Il 4 giugno 2005 sfilavano quei matti del
Gay Pride e noi ci eravamo rifugiate in un bar per far passare la scarmigliata
manifestazione che inondava Via Dante, riempiendola di colori, canti e slogan
ripetuti con i megafoni. Stavo sorseggiando una coca quando mi accorsi che la
mia amica Liviana si era illuminata all’ingresso di un gruppetto variopinto e
si era alzata a salutare una ragazza vestita da centauro.
Si volse direttamente a me presentandosi
con una stretta sicura: «Piacere, mi chiamo Franca, sono una sua vecchia
collega - ammiccando verso Liviana - dei tempi della Croce Bianca, e tu…»
«Io sono Graziella, ciao!»
«Non venite alla manifestazione? Sì, lo
so che Liviana non ama schiamazzi, parolacce e tutto il repertorio di questi
eventi, però tu Graziella…» Per tutto il tempo della breve conversazione non smisi
un attimo di fissarla. Mi sentivo attratta.
Franca, con gli occhi nei miei spegneva le
ultime parole sulle labbra. Prese la mia mano come se fossimo vecchie amiche e
mi trascinò fuori. L’aria calda d’inizio estate aveva la stessa temperatura
delle mie guance. Per la prima volta, vivevo un’avventura imprevista e
spensierata. La mano che stringevo dava sicurezza, protezione, e nello stesso
tempo mi faceva sentire libera, frizzante e spavalda. Nella corsa persi il
laccio che tratteneva i capelli raccolti sulle spalle. Me ne accorsi solo
quando Franca accarezzò quell’anemone di mare biondo che si era aperto incorniciandomi il viso; la punta delle dita che scostò
i ricci dalla mia fronte, mi fece tremare in un
mix di piacere e smarrimento. In quell’attimo intuii la predestinazione in tutto
questo, eppure avevo paura, non sono mai stata coraggiosa e comunque non
volevo, né potevo, oppormi all’inevitabile.
Vorrei ora la stessa sicurezza di allora.
Ho bisogno di sentirla, anche se sarà impegnata in ospedale.
«Cosa c’è?» rispondo con tono secco udendo la voce di Graziella.
Sono uscita dalla riunione sotto lo sguardo del primario e dovrò scusarmi.
Neppure un ciao le ho detto e mi pento subito. L’ansia che lei possa star male,
che questo bambino tanto desiderato possa sparire, condiziona il nostro
rapporto. Eppure all’inizio c’eravamo solo noi e il nostro amore. Mi era
piaciuta immediatamente, quel giorno, alla manifestazione. Mi aveva conquistato
la sua innocenza, come si era affidata, lasciata andare nella stretta della mia
mano. Ancora oggi percepisco il contatto tra i nostri palmi: aderivano
perfettamente come se avessero capito di aver trovato la pace. Quando torno dal
turno di notte la osservo dormire. A causa della gravidanza ha sempre caldo,
spesso ha la schiena scoperta e m’incanto a guardarla: così perfetta con il
reticolo delle ossa delineate, un ricamo sotto la pelle. Vorrei avere un palmo
così grande da contenerla tutta, per proteggerla meglio. Per non svegliarla, m’incollo
piano al suo corpo e appoggio la mano sulla pancia per sentire i movimenti del
bambino. Provo lo stesso intenso sentimento del giorno in cui ci siamo conosciute,
avevo un unico pensiero: “É la madre dei miei figli”.
Scorro svogliata i settimanali posati sul
tavolino nella sala d’attesa del laboratorio per gli esami di routine. Cerco di
leggere con attenzione un articolo ma non riesco a concentrarmi. Spesso divago,
un pensiero porta verso un altro opposto e va sempre più lontano, senza che
riesca a focalizzare un argomento e approfondirlo, forse a causa del mio stato
oppure è solo un alibi per non preoccuparmi. Dovrei, come ripete Franca, lasciare
andare la mente dove vuole, alla fine ti porta
sempre alla meta. La vecchietta di fronte a
me non smette di guardarmi e sorridere, mi adeguo e subito chiede: «Lei non ha
paura? Io non sopporto la vista del sangue». «No, io no» replico, pensando di aver esaurito
l’argomento. Lei prosegue imperterrita e racconta tutti gli acciacchi dell’età
avanzata e del figlio che non vede mai, però ha due cagnolini e risolve tutta la Settimana Enigmistica.
