Mi sono sdraiata sotto la siepe,
ancora verde e lucida anche se siamo in autunno inoltrato.
E’ il mio rifugio preferito.
Mi accorgo del pungere lieve dell’estremità
delle foglie, carnose, ma rigide, e dell’erba soffice su cui mi allungo; sono,
però, avvolta nell’oscurità e tanto stanca. Sento il portone che si chiude e
poi dei passi che risuonano sull’acciottolato e si avvicinano al cancelletto
del giardino.
Mi sembra di riconoscere
dall’odore Antonella. E’ da un po’di tempo che non la incontro, ma quando si
china su di me e mi sussurra “Pimpa! Come stai?” rivedo in un attimo la scena
di tredici anni fa.
Abitavamo ancora in un
appartamento al terzo piano, ma così alto rispetto alle case circostanti che ti
dava l’impressione di una grande libertà: si poteva spaziare con lo sguardo sui
tetti della città, dai quali ci separava una enorme tela a righe, di tutte le
sfumature dell’azzurro, che fungeva da tenda del soggiorno, ma più che altro
era una quinta che faceva da sfondo a tutti gli avvenimenti della nostra vita
familiare.
Quel giorno di ottobre ero
entrata in casa in uno scatolone, con un fiocco rosso al collo, trasportata con
molta circospezione dal Papy e appoggiata sul pavimento di linoleum bordeaux.
Aly aveva nove anni ed era una bambina bellissima, coi capelli lunghi, biondi e
dritti, trattenuti da un cerchietto bombato celeste. Per anni sarà la sua
pettinatura favorita fino a creare una specie di solco o impronta sulla testa.
Allora mi guardò con gli occhi azzurri spalancati e la bocca aperta e rimase
senza parole per un bel po’. Più tardi ho capito perché: la sua gioia era
troppo grande per essere espressa con la voce. Infatti, quando siamo rimaste
sole, mi ha raccontato che il suo primo cane era di peluche, ma si muoveva e
faceva “bau, bau” come un cane vero. “Lo portavo anche in chiesa e durante la Messa inavvertitamente forse
l’ho toccato ed ha iniziato ad abbaiare. Mi hanno guardata tutti credendo fosse
vivo ed io mi sono spaventata, ma ero anche contenta che potesse essere
scambiato per un vero cane. Come l’altra volta, quando stavamo prendendo
l’aereo per Ibiza e l’ho posato sul nastro del metal detector (non lo lasciavo
mai!) e l’addetto ha urlato: “No, il cane no!” e lì mi è spiaciuto dover
confessare che era solo un cane di peluche… Poi ho avuto un coniglio bianco,
Nicole, che è stato il mio primo vero amico. Stava per lo più in gabbia, ma
spesso mi sedevo sul pavimento, lo liberavo e, dopo averlo preso in braccio, lo
accarezzavo. Un giorno ci è venuta a trovare un’amica della mamma, che fa la
psicologa e ha detto che aveva bisogno di fare dei giri per casa. Nicole era
contentissima, la mamma meno perché cominciò a rodere a poco a poco le gambe
del cassettone finché, troppo pasciuto ed ingombrante, fu portato in una
cascina, dove andavo a trovarlo regolarmente”.
Intanto la mamma dell’Aly mi
guardava con circospezione e diffidenza e alla fine esclamò: ”Per fortuna ha le
“calze” color miele! I cani neri sono così poco chic!”
Non è che l’osservazione mi abbia
fatto molto piacere, anzi, ci rimasi male, soprattutto perché il mio pelo è
color miele anche sulle sopracciglia, sul muso, sulle orecchie e sul collo ed
ho anche una stella bianca sulla fronte, ma lo sguardo adorante dell’Aly e le
sue carezze mi hanno fatto dimenticare presto tutto.
Lei mi ha sempre amata tanto…
Mentre il mio rapporto con la mamma è sempre stato ambivalente, di amore e
odio.
Adesso, però, si avvicina e con
una certa delicatezza mista a pudore mi accarezza, gesto che mi meraviglia
perché non lo fa spesso.
Si trattava poi di darmi un nome
ed è stata proprio Antonella, cresciuta a fumetti di Altan, a suggerire di
chiamarmi Pimpa. Il nome piaceva a tutti (quando finalmente lo imparavano, dato
che spesso ero Bimba o altre storpiature varie) anche perché, come diceva la
nonna, ero veramente “pimpante” ed estremamente vivace non solo da cucciolo, ma
per tutta la mia vita e ancora una volta devo dar ragione alle reminiscenze
letterarie della mamma “Nomen omen!” (Nel nome il destino).
