lunedì 18 maggio 2015

Alessandra Biella – Preziose più dell’oro

Nessuno lo avrebbe saputo, nessuno. Almeno ancora per un giorno.
Bruno si voltò verso sua sorella e glielo fece giurare.
“Giura Ninni, giura! Giura ti dico!”
“La zia dice che non si giura mai, che è peccato” rispose Ninni con quella sua vocina sottile. E se ne stava lì ferma a sfidarlo quel suo fratello, così alto e bello, che la guardava con due occhi spiritati, e un po' ne aveva paura.
“Lo faccio per mamma e papà, e anche per noi. Non è peccato no?” E la voce di Bruno si incrinò o almeno così sembrò a Ninni.
Nel retrobottega dell'officina Molina, si doveva prendere una decisione e lo si doveva fare in fretta.
“Allora se non giuri... prometti! Prometti ti dico!” continuò Bruno.
Ninni si decise e promise. Era il 15 dicembre del 1935.

Un pomeriggio freddo e piovoso di dieci anni dopo, Clelia rientrò a casa con un'espressione così cupa e abbattuta che le figlie, in cucina a sbrigare gli ultimi compiti per il giorno dopo, non ebbero nemmeno il coraggio di andarla a salutare.
Elvira, la sorella di Clelia, smise di colpo di sbucciare le patate che sarebbero servite per la cena e la fissò. Non chiese niente e non disse niente perché non ce n'era bisogno, aveva già capito tutto. Anche Clelia non parlò e si ritirò in camera sua seguita dalla sorella. Le due ragazze invece, rimasero lì, chine sui loro libri cercando di catturare un suono, un bisbiglio. Doveva essere successo qualcosa di grave. Ma cosa?
La cena, qualche ora dopo si svolse nel più assoluto silenzio. Le bambine, come si ostinavano ancora