Era
il profumo dell’erba che aveva segnato la sua nascita, trascinandola al mondo
come trasportata dal suono di un magico richiamo. Se avesse potuto avrebbe
cercato di descriverlo, scegliendo con cura parole riecheggianti libertà, vento
e sole: ma non era in grado di usare le parole degli umani. Pensava che forse,
un giorno lontano, avrebbe trovato un modo per comunicare con loro. Avrebbe
tentato di spiegare che quel mondo, che avevano la pretesa di abitare, non
sarebbe mai stato loro proprietà. Avrebbero dovuto constatarne la superiore
intelligenza ed infine l’avrebbero eletta “sindaco”, o comunque si dicesse nel
loro linguaggio. Una statua sarebbe stata eretta in suo onore e avrebbe potuto
governare su di loro con giudizio: tuttavia mai e poi mai si sarebbe abbassata
a mangiarli. Si riscosse da tali pensieri scuotendo la testa, mentre le altre
caprette brucavano silenziose, lanciandole di tanto in tanto rapide occhiate di
muto sospetto. Si scostò leggermente, giungendo al limitare del campo, e volse
il muso al sole, pervasa da un senso di solitudine. Odiava pensare a una vita
trascorsa interamente nel lasciarsi portare, fidandosi ciecamente degli uomini
come le altre piccole, candide conformiste. Gli umani non le piacevano affatto:
erano meschini ed egoisti, e non avevano rispetto né per loro stessi né per il
mondo. Simili pensieri la rendevano a volte tanto triste che le sembrava di
diventare sempre più pesante, sprofondando con gli zoccoli nel terreno fino a
non riuscire più a muoversi. Ma poi, guardando il cielo, un senso di leggerezza
s’insinuava dolcemente in lei, dalla punta del muso fino in fondo alla coda. Il
cielo era libertà e gli uccelli liberi di volare, come anche lei avrebbe voluto
fare. Ma era impossibile, lo sapeva bene: lo dicevano le leggi
dell’aerodinamica. Non poteva tuttavia impedirsi di immaginare quanto si
sarebbe sentita leggera nel fluttuare su paesaggi stranieri, come tappeti
variopinti ai suoi piedi.
Fu
riscossa d’un tratto dal suono di un passo umano sul sentiero che conduceva al
pascolo. Probabilmente il pastore di ritorno. Non si diede la pena di
raggiungere le compagne, che correvano festanti a radunarsi in un angolo:
rifiutarsi di ritornare verso la stalla era il suo piccolo atto di ribellione
quotidiana, e non se ne voleva privare. Voltò il muso verso il sentiero,
assumendo come una maschera la consueta aria testarda di sfida. Rimase sorpresa
nel constatare di essersi sbagliata: l’uomo che arrancava su per il sentiero
non somigliava affatto al pastore. La prima cosa che notò di lui furono le mani
affusolate, con dita lunghe e sottili, dall’aria forte e al contempo delicata.
Sembravano nate per creare qualcosa di bello. Aveva occhi tristi e leggermente
inclinati verso il basso, capelli folti
e scuri, arricciati in volute mosse dolcemente dal vento. Portava con sé una
curiosa struttura di legno, grandi pezzi di cartone bianco ed infine una
misteriosa valigetta di pelle, sdrucita dall’uso, su cui si potevano leggere
incise due iniziali: MC. L’uomo si fermò a metà del sentiero, guardandosi
attorno. Ripreso fiato, raggiunse il margine del boschetto, dove la capretta lo
osservava ammutolita. Qualcosa in lui la rapiva profondamente e la atterriva al
tempo stesso. Lo strano individuo posò a terra la valigetta e sistemò sulla
struttura uno dei grandi pezzi di cartone. Trasse dei piccoli tubetti e, preso
un pezzo di legno tondo e sottile, cominciò a spremerveli sopra, facendone
fuoriuscire colori variopinti che si mescolavano lungo le venature. Con lo
sguardo annebbiato, cominciò ad intingervi un piccolo pennello, con cui
accarezzava delicatamente il cartone: un mistero tanto affascinante da esercitare un influsso
quasi magnetico su di lei, che poco a poco si avvicinò per poter vedere meglio.
Come per una magia arcana, il tempo parve fermarsi mentre macchie variopinte
prendevano vita, scivolando sulla tela. D’un tratto l’uomo si voltò e si accorse
di leiche atterrita, con il cuore che batteva forte, corse alloraveloce giù per
il pendio. L’aria del tramonto era fredda, di un freddo curiosamente piacevole.
Mentre camminava si sentiva più leggera e non sapeva spiegarsene il motivo. Per
la prima volta, si era spontaneamente avvicinata ad un essere umano senza
averne paura e in lei era nata una sensazione di dolcezza nuova: avrebbe voluto
rimanere per tutta la notte a guardare il lavoro febbrile di quelle mani, quel
volto concentrato e un po’distratto. Aveva ad un tratto realizzato, con la
certezza assoluta con cui si realizzano soltanto le cose vere, che di lui si
poteva fidare. Giunta all’ovile si era sistemata sulla paglia, stremata da
confusi e dubbi pensieri. Tuttavia non riuscì a soffocare del tutto l’idea che
quell’uomo avesse fatto nascere in lei germogli di bellezza. Il giorno dopo si
sorprese ad attendere con nervosismo l’ora del tramonto. Nulla le assicurava
che MC sarebbe venuto di nuovo, ma lei non aveva dubbi. Non la stupì affatto
dunque vedere il suo passo incerto, caracollante sotto il peso
dell’attrezzatura, farsi nuovamente strada per il prato. Questa volta l’uomo si
accorse subito della piccola presenza che lo osservava con attenzione. Sistemò
il cavalletto proprio di fianco a lei. Non proferì parola, ma la guardò negli
occhi, salutandola con il linguaggio muto che è proprio delle anime sensibili,
che sole lo sanno parlare. La capretta si avvicinò ulteriormente e pian piano
sentì la paura iniziale scemare. Si sdraiò sull’erba, rispondendo con lo stesso
linguaggio silenzioso. Lo osservò lavorare finché le prime stelle non
iniziarono ad apparire sbiadite. La notte, gli occhi spalancati nel buio, seppe
che la sua vita era stata cambiata. Se ne avesse conosciuto il significato,
forse avrebbe usato la parola amore per descrivere questo cambiamento. Ma le
parole sono spesso troppo umane per descrivere le cose veramente belle e pure
della vita. Per alcuni giorni, il loro contatto si svolse allo stesso modo, una
danza delicata di cui solo loro due conoscevano le regole. Il pittore arrivava,
salutava la capretta con i suoi occhi tristi e sistemava il lavoro,
inclinandolo leggermente affinché lei potesse vedere. Di giorno in giorno il
disegno prendeva vita, come una favola sfuggita alle pagine del racconto: i
colori erano sempre più vivi ed intensi. Tuttavia, curiosamente, essi non
sembravano descrivere la realtà che dormiva quieta intorno a loro. Era un luogo
altro, un luogo felice: come in uno specchio, le sembrava che il quadro sapesse
leggere in lei quanto non era in grado di dire. Lui osservava affascinato
quella piccola creatura spontanea, che nell’adorazione con cui fissava il cielo
riusciva a condensare in disarmante semplicità intere poesie, trattati di
filosofia e matematica, come una parola a lungo cercata e dimenticata. Così il
tempo passò insieme a loro, ed i due impararono a conoscersi, bevendo dai
reciproci desideri, senza mai interrompere questo muto contatto. Finché un
giorno, lui le rivolse la parola. Era l’ora appena precedente il tramonto,
quella che entrambi preferivano: i colori del cielo sembravano prendere fuoco,
e la realtà avvicinarsi un po’ di più al loro mondo fatato. La voce le giunse
come da lontano, a rompere il silenzio rituale a cui era abituata; eppure non
la turbò come si sarebbe aspettata. Era morbida ma profonda e sembrava far
parte del tessuto di quel silenzio, come un disegno che correva lungo la trama.
«Il quadro è quasi terminato» le disse. Lei non capì. O forse sì, e posò il
muso sulla sua mano.
Il
giorno dopo, il pittore non ritornò. Né lo fece quello dopo ancora. Il tempo
divenne d’un tratto di nuovo lento, i giorni come perle di una collana
infinita, identici nella loro monotonia. La capretta crebbe e divenne adulta:
si rassegnò alla vita che le spettava, che avevano scelto per lei forze più
grandi, vivendo nella noia dolce e malinconica di chi porta in sé le cicatrici
di una rinuncia. Ma al crepuscolo il ricordo delle sere di attesa felici la
rendeva un po’ meno triste e sola. Si sedeva sul limitare del prato, là dove la
prima volta si erano incontrati, e attendeva l’ora del tramonto per vedere il
sole morente trasformare la realtà grigia nel mondo colorato in cui l’amore
l’aveva trasportata. A volte ricordare era doloroso: eppure, non aveva
rimpianti. Il tempo avrebbe potuto offuscare i contorni di quell’uomo, ma non
il muto dialogo dei suoi occhi, non il senso di fiducia che le aveva donato.
Passarono gli anni e giunse l’inverno. La capretta cominciò ad invecchiare: il
pelo divenne più rado e chiaro, gli occhi offuscati e le gambe persero
lentamente la forza e l’agilità della giovinezza, costringendola a riposare
nella stalla. Con grande naturalezza, cominciò ad avvertire che il suo cammino
era giunto verso il termine e si stupì di non trovare in sé alcuna rabbia per
questo, consapevole del fatto che la morte va accettata godendo di ogni piccola
gioia nella consapevolezza del rischio di perderla. In quei momenti si chiedeva
se anche il pittore fosse invecchiato. Si domandava dove fosse. A volte
fantasticava su meravigliose creazioni a cui lui aveva dato vita: violini che
suonavano, gatti dai volti umani, città dai colori cangianti, amanti
abbracciati, i volti bagnati di pioggia lucente. E allora era di nuovo felice:
sognava di lui come se davvero lo potesse vedere, tanto vicino da poterne
avvertire l’odore acre di pittura, perché spesso i sogni non sono altro che vie
differenti che vorremmo avesse assunto la realtà. Infine, cadde in una bruma
lenta e spessa e decise di abbandonarsi alla tristezza, accogliendola nel punto
più profondo del cuore. Il momento giunse senza annunciarsi, e lei lo riconobbe
come un amico troppo puntuale, a cui si vorrebbe domandare più tempo: si
sistemò allora su un mucchietto di paglia, decisa a morire sola, perché sempre
nella vita aveva fatto da sola le cose importanti. Sdraiatasi s’assopì,
avvertendo nel dormiveglia strani rumori, voci sconosciute e al contempo
familiari invadere l’aria, un luogo ormai lontano. Il tocco della mano sulla
sua schiena giunse improvviso. Un nodo si sciolse in lei, e all’istante lo
riconobbe. Lui, d’altro canto, non avrebbe saputo spiegarle come l’aveva
ritrovata. Finito in paesi lontani, aveva sentito di dover rivedere quella
piccola creatura che aveva sempre ispirato i suoi giorni con un ricordo leggero
e delicato. L’aveva allora cercata in tutte le stalle della piccola valle,
chiedendo ai pastori, cercando l’eco di una sensazione familiare. Ed era giunto
lì, dove ora, con la mano sottile sul suo pelo, sedeva accovacciato a terra, affinché
fossero alla stessa altezza. Lei aprì
gli occhi con fatica e lo guardò. Si chiese dove fosse stato, cosa l’avesse
portato tanto lontano. Gli domandò con lo sguardo tutto ciò, e non ci fu
bisogno di parole. Avrebbe voluto rimproverarlo, ma era invecchiato anche lui:
i capelli erano grigi, e le mani che lei tanto amava avevano le vene segnate e
le dita stanche. Stettero per un po’ così, in silenzio, e le loro anime si
fecero più leggere. Alla fine lui trasse dal pavimento un involto grande e
piatto e cominciò a scartarlo con le sue belle dita, raccontandole dei luoghi
che aveva visitato, delle persone che avevano incrociato il suo cammino
rendendolo felice. Quando ebbe terminato, lo poggiò nuovamente a terra. Solo
allora capì che era una tela. ”Non era ancora finito”, le disse. La prese da
terra, ed ecco: la sua realtà colorata si stagliava dinnanzi a lei delicata e
potente, così come la ricordava. I monti rilucevano dell’amore che li aveva
colorati, figure lontane popolavano lo spazio. Ma al centro, a realizzare il
sogno nascosto di una vita, una nuova figura, finalmente leggera e libera,
volava nell’aria, ignara delle leggi dell’aerodinamica, ignara dei divieti
della società, che vogliono decidere al posto nostro il modo giusto di amare.
Seppe di non essere mai stata dimenticata. Serena, chiuse allora gli occhi.
Sentiva l’odore della primavera.
(Liberamente
ispirato al quadro “Dans mon pays” di Marc Chagall)
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