’amore che li aveva visti
uniti la sera prima. Ma quel mattino non sentì l’odore del marito, per quanto
lo cercasse intensificando il senso dell’olfatto. Nel grande letto cercò con la
mano il suo corpo ma non lo trovò. Chiamò prima adagio poi più forte. Silenzio;
non rispose nessuno. Cercò per tutta la casa, poi andò sullo spiazzo e con
vigore e con la forza della disperazione inondò del suo richiamo tutta la Manta. Nessuno le rispose. Lilla si sedette,
allora, per terra sull’aia e pianse tanto.
Capì,
però. Salvuccio aveva voluto raggiungere gli spazi dei suoi racconti, i luoghi
variopinti e animati che avevano riempito la sua giovinezza e aveva cercato di
ritrovarla in un altrove a lei sconosciuto, quella sua purezza giovanile. Si
alzò e decise. Non l’avrebbe cercato il suo Salvuccio. Perché imprigionarlo
nella routine quotidiana, fatta di cose piccole e limitate? Perché tarpargli le
ali in un volo teso a una libertà sognata e finalmente realizzata? Non andò dai
carabinieri a denunciarne la scomparsa. Aveva capito che il suo mettersi da
parte doveva essere il suo vero atto d’amore nei confronti di Salvuccio.
E
così aveva continuato a coltivare la sua terra pagando Amehd e Lumban, due nigeriani clandestini, che
talvolta l’aiutavano a curare le coltivazioni della Manta. Tutto questo
rimuginava nel ricordo Lilla mentre accudiva e curava le sue piante. Giù, in
fondo, quasi al confine, vi erano delle grosse siepi che servivano a
proteggerle dalle improvvise folate di vento. La parte destra della Manta,
però, avrebbe richiesto magari un albero che frangesse certe ventate che
venivano talora da quella parte. Don Ciccio le aveva promesso che le avrebbe
portato un alberello di pesco che, cresciuto, non solo avrebbe dato buoni
frutti, evitando anche gli inconvenienti che lei lamentava.
Proprio
quella mattina l’aveva chiamata per dirle che l’aveva trovato e che,
caricandolo sul tetto della sua macchina, glielo avrebbe portato in giornata.
Ora
bisognava scavare e preparare il terreno che avrebbe dovuto accogliere le
radici. Lilla andò fino alla casa, prese una vanga e cominciò a scavare con vigore, senza aspettare i due aiutanti
che magari non sarebbero venuti. Ad un
certo punto la vanga trovò una specie di resistenza. Forse una pietra o un masso che bisognava rimuovere,
pensò la donna e con il piatto della vanga cercò di accertarne la natura. Le
venne un colpo al cuore quando le parve di scorgere una testa umana, un
teschio. Fu presa da una specie di frenesia e, abbandonato il suo strumento, si
gettò nella buca e continuò a scavare con le unghie. Piano cominciò a
delinearsi un corpo, uno scheletro. La camicia a quadri di Salvuccio, ora
macchiata da una specie di siero marrone, i suoi pantaloni di fustagno, gli
stivali neri e poi nell’osso rinsecchito dell’anulare sinistro il bagliore
giallastro di un anello. Quasi impazzita Lilla tolse la fede dal suo di anulare
e la mise accanto a quella dello scheletro. Corrispondeva. La tolse da quel
dito e trovò che le date incise erano identiche. I vestiti emanavano un odore
di marcio stantio, resi incrostati e sporcati dal tempo e dalla terra. Quattro anni, quattro anni erano passati da
quando Salvuccio era scomparso. Che aveva fatto, dove era andato, perché e come
era morto? Lilla impazzì, si mise a piangere e a gridare stringendo poi
quell’ammasso di ossa, cercando di ritrovarvi il perso odore aspro del suo
Salvuccio. Ma invano. Corse verso la casa, prese il ”vespino” che era stato del
marito, con il quale si recava talvolta in paese, e vi si precipitò.
