Nessuno
lo avrebbe saputo, nessuno. Almeno ancora per un giorno.
Bruno
si voltò verso sua sorella e glielo fece giurare.
“Giura
Ninni, giura! Giura ti dico!”
“La
zia dice che non si giura mai, che è peccato” rispose Ninni con quella sua
vocina sottile. E se ne stava lì ferma a sfidarlo quel suo fratello, così alto
e bello, che la guardava con due occhi spiritati, e un po' ne aveva paura.
“Lo
faccio per mamma e papà, e anche per noi. Non è peccato no?” E la voce di Bruno
si incrinò o almeno così sembrò a Ninni.
Nel
retrobottega dell'officina Molina, si doveva prendere una decisione e lo si
doveva fare in fretta.
“Allora
se non giuri... prometti! Prometti ti dico!” continuò Bruno.
Ninni
si decise e promise. Era il 15 dicembre del 1935.
Un
pomeriggio freddo e piovoso di dieci anni dopo, Clelia rientrò a casa con
un'espressione così cupa e abbattuta che le figlie, in cucina a sbrigare gli
ultimi compiti per il giorno dopo, non ebbero nemmeno il coraggio di andarla a
salutare.
Elvira,
la sorella di Clelia, smise di colpo di sbucciare le patate che sarebbero
servite per la cena e la fissò. Non chiese niente e non disse niente perché non
ce n'era bisogno, aveva già capito tutto. Anche Clelia non parlò e si ritirò in
camera sua seguita dalla sorella. Le due ragazze invece, rimasero lì, chine sui
loro libri cercando di catturare un suono, un bisbiglio. Doveva essere successo
qualcosa di grave. Ma cosa?
La
cena, qualche ora dopo si svolse nel più assoluto silenzio. Le bambine, come si
ostinavano ancora a chiamarle anche se ormai Giovanna, la maggiore, andava per
i diciassette anni, e Daria la più piccola ne aveva appena compiuti dodici, non
chiesero nulla.
“Bambine,
avanti aiutatemi a mettere in ordine e poi subito a letto. Dai Giovanna su...”
disse con il suo solito tono sbrigativo zia Elvira.
Ma
Giovanna era agitata.
“Mamma,
cosa è successo?”
“Niente
Giovanna, fa' come ti dice la zia, vai a dormire”. Giovanna ubbidì, accompagnò
la sorella nella stanza che dividevano, ma poi tornò in cucina. Non avrebbe
rinunciato tanto facilmente.
“Mamma
io sono grande ormai, a me puoi dirlo no, che cosa è successo” insistette
Giovanna.
“Zia,
cosa è successo?” disse non avendo ottenuto dalla madre alcuna risposta.
Sua
zia guardò la sorella, si tolse il grembiule, lo ripiegò con cura e sedendosi
disse soltanto: “ Ha ragione, Clelia”.
Clelia
esitò ancora un istante e poi si decise: “Il lavoro che mi avevano promesso...
Non c'è più, però non ti devi preoccupare Giovanna vedrai che...”. Sua madre parlava
ma Giovanna non l'ascoltava più. Abbassò lo sguardo e si chiese cos'altro
sarebbe potuto succedere. Prima suo fratello partito e mai più tornato,
disperso per colpa di quella dannata guerra e poi suo padre Ernesto, partigiano
caduto in battaglia. Da eroe e con onore certo, ma cambiava forse qualcosa? E
adesso si ritrovavano lì, sedute intorno a quel vecchio tavolo in cucina,
affrante.
A
questo pensava Giovanna mentre cercava, non trovandole, le parole giuste per
consolare sua madre, quando, saranno state ormai quasi le nove, sentirono
bussare alla porta. Giovanna rimase immobile e si strinse nel suo scialle di
lana, come se quel gesto bastasse a proteggerla da una nuova cattiva notizia.
“Chi
è?” chiese Clelia da dietro la porta.
“Sono
Piera, Piera Molina”.
Clelia,
Elvira e Giovanna, si guardarono stupite. Cosa poteva volere la signora Piera
da loro, e a quell'ora poi?
Clelia
aprì la porta e la fece entrare.
”Buonasera Piera, prego si accomodi, ma è successo qualcosa?”
“Buonasera,
no niente, niente è solo che ho saputo del suo lavoro...” disse mentre si
toglieva il cappotto e i guanti.
Clelia
annuì ed era così amareggiata che non si chiese neanche come avesse fatto a
saperlo.
“Elvira,
Clelia, ascoltate, io ci ho pensato tanto e vi vorrei aiutare. Per prima cosa
sono venuta a portarvi questi”. Si mise la mano nella tasca della gonna ed
estrasse due anelli d'oro.
“No
Piera no” iniziò a dire Clelia, ma Piera
la interruppe subito. “Se li ho ancora qui con me” disse indicando gli anelli,
“lo devo a Bruno sa?”
“Bruno?”
Chiese Clelia, guardando prima sua sorella e poi Giovanna, che distolse subito
lo sguardo. Quanta pena per lei sentire pronunciare il nome di suo fratello.
“Volevo
darveli e soprattutto...” ma fu Elvira, a quel punto che non la lasciò terminare.
“Piera no. No grazie. Io non so cosa c'entri Bruno
ma veramente noi non possiamo accettare. Ma grazie comunque” e richiuse
delicatamente la mano di Piera Molina cercando con quel gesto di mitigare
almeno un po’ quel tono brusco che aveva usato.
“Lo
sapevo che mi avreste risposto così.” Piera sorrise e continuò.
“Ma
se mi lasciaste finire...” e fece una pausa per poi proseguire, “Allora, io
sarei venuta a dire anche un'altra
cosa.” Abbassò lo sguardo e rimase in silenzio a fissarsi le mani, nude e screpolate.
Anche
a Piera, la guerra non aveva lasciato praticamente nulla se non tanti ricordi.
Dei suoi genitori ad esempio, che non c'erano più e di suo marito Giacomo. Che
non c'era più. Le era rimasta l'officina, quel piccolo capanno risparmiato dai
bombardamenti, che aveva curato in quei lunghi mesi di solitudine dacché era
finita la guerra, un gioiello che avrebbe voluto lasciare ai suoi figli se ne
avesse avuti, ma non c'era stato il tempo.
Quel
pomeriggio, improvvisamente, l'idea che accarezzava da giorni prese forma e
contorni. Era arrivato per tutte loro il momento di ricominciare a vivere, ne
era certa. Per questo avrebbe chiesto a Clelia e alla sua famiglia di lavorare
con lei, di rimettere in piedi la vecchia officina.
“Che
cosa?” Rispose Giovanna, che fu la prima
a riaversi dalla sorpresa.
Giovanna
guardò prima la mamma e poi la zia. Ma come poteva lei che stava studiando, tra
mille difficoltà, per diventare maestra, lavorare in quell'officina dove si
riparavano automobili. E poi sua madre e sua zia, erano donne caparbie e
volenterose certo, ma come avrebbero potuto aiutare la signora Piera? Quattro
donne, sole. Non ce l'avrebbero mai fatta, di questo era sicura.
“Sentite”
riprese Piera decisa a difendere la sua idea “non mi è rimasto più niente, a
parte l'officina e questi anelli. Me lo ricordo bene Bruno, sapete, quella
sera, quando si avvicinò a Giacomo e a me, e li lasciò sul bancone
dell'officina avvolti in un pezzetto di carta di giornale e poi, senza dire una
parola, se ne scappò via.
Fu in
quell'istante che Giovanna si ricordò di quella mattina di dieci anni prima.
Era
andata a chiamarlo nell'officina del signor Molina, dove lavorava come
apprendista, per avvisarlo che era pronto il pranzo e l'aveva scoperto intento
a trafficare con i suoi attrezzi.
“Bruno,
dove sei?” lo chiamò.
“Ninni,
cosa ci fai qui?” Le chiese, sorpreso di vederla e un po’ seccato.
“E'
pronto il pranzo, ma cosa fai, piangi?” Ninni era così spaventata nel vederlo
in quello stato che Bruno fu costretto a
darle una spiegazione.
“Senti
Ninni ho fatto una cosa, ma deve essere un segreto, tu mi aiuterai vero?”
“Cosa
hai fatto?” e spalancò gli occhi. A lei non piacevano i segreti.
“Guarda”
aprì la mano sinistra e le mostrò degli anelli d'oro.
Ninni,
sorrise vedendo tutto quel luccichio.
“Che
belli! Ma Bruno dove li hai presi?”
Bruno
non li aveva presi da nessuna parte, li aveva fatti lui, con le sue mani,
creati da solo nell'officina del signor Molina.
“Vedi
sono le fedi di mamma e papà e queste sono per il signor Giacomo, le sto
facendo anche per lui perché è l'unico che ci ha sempre aiutato. Ma sono finte
vedi, non è mica oro vero questo”. E quegli occhi prima bagnati di lacrime ora
splendevano.
Entro
pochi giorni ci sarebbe stata la cerimonia della consegna dell'oro alla patria
ma a Bruno proprio quella richiesta non era andata giù. Non possedevano nulla,
se non quelle fedi d'oro che rappresentavano molto più di quello che valevano e
quel sacrificio lui non voleva farlo fare alla sua famiglia, perché quel
ragazzino giovane e ingenuo si era persuaso che i suoi genitori, avrebbero rispettato quella richiesta, ma sarebbero poi
morti di crepacuore o, peggio ancora, di fame. Eh sì, perché in quegli anni la
sua famiglia non se la passava bene e quel poco oro era, in primo luogo, il legame
sacro e indissolubile che univa i suoi genitori ma anche una piccola scorta, un
tesoro da proteggere e conservare per i tempi ancora più duri che, come sentiva
spesso ripetere da suo padre Ernesto, sarebbero sicuramente arrivati. E quel
presentimento puntualmente si avverò.
Suo
padre quella mattina non era andato al lavoro e quando Bruno prima di uscire
per andare in officina chiese il perché a sua madre, lei non gli rispose. Lo
seppe poco più tardi il motivo però, ascoltando il signor Giacomo che parlava
con Piera, la moglie. Ernesto aveva perso il lavoro, cacciato senza tanti
riguardi perché lui la tessera del partito proprio non la voleva prendere.
Fu
allora che Bruno, sconvolto da quella notizia, organizzò la sua piccola
vendetta, contro quel destino cieco e maledetto, che si accaniva sulla sua
famiglia. Avrebbe fatto qualsiasi cosa,
avrebbe lavorato di più, si sarebbe spezzato la schiena si disse, ma quell'oro
no, non glielo avrebbero portato via. Il giorno dopo, decise, avrebbe dato i
falsi a suo padre, lui avrebbe sicuramente saputo cosa fare.
E
mentre era lì al tornio a fabbricare quegli anelli, gli montava una tale rabbia
in corpo che ogni tanto si doveva fermare e asciugare col palmo della mano
quelle lacrime che proprio non la volevano smettere di scendere. Ed ora ci si
era messa anche sua sorella, che lo aveva scoperto, lì nel retro dell'officina
del signor Giacomo.
Non
gli restava altro che confessare tutto a Ninni, e poi farle giurare, o almeno
promettere, di mantenere il segreto. Ancora per un giorno.
Clelia,
che era rimasta in disparte e in silenzio, dopo aver ascoltato il racconto di
Giovanna, si alzò e lentamente si avviò verso la sua camera da letto dove in
una vecchia scatola conservava quelle due fedi d'oro. “Quando ti serviranno
usale, lo saprai quando sarà il momento giusto” le aveva detto Ernesto
abbracciandola prima di partire deciso ad unirsi ai partigiani, straziato dal
dolore per la notizia di Bruno, dato per
disperso.
“Quando
anche Ernesto partì promisi che non le avrei toccate fino al loro ritorno”
sussurrò Clelia.
“Ma
come possiamo farcela” continuò “noi non
abbiamo nessuna esperienza, abbiamo la sua officina Piera, ma non siamo mica
dei meccanici e poi ci vogliono soldi, molti soldi e questi anelli non
basteranno di certo e poi...”. Lasciò la frase in sospeso senza smettere di
guardare e accarezzare quei piccoli cerchi d’oro.
Piera
però aveva già pensato a tutto e proprio in quell'istante sentirono bussare
alla porta. Era Erminia, la vicina di casa, seguita da Mariella e Stefania e da
Angela, e da Antonietta. Ognuna di loro entrò, si avvicinò a Clelia e appoggiò
qualcosa sul tavolo della cucina. Un ciondolo, una medaglietta, un anello così
piccolo che non sarebbe andato bene neanche per la mani giovani e ossute di Daria,
e un braccialetto.
“E'
tutto quello che abbiamo, ma basterà, credimi” disse Antonietta, togliendosi
dal collo la sua vecchia catenina.
Clelia
continuava a spostare lo sguardo, un po' verso quel mucchietto d'oro e ricordi,
e un po' verso quelle donne che adesso la fissavano, aspettando una sua
risposta.
Allora
inspirò profondamente, chiuse gli occhi e si lasciò andare, contagiata e invasa
da quella luce che brillava nei loro occhi e riuscì persino a sentirsi bene,
finalmente in pace con il mondo. Avevano ragione loro, non serviva altro perché
sarebbero state d'ora in avanti, le une per le altre, preziose più dell'oro.
“Allora
Clelia?” domandò Piera.
Clelia
guardò sua sorella e poi sua figlia. “Voi cosa dite? Ninni tu cosa ne pensi?”
chiese, usando per la prima volta dopo tanto tempo quel nomignolo con cui la
chiamava sempre Bruno. Fecero entrambe sì con la testa, troppo emozionate per
parlare, e allora anche Clelia disse di sì. Quello era il momento giusto. Tolse
quei due anelli dalla scatola e li appoggiò sul tavolo.
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