C’è un altro riferimento
letterario che adesso ricordo… tormentata dalle mosche che a nugoli si aggirano
sul mio capo.
Rammento chissà perché un brano
che la mamma leggeva ad alta voce per preparare una lezione sull’Odissea:
“Mentre questo dicevano tra loro,
un cane
che stava lì disteso, alzò il
capo e le orecchie.
(…)
E là Argo giaceva tutto pieno di
zecche.
E quando Odisseo gli fu vicino, ecco
agitò la coda
E lasciò ricadere le orecchie; ma
ora non poteva
accostarsi di più al suo
padrone”.
So cosa vuol dire avere le zecche
da quando mi hanno portato in Puglia, patria del Papy, E’ stato un viaggio
lunghissimo, sdraiata sotto i sedili dietro della macchina, mentre dalla
compilation di Battiato si diffondevano le note di “Cerco un centro di gravità
permanente…” La mia padroncina mi
toccava il naso per sapere se ero abbastanza idratata: era già una piccola
veterinaria! Ogni anno il viaggio, forse a causa del traffico o del periodo
sempre più vicino al Ferragosto, durava sempre di più, ma,una volta arrivati,
c’era la gioia di correre a perdifiato per i campi e proprio lì prendevo le
zecche.
Alice e il Papy se ne accorgevano
sempre quando erano a tavola. E, tra le urla di schifo della mamma e della
Nonna, mi trasferivano sul balcone per l’operazione di distacco. Ed erano anche
tutti contenti di mostrare la zecca assassina, una volta debellata!
La prima volta che il Papy mi ha
presentato la nostra casa, mi ha detto: “Questa è la zona residenziale di
Rocchetta! Si chiama Ina casa, ma qui tutti la chiamavano Lina casa come se
fosse un nome di donna. Sei fortunata ad abitare qui! Questa è stata la
residenza di Vip. “Al mio sguardo interrogativo ha continuato: “Sì, qui abitava
Maria Teresa Di Lascia, la scrittrice Premio Strega 1995 per il libro”Passaggio in ombra”. Sua madre
era l’ostetrica del paese (la mammana, come diciamo noi) e ha fatto nascere
anche me. Aveva la mia età, siamo cresciuti insieme, ma è morta a quarant’anni,
prima che uscisse il suo libro, che narra proprio la vita vissuta del suo paese
(che descrive così: ”schiacciato come un nero rospo sulla collina”) e il suo
mondo di emozioni, ma anche di invidie, di calunnie, di intrighi.
E poi Mario Acquaviva, il
cantautore, era anche lui un ragazzino dell’Ina-Casa con cui giocavo negli anni
Sessanta. Si è poi trasferito a Milano, ma abbiamo continuato a frequentarci.
Vedrai, lo incontreremo! Anche lui ha un cane, a cui, come a te, manca solo la
parola!” Mario è meglio conosciuto come Scialacca (che significa scialacquatore
o più gentilmente una persona generosa) perché a Rocchetta tutti hanno un
soprannome o almeno si presentano come figli del tale indicando proprio il
soprannome del padre. Ce ne sono di stranissimi legati a delle “qualità” come
Cuccillone, che vuol dire goloso, e Tabbaccone, grande fumatore, ma mi piacciono
soprattutto quelli legati agli animali, come per esempio Cagnoline, Asine
Aitane, Uccellino e Zanna R’ Cane,
mentre Mangiapurciedd mi piace meno. Quelli che trovo divertenti sono: Cacachiuov,
Cacafasule, Cacalaena, Cacariavl, Cacatizz, Cacaverde e… Puzza Cacata e
Scacazza… non so perché li sento vicini.
Sempre a Rocchetta ho conosciuti altri due amici di
Alice. Il primo era un setter, un cane da caccia bellissimo, biondo, ma
randagio perché lì purtroppo capita spesso che i cacciatori abbandonino i loro
compagni, una volta esaurito il loro compito o perché considerati inadatti,
dopo una prima prova.
Aly, d’estate, appena arrivata in
paese, lo considerava il suo cane e per tutto il periodo di vacanza gli portava
da mangiare ed usciva sempre con lui. Naturalmente l’aveva chiamato Rocchetta.
Subito dopo si era aggiunto alla coppia un altro randagio, un bracco italiano,
molto più deperito e selvaggio e così sporco e pieno di zecche che venne
battezzato Meccanico. Anche questo veniva sfamato e si tentava di lavarlo e
bonificarlo con scarsi risultati. Immaginate le urla della mamma quando Alice
lo toccava! Cioè sempre! In compenso la mamma gradiva la compagnia di
Rocchetta, che le faceva da scorta nelle deserte prime ore dei pomeriggi assolati
di calura “africana” quando si recava dal parrucchiere.