I
carabinieri la ascoltarono con pazienza, poi, accompagnati da Lilla che
piangeva come una fontana, andarono a prendere il corpo di Salvuccio per gli
accertamenti di rito.
E
qui cominciò per Lilla una sorta di calvario. Interrogatori a non finire sui
rapporti fra lei e il marito, sulla ricostruzione di quel giorno di quattro
anni prima, sul perché la donna non avesse denunziato la scomparsa di Salvuccio.
Il giudice per le indagini preliminari chiese che Lilla, sospettata di
omicidio, fosse rinchiusa in carcere al fine di non inquinare le eventuali
prove. Il cadavere di Salvuccio fu portato a Palermo per approfonditi esami
autoptici ma a distanza di quattro anni non si riuscì ad appurare come fosse
morto e perché. Non vi erano segni di ferite da taglio né di proiettili e
nemmeno si poterono ravvisare segni di soffocamento o di percosse.
E
allora? Lilla, dopo parecchie resistenze, si convinse a farsi assistere
dall’avvocato Munafò inviato da don Ciccio che credeva nella sua innocenza.
Munafò cercò di mettere le cose a posto: non c’era alcuna prova a carico di
Lilla, nemmeno indizi. Del resto le cause della morte di Salvuccio non potevano
attribuirsi a niente di concreto e pertanto nessuna responsabilità poteva
emergere a carico di Lilla. La donna, peraltro, aveva ampiamente parlato dei
sogni ad occhi aperti del marito e delle sue aspirazioni a recarsi in luoghi
lontani, magari immaginari.
Del resto se Lilla fosse stata colpevole non
avrebbe denunziato la scoperta del cadavere dopo quattro anni, smuovendo delle
acque che, fino alla sua denunzia, erano rimaste chete. Dopo altre domande,
sopralluoghi e inutili ricerche di prove di colpevolezza sua o d’altri, Lilla
fu prosciolta.
Le
porte della “Casa circondariale”si aprirono per lei in un bel mattino di sole e
la donna respirò a pieni polmoni l’aria della ritrovata libertà.
Sullo
spiazzale la aspettava il fedele don Ciccio per riportarla a casa con la sua
vecchia automobile.
“Eccoti
finalmente libera”, esclamò contento.”E ora cerca di dimenticare questo brutto
periodo”, le raccomandò.
“Non
temere”, rispose Lilla con un largo sorriso.”Per mia fortuna io riesco a cancellare
le cose brutte. Così vivo più serena. Non ti pare?”
“ E già, già”
borbottò Ciccio perplesso, storcendo la bocca.
Le fu restituito il corpo del marito. Religiosamente la donna lo rimise
nel posto in cui l’aveva trovato pensando che Salvuccio, magari, aveva trovato
lì la sua pace e il sogno di quegli orizzonti agognati per tanto tempo.
Qualche
giorno dopo nel vialetto che conduceva alla Manta don Ciccio tornò con
l’alberello di pesco legato sul tetto della sua auto. Si dissero poche parole;
di ringraziamento lei, di conforto lui. Poi Lilla andò a piantare da sola
l’alberello, anche se le costò un po’ di fatica, ma non volle condividere con
nessun altro quel suo rito. Curò la pianta in modo particolare e le sue
attenzioni dettero i loro frutti e non solo in senso metaforico. In estate
l’albero, ormai cresciuto, era punteggiato da dolci sferette di color rosa
pallido. Amehd e Lumban nel congratularsi con Lilla vollero assaggiare quelle
pesche. Avevano la morbidezza delle “spaccarelle” e la dolcezza delle “montagnole”.
“Ma
è una razza di pesche tutta nuova”, esclamò Amehd con la bocca piena. “Come le
chiamiamo, signora?”
Lilla
ne prese una e la morse: “Le chiameremo pesche salvucce” e continuò a
masticarle, gustando quell’aspro sentore del marito che lei non avrebbe mai
dimenticato.
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