Non che fosse diversa dall’ultima
volta. Solo, la casa era più simile alla sua idea di come sarebbe stata:
una struttura che si reggeva a stento sulle fragili fondamenta del ricordo. La
porta era aperta. Salì la stretta rampa di scale e irruppe nelle stanze. Un
fascio di luce filtrava dalle commessure del giorno. Il vecchio lo guardò, non
sorpreso. Aveva la barba lunga e un ampio vestito da derviscio.
Com’è andato il viaggio?, gli chiese.
Al solito, rispose. Strade bucate e
l’assedio del sole.
Più che imbianchito, il vecchio
appariva diafano. Invecchiare non è questione di tempo e carne vizza, è un
fatto di colori. La scala di grigio a ripetizione, un processo di luce da zero
a cento, perenne. Il vecchio tirò fuori un bicchiere e lo riempì di vino rosso.
Non bevi?, chiese.
Non ho mai bevuto.
Ah, già, fece.
La stanza era sporca.
Scusa per l’odore, i gatti hanno
pisciato praticamente dappertutto.
Si sente, disse.
Uno dei gatti lo guardava lubrico.
Ritto, la coda acciambellata, era la delicata entità pagana della simmetria.
Una sottile muffa avvinghiava la parete
nord e le donava una piacevole fluorescenza. L’uomo allineò sul tavolo due
pesci panciuti. Ne alzò uno profilando un feroce guizzo, gli infilò in pancia
un dito nero e ne estroflesse un intrico anelliforme e semiliquido. La padella
già sfrigolava. Mangiarono secondo il rigido protocollo del silenzio.
Il gemello giunse alla casa più tardi,
dalla stessa strada interpoderale, solcò la stessa campagna pelata, attraversò
lo stesso viale alberato, ma veniva da un tempo diverso, un ordito cosmico che
recava il contrassegno dell’ordine, della linea retta. Abbracciò il vecchio,
strinse la mano al suo corrispettivo omozigotico.
Come te la passi?, sistemandosi sulla
testa dei Ray Ban a specchio passati di moda da almeno dieci anni.
Ho visto tempi peggiori.
Entrarono nella stanza del camino. Il
padre servì del caffè turco.
Riparto stasera, domani rientro al
lavoro, disse il gemello ultimo arrivato. Voglio essere chiaro. S’aggiustò
sulla sedia e poggiò i gomiti sul tavolo.
La terra non mi interessa, ma per quanto
riguarda la casa, quando papà sarà andato, voglio sia messa immediatamente in
vendita.
Quando papà sarà andato, ne riparleremo.
Meglio deciderlo subito e metterlo nero
su bianco.
Non è detto che io sia disposto a
vendere, disse il gemello numero uno.
Non puoi decidere da solo, è l’eredità
di mamma. Se non vorrai vendere, allora dovrai darmi la mia metà, in soldi. La
faremo valutare e…
Quando sarò andato, voi potreste anche avermi preceduto, uno o tutt’e due, meglio
non dare nulla per scontato, disse il vecchio, con un sorriso da ruga
orizzontale. E di certo, di cosa fare della casa, sarà l’ultimo dei miei
problemi. Inoltre, aggiunse, la casa non è negoziabile.
Tra il gemello numero uno e il vecchio
scoccò una telefonata visiva, strana lugubre intesa. Il gemello numero due invece
non capì e rimase con la bocca mezzo aperta e gli occhi preda di uno stolido
interrogativo.
Il vecchio uscì in giardino, si fece
largo tra erbe infestanti e giunse al casotto degli attrezzi. I gemelli
continuarono a scrutarsi come cani prima di un combattimento, valutando più che
forza muscolare, incrinazioni nel tessuto della sicurezza, possibili falle nel
muro dell’altrui volizione.
Fuori
l’aria s’addensava, e cumulonembi, in alto, riorganizzavano nuovi piani
per una luce in lenta digradazione.
Quando il vecchio rientrò, il gemello
numero uno stava rollandosi una canna d’erba sotto lo sguardo schifato della
sua controparte zigotica.
Il vecchio gettò un fascio di fogli sul
tavolo. C’era un’intestazione. C’erano delle volontà e delle clausole. C’era un
distico che recitava debita hereditaria
ipso iure dividuntur, dunque patti da rispettare tra contraenti, de cuius, terzi e successori. Sulla
carta vi era un logo costituito da un triangolo dentro un cerchio. Era il loro marchio su tutto, il contrassegno
di un potere ancestrale e pervasivo, ampie sfere d’influenza su corpi e menti.