Non ero gelosa, quando li ho
conosciuti, perché sono stati una sorta di rodaggio rispetto al mio arrivo e
soprattutto so quanto ha significato il loro affetto per Alice.
Inoltre la casa della nonna era
il regno dei cani. Oltre a me vivevano Buffy e Pupetta, le mie cugine, come
dice Alice; in realtà sono i cani delle sue cugine. Non è che la convivenza mi
piacesse molto: spesso ci siamo azzuffate ed ognuna tendeva a rubare il cibo
dell’altra. La nonna era disperata non solo per la confusione che facevamo, ma
anche per i peli che lasciavamo per la casa. Una casalinga perfetta come lei si
chiedeva sempre: ”Ma quanti peli perdono questi cani!”
E’ proprio vero che Rocchetta è
il Paradiso dei cani! Con un’eccezione, però: la mania dei fuochi d’artificio.
Io ho PAURA! Ad ogni colpo inizio a tremare e sento l’irresistibile bisogno di
nascondermi. Il nascondiglio più sicuro è l’armadio, ma, mentre la mia famiglia
è abituata e a casa posso stare rintanata e indisturbata quando si sentono gli
scoppi dei fuochi d’artificio (per altro rari), a Rocchetta la nonna non voleva
che le sciupassi i vestiti.
Saranno belli i fuochi
d’artificio, sono piogge di stelle o cascate di fiori colorate, ma fanno troppo
rumore!
Della feste a Rocchetta mi piace,
invece, la tradizione di andare in processione a una Chiesa in campagna, la Madonna del Pozzo, che
ricorda un miracolo del Settecento, per prendere la statua della Madonna da
esporre alla Chiesa Madre durante i festeggiamenti patronali.
E’ notte, ma i campi sono
illuminati dalle fiamme delle ristocce perché qui si usa questo metodo
sbrigativo per distruggere le stoppie che rimangono sui campi dopo la
mietitura. Il problema è che si diffonde un fumo acre e irrespirabile, motivo
per cui la mamma non ha più voluto partecipare alla processione. Io comunque
seguivo Aly e il Papy. Allora sì che ero un’atleta e correvo avanti e indietro
lungo il percorso, comprese le salite delle due collinette, trotterellando
attorno ad Alice fino ad arrivare sul sagrato della chiesa, dove lei si gustava
il premio, una bella pizza, ed io stavo a guardarla con la lingua penzoloni
finché non si ricordava di darmi almeno da bere!
Mi tornano in mente gli ultimi
fuochi che ho visto quest’anno, al Castello, perché Rocchetta ne ha uno antico,
del Cinquecento, il Castello d’Aquino, che domina dall’alto il centro storico.
E’ molto originale perché la torre ovest, più elevata rispetto alle altre, è a
forma di mandorla e richiama la prua di una nave.
Verso questo castello si dirige
il dedalo di viuzze del centro storico, sulle quali si riflette il gioco
prospettico delle antiche abitazioni. Da questo privilegiato punto di
osservazione si spazia sulle verdi
colline circostanti, su cui svettano i nuovi monumenti della modernità:
le pale eoliche, molto slanciate e dal design essenziale.
Recentemente il Castello è stato
restaurato insieme alla zona circostante e dall’anno scorso, nel
cinquecentenario della sua costruzione, vi si svolgono mostre e festeggiamenti,
come la cena medioevale con ricette tipiche della cucina dell’epoca e una
simulazione di assalto al Castello con tanto di fuochi a cascata che escono dalle
feritoie e colpi che fanno pensare ad un attacco nemico. Immaginate la mia
paura! Un incubo! Aggiungeteci poi strane figure ”medioevali” che si aggiravano
con serpenti al collo e avrete una pallida idea del mio stato d’animo. Per
fortuna è durato una sola sera!
Adesso veramente sarei disposta a
sopportare tutto, fuochi d’artificio compresi, pur di essere ancora una volta a
Rocchetta.
Invece sono qui e mi trascino sui pochi gradini esterni, che,
per fortuna, sono poco distanziati e raggiungo la soglia grigia della porta-finestra;
mentre mi fermo per riprendermi dallo sforzo della salita non riesco a
trattenermi… mi spiace… sono debole e spossata.
Alice mi lava con l’acqua che
esce dalla canna per bagnare i fiori e poi mi pulisce e mi asciuga
delicatamente.
“Cos’ha detto la veterinaria?” chiede
Antonella “Dovremmo sottoporla ad una TAC, ma non sopporterebbe l’anestesia” risponde
la mia padroncina con voce tristissima.
Sento che mi accarezza con
dolcezza e piange sommessamente.
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