Mi appare il viso di Sandro.
Noi volevamo convivere, amarci e avere un
figlio. Ci eravamo rivolte all’associazione Arcilesbiche per avere
informazioni: tutte portavano all’estero. Non ne eravamo convinte e, contro il
parere unanime delle altre, pensavamo che ci volesse un padre per nostro figlio. Chi avrebbe potuto essere
il candidato ideale se non Sandro? Gli volevamo bene entrambe: un ragazzo
generoso, onesto, tollerante, un buon amico. Era un maniaco della Settimana
Enigmistica e questa passione, quasi una fissazione, la riversava anche
nell’abitazione, arredata in bianco e nero, geometrica.
«Risolvi questo enigma: come fanno due donne che si
amano e che vogliono un figlio a trovare un papà che sia affidabile,
disponibile e caro amico?» La domanda a Sandro era stata posta senza tanti
preamboli. Ma proprio nel momento in cui lui aveva assentito, ci eravamo
guardate e non c’era stato nemmeno bisogno di parlare: troppe incognite anche
con lui. Franca era sbottata in una risata liberatoria: «Grazie Sandro! Sei un
vero amico ma abbiamo bisogno di pensarci ancora. Se decideremo, tu sarai il
primo della lista».
Ida, la vecchietta, si è accorta che non la sto
ascoltando e si avvicina; prende la mia mano e chiede se va tutto bene, dice
che sono pallida. Sarà la potenza del contatto, degli occhi azzurri velati
dalla cataratta e del fatto che è un’estranea, sarà tutto questo… che mi fa
sciogliere in un racconto particolareggiato ma sconnesso della mia vita attuale
e delle prospettive future?
Chiede sbigottita: «Ma Sandro è il padre e Franca la
prima moglie?» Vengo salvata dalla chiamata dell’infermiera.
Questo ragazzo, che ho sedato per
l’intervento al femore fratturato, ha gli occhi verde muschio come Graziella.
Chissà se Marco, nostro figlio, li avrà uguali? Sono occhi che chiedono, che
pretendono risposte, che mi penetrano e che dicono di più della sua bocca. In
questi mesi di gravidanza l’ho vista combattere con le sue paure, le stesse di
ogni donna incinta, appesantite dalla nostra situazione. Sembra lontano il
giorno in cui abbiamo detto ai suoi genitori che ci amavamo. Il padre era
sbigottito, senza parole; la madre si era irrigidita e aveva saputo solo dire:
«É peccato, non si può, la religione lo vieta» Il tono non permetteva repliche.
Graziella era così ferita che per
giorni non aveva voluto parlarne. Si era immersa nel suo lavoro con la scusa di
una consegna urgente delle illustrazioni per l’ultimo libro di fiabe. Reagisce
sempre chiudendosi quando ha un problema; e io a dirle:” Vedrai passerà, hanno
bisogno di tempo. Ricordati quanto ne è servito a noi per accettare di essere omosessuali.
Non interrompere i contatti, tu continua a chiamarli, ti vogliono bene e un
giorno supereranno tutto questo”.
Invece sono anni che i miei lo
sanno. L’ho dichiarato in adolescenza e, a parte qualche tentativo di mia madre
per farmi cambiare idea, se ne sono fatti una ragione in fretta. Li ha aiutati
anche Wanda, mia sorella, che ha sfornato tre splendidi bambini in pochi anni.
Mi ha fatto tenerezza mio padre, quella volta che guardandomi giocare con i
nipotini, ha esclamato con tristezza: «Saresti una splendida madre!».
«Ma lo sarò, papà! Voglio dei figli
e con la fecondazione sarà possibile anche per me!» ho ribattuto con sicumera.
Mi hanno visto felice con Graziella e sono stati sereni fino alla nostra
decisione di intraprendere il percorso della fecondazione eterologa.
L’intervento è andato bene, il
ragazzo riprenderà judo senza problemi. Per oggi ho finito, fumo una sigaretta
per smorzare la tensione, riempio qualche scartoffia e me ne vado a casa.
Un rombo lontano e una scia bianca nel cielo azzurro
mi ricordano i viaggi a Valencia.