La casa non è di mamma, quindi…
Appartiene a loro?, chiese Gemello numero due, e la voce s’alzo di un’ottava e
qualche decibel, un’impennata al limite con l’isteria.
Diciamo che lo è stata fintanto che la
donna ha reso proficuo ufficio.
Tu sapevi?, chiese numero due. Sapevi e
non ci hai mai detto nulla su questa monatgna di merda.
Sì, sapevo. Stai parlando di mia
moglie.
Parlo di mia madre, numero due scattò su come una furia.
Il vecchio lo fulminò con uno sguardo
ferino.
Siediti, gli ordinò.
Il gemello numero due obbedì. Guardò i
due e aggiunse, siete ancora infognati in questo cumulo di merda, anche ora che
mamma è sottoterra.
Sta molto attento a quello che fai,
disse il vecchio. La casa appartiene a chi officia il rito. La cosa ha dei
privilegi, ma grandi oneri. Ti sei mai chiesto come hai fatto a laurearti, tu,
festaiolo del cazzo? Sotto sotto, l’hai sempre saputo.
Non sono affari miei. Siete degli
squilibrati e non voglio entrarci niente. Il numero due si alzò, indossò la
giacca di cachemire. Presto avrete la lettera del mio avvocato.
Il vecchio leone balzò per un
interminabile attimo fuori da una qualche caverna profonda. Il padre s’avventò
sul numero due. Uno dei gatti, il persiano, saltò in aria, e quando atterrò
slittò sulle zampe posteriori, prima di darsela a gambe verso l’uscio.
Idiota, hanno branchi d’avvocati… hanno banche, hanno pusher, hanno catene di
fast food, hanno hackers, e il tuo neolaureato figlio di papà avrà una macchia
d’urina sulla patta prima ancora che la sua letterina avrà lasciato lo studio.
Il numero uno corse ad allentare la
presa del vecchio. Il numero due si divincolò e uscì dalla casa. Il vecchiò gli
chiocciò dietro una risata avvilita. Ti romperaranno il culo.
Il persiano tornò in casa a sera
inoltrata, scaricando in dono a qualche divinità della casa un topo morto sul
tappeto.
Quando il telefonò trillò, verso le 22,
padre e figlio erano ingobbiti sui resti di una cena frugale.
Il vecchio alzò la cornetta, ma non
disse pronto. Non disse nulla. Durò
poco, e il figlio colse solo qualche scampolo di conversazione. Quando chiuse,
il vecchio dimostrava qualche eone in più.
La successione
riguarda la primogenitura, disse.
Siamo gemelli, gli ricordò numero due.
Lui. Lui è stato partorito per secondo.
Legalmente è lui.
Prenderanno la casa?, chiese il figlio.
Nella migliore delle ipotesi, rispose
il vecchio.
Restarono seduti uno di fronte
all’altro, senza una parola, fino a notte inoltrata.
La strega mancava, un’assenza elettrica
e con un peso specifico. La casa non era morta, ma appassita. Esangue,
deprivata d’una linfa densa e torbida, rea d’aver dato, in tempi andati, vita e
colore agli oggetti.
Se n’è andata com’è vissuta, disse. In
punta di piedi, aggiunse. Nella voce del vecchio risuonava una dolcezza che non
aveva mai avuto. La blandizie della resa. Il vecchio leone non era più lì.
Forse stava agonizzando da qualche parte, nel buio fuori. Ma non era più lì.
Una camera da letto dava su scampoli di
notte. Era il ricettacolo di chincaglieria Wicca. Lo smalto da baraccone, se ti
fermi al primo livello. Una serie di cerchi concentrici con al centro l’Oro. Ma
al centro ci si arrivava smarcando il guardiano del giardino. Frugò in un
cassetto. C'erano lettere e ritagli di giornale, c'erano calze di seta e un
involto con dell’erba. Prese l'indormia e si recò in cucina.
Dormì nel letto della strega. Poteva
sentire il vecchio nell’altra stanza, i marosi senili di un calmo russare. Sul
soffitto una cartografia maculata, fatta di stelle fluorescenti a disegnare il
Carro. Tirò su le coperte ed esalò, poi sprofondò nella pancia della madre
un’ultima volta, come fosse un Edipo in overdose.
Il giorno li sorprese con una luce
smorta. Si salutarono nel cortile con l’impaccio di chi è nudo.
Sai cosa mi manca?, chiese il vecchio.
Si, rispose l’uomo. Lo so. Ma è per
ognuno diverso. Poi vide con l’occhio dello stomaco un’alba di mani e pentacoli
su un seno morbido. Il caprifoglio in giardino sfioriva.
Sulla faccia del vecchio un qualche
ricordo incise l’ultimo fatale solco.
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