lunedì 25 maggio 2015

Gioele Valenti - Strega dell'aria

Non che fosse diversa dall’ultima volta. Solo, la casa era più simile alla sua idea di come sarebbe stata: una struttura che si reggeva a stento sulle fragili fondamenta del ricordo. La porta era aperta. Salì la stretta rampa di scale e irruppe nelle stanze. Un fascio di luce filtrava dalle commessure del giorno. Il vecchio lo guardò, non sorpreso. Aveva la barba lunga e un ampio vestito da derviscio.
Com’è andato il viaggio?, gli chiese.
Al solito, rispose. Strade bucate e l’assedio del sole.
Più che imbianchito, il vecchio appariva diafano. Invecchiare non è questione di tempo e carne vizza, è un fatto di colori. La scala di grigio a ripetizione, un processo di luce da zero a cento, perenne. Il vecchio tirò fuori un bicchiere e lo riempì di vino rosso.
Non bevi?, chiese.
Non ho mai bevuto.
Ah, già, fece.

La stanza era sporca.
Scusa per l’odore, i gatti hanno pisciato praticamente dappertutto.
Si sente, disse.
Uno dei gatti lo guardava lubrico. Ritto, la coda acciambellata, era la delicata entità pagana della simmetria.

Una sottile muffa avvinghiava la parete nord e le donava una piacevole fluorescenza. L’uomo allineò sul tavolo due pesci panciuti. Ne alzò uno profilando un feroce guizzo, gli infilò in pancia un dito nero e ne estroflesse un intrico anelliforme e semiliquido. La padella già sfrigolava. Mangiarono secondo il rigido protocollo del silenzio.

Il gemello giunse alla casa più tardi, dalla stessa strada interpoderale, solcò la stessa campagna pelata, attraversò lo stesso viale alberato, ma veniva da un tempo diverso, un ordito cosmico che recava il contrassegno dell’ordine, della linea retta. Abbracciò il vecchio, strinse la mano al suo corrispettivo omozigotico.
Come te la passi?, sistemandosi sulla testa dei Ray Ban a specchio passati di moda da almeno dieci anni.
Ho visto tempi peggiori.
Entrarono nella stanza del camino. Il padre servì del caffè turco.
Riparto stasera, domani rientro al lavoro, disse il gemello ultimo arrivato. Voglio essere chiaro. S’aggiustò sulla sedia e poggiò i gomiti sul tavolo.
 La terra non mi interessa, ma per quanto riguarda la casa, quando papà sarà andato, voglio sia messa immediatamente in vendita.
Quando papà sarà andato, ne riparleremo.
Meglio deciderlo subito e metterlo nero su bianco.
Non è detto che io sia disposto a vendere, disse il gemello numero uno.
Non puoi decidere da solo, è l’eredità di mamma. Se non vorrai vendere, allora dovrai darmi la mia metà, in soldi. La faremo valutare e…
Quando sarò andato, voi potreste anche avermi preceduto, uno o tutt’e due, meglio non dare nulla per scontato, disse il vecchio, con un sorriso da ruga orizzontale. E di certo, di cosa fare della casa, sarà l’ultimo dei miei problemi. Inoltre, aggiunse, la casa non è negoziabile.
Tra il gemello numero uno e il vecchio scoccò una telefonata visiva, strana lugubre intesa. Il gemello numero due invece non capì e rimase con la bocca mezzo aperta e gli occhi preda di uno stolido interrogativo.
Il vecchio uscì in giardino, si fece largo tra erbe infestanti e giunse al casotto degli attrezzi. I gemelli continuarono a scrutarsi come cani prima di un combattimento, valutando più che forza muscolare, incrinazioni nel tessuto della sicurezza, possibili falle nel muro dell’altrui volizione.
Fuori  l’aria s’addensava, e cumulonembi, in alto, riorganizzavano nuovi piani per una luce in lenta digradazione.
Quando il vecchio rientrò, il gemello numero uno stava rollandosi una canna d’erba sotto lo sguardo schifato della sua controparte zigotica.
Il vecchio gettò un fascio di fogli sul tavolo. C’era un’intestazione. C’erano delle volontà e delle clausole. C’era un distico che recitava debita hereditaria ipso iure dividuntur, dunque patti da rispettare tra contraenti, de cuius, terzi e successori. Sulla carta vi era un logo costituito da un triangolo dentro un cerchio. Era il loro marchio su tutto, il contrassegno di un potere ancestrale e pervasivo, ampie sfere d’influenza su corpi e menti.
La casa non è di mamma, quindi… Appartiene a loro?, chiese Gemello numero due, e la voce s’alzo di un’ottava e qualche decibel, un’impennata al limite con l’isteria.
Diciamo che lo è stata fintanto che la donna ha reso proficuo ufficio.
Tu sapevi?, chiese numero due. Sapevi e non ci hai mai detto nulla su questa monatgna di merda.
Sì, sapevo. Stai parlando di mia moglie.
Parlo di mia madre, numero due scattò su come una furia.
Il vecchio lo fulminò con uno sguardo ferino.
Siediti, gli ordinò.
Il gemello numero due obbedì. Guardò i due e aggiunse, siete ancora infognati in questo cumulo di merda, anche ora che mamma è sottoterra.
Sta molto attento a quello che fai, disse il vecchio. La casa appartiene a chi officia il rito. La cosa ha dei privilegi, ma grandi oneri. Ti sei mai chiesto come hai fatto a laurearti, tu, festaiolo del cazzo? Sotto sotto, l’hai sempre saputo.
Non sono affari miei. Siete degli squilibrati e non voglio entrarci niente. Il numero due si alzò, indossò la giacca di cachemire. Presto avrete la lettera del mio avvocato.
Il vecchio leone balzò per un interminabile attimo fuori da una qualche caverna profonda. Il padre s’avventò sul numero due. Uno dei gatti, il persiano, saltò in aria, e quando atterrò slittò sulle zampe posteriori, prima di darsela a gambe verso l’uscio.
Idiota, hanno branchi d’avvocati… hanno banche, hanno pusher, hanno catene di fast food, hanno hackers, e il tuo neolaureato figlio di papà avrà una macchia d’urina sulla patta prima ancora che la sua letterina avrà lasciato lo studio.
Il numero uno corse ad allentare la presa del vecchio. Il numero due si divincolò e uscì dalla casa. Il vecchiò gli chiocciò dietro una risata avvilita. Ti romperaranno il culo.
Il persiano tornò in casa a sera inoltrata, scaricando in dono a qualche divinità della casa un topo morto sul tappeto.

Quando il telefonò trillò, verso le 22, padre e figlio erano ingobbiti sui resti di una cena frugale.
Il vecchio alzò la cornetta, ma non disse pronto. Non disse nulla. Durò poco, e il figlio colse solo qualche scampolo di conversazione. Quando chiuse, il vecchio dimostrava qualche eone in più.
La successione riguarda la primogenitura, disse.
Siamo gemelli, gli ricordò numero due.
Lui. Lui è stato partorito per secondo. Legalmente è lui.
Prenderanno la casa?, chiese il figlio.
Nella migliore delle ipotesi, rispose il vecchio.
Restarono seduti uno di fronte all’altro, senza una parola, fino a notte inoltrata.

La strega mancava, un’assenza elettrica e con un peso specifico. La casa non era morta, ma appassita. Esangue, deprivata d’una linfa densa e torbida, rea d’aver dato, in tempi andati, vita e colore agli oggetti.
Se n’è andata com’è vissuta, disse. In punta di piedi, aggiunse. Nella voce del vecchio risuonava una dolcezza che non aveva mai avuto. La blandizie della resa. Il vecchio leone non era più lì. Forse stava agonizzando da qualche parte, nel buio fuori. Ma non era più lì.

Una camera da letto dava su scampoli di notte. Era il ricettacolo di chincaglieria Wicca. Lo smalto da baraccone, se ti fermi al primo livello. Una serie di cerchi concentrici con al centro l’Oro. Ma al centro ci si arrivava smarcando il guardiano del giardino. Frugò in un cassetto. C'erano lettere e ritagli di giornale, c'erano calze di seta e un involto con dell’erba. Prese l'indormia e si recò in cucina.

Dormì nel letto della strega. Poteva sentire il vecchio nell’altra stanza, i marosi senili di un calmo russare. Sul soffitto una cartografia maculata, fatta di stelle fluorescenti a disegnare il Carro. Tirò su le coperte ed esalò, poi sprofondò nella pancia della madre un’ultima volta, come fosse un Edipo in overdose.

Il giorno li sorprese con una luce smorta. Si salutarono nel cortile con l’impaccio di chi è nudo.
Sai cosa mi manca?, chiese il vecchio.
Si, rispose l’uomo. Lo so. Ma è per ognuno diverso. Poi vide con l’occhio dello stomaco un’alba di mani e pentacoli su un seno morbido. Il caprifoglio in giardino sfioriva.
Sulla faccia del vecchio un qualche ricordo incise l’ultimo fatale solco.

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