In aereo sedevo sempre vicino al finestrino così
potevo voltare il capo per guardare le nuvole; era il trucco che usavo per
riflettere. Ogni volta decollavamo con un carico immenso di speranze e per
scaramanzia non parlavamo delle paure che c’erano e chiedevano di essere
ascoltate. Avevo telefonato a mio padre prima di partire ed era stato premuroso,
però non avevo voluto parlare con mamma per difendermi dalla sua negatività. Da
qualche mese avevamo riallacciato dei rapporti civili, sembrava essersi un poco
ammorbidita, ma quando avevo fatto un accenno alla fecondazione si era subito
alterata. Forse se potesse abbracciare un nipotino in carne ossa le cose cambierebbero.
L’avevo salutato con affetto e prima di chiudere, in
un soffio, aveva detto: «Graziella, mi manchi!» «Anche tu, papà».
L’Instituto Valenciano de
Infertilidad, all’avanguardia nell’inseminazione intrauterina, non era ancora
riuscito a ottenere l’esito sperato per noi. Quella volta, la quarta, il Professor Piňeiro ci aveva rassicurate e, come
sempre, noi ci eravamo aggrappate alle sue parole. Persino Franca, di solito molto
razionale, pendeva dalle sue labbra. Mentre attraversavamo in taxi la città,
osservavo scorrere veloci i palazzi ai lati della Avenida del Mestre Rodrigo.
Notavo colori e contorni così vividi e splendenti da farmi socchiudere gli
occhi nonostante gli occhiali scuri: forse erano un presagio della luce che ci
attendeva alla fine dell’ennesima sessione di cura. Lo stress accumulato
durante i tentativi andati a vuoto e la delusione che era seguita ogni volta,
ci avevano destabilizzato, e quindi avevamo deciso che sarebbe stata l’ultima
chance che davamo alla nostra possibilità di essere madri. Proprio per questo ci eravamo concesse due giorni supplementari
per visitare la città e la spiaggia incontaminata di El Saler. Dopo la mia
dimissione, sotto il sole, con l’azzurro del mare davanti e la sabbia dorata a
scaldare le reni, ci eravamo impigrite insieme. Mi sentivo tranquilla. Lo sapevo già dentro
di me che sarei stata madre, ma non osavo lasciarmi andare a quella sensazione,
crederci e dirlo a lei: le speranze sono fragili, se pronunciate si possono
disperdere oppure pesare come granito.
Semisdraiata
con le spalle appoggiate alla duna, ascoltavo la musica e le voci che si
rincorrevano spezzate da cascate di risa di ragazze che, sulla battigia, ballavano
inseguendo un ritmo, sole nel proprio movimento. Niente ci disturbava, stavamo
bene insieme. La risacca monotona delle onde accompagnava i battiti dei nostri
cuori. Guardavo Graziella appoggiata al mio petto quando un borborigmo della
mia pancia ci ha fatto ridere. Alle orecchie portava pendenti con pietre
azzurre che rimandavano bagliori di sole. Le ho accarezzato il volto. Un dolore
acuto, improvviso, mi ha invaso. Niente sarebbe nato da me, solo gorgoglii,
suoni cupi, echi di vuoto. Niente sarebbe passato al bambino, mai avrei visto
un pezzetto di me in lui. Aveva ragione mia madre che, alla notizia che Graziella
avrebbe concepito con ovuli e utero, mi aveva guardato inorridita dicendo: «E
tu non conti niente? Che parte avrai tu allora?»
Non
riuscivo a parlare. Oppressa da un senso d’inutilità ho emesso solo un tremolio
gutturale, quasi un lamento: «Graziella…» Non è servito altro. Mi ha maternamente avvolto
nelle sue braccia e mi sono sentita al sicuro con lei.
Mentre preparo la cena, preparo me stessa per
Franca.
Lei sta attraversando un periodo d’incertezza
e solo io posso rassicurarla. Non ha alcuna importanza l’aspetto che avrà Marco.
Quello che farà la differenza sarà come noi lo ameremo e lo sosterremo. Non è
necessario avere un padre per crescere bene e tanti l’hanno imparato dalla vita.
L’affetto va al di là dei geni e del sesso. Noi cresceremo un bambino che
imparerà ad amare e a farsi amare, saremo genitori imperfetti come gli altri, ora
madre, ora padre.
Stasera avrei voluto festeggiare con una
cenetta fatta da me, ma devo arrendermi alla mia incompetenza: la prepareremo
insieme.
Noi due unite siamo forti, possiamo sfidare
il mondo intero. Abbiamo tanto amore da dare che, anche gli altri, quelli che
ci disprezzano o forse temono, dovranno rendersene conto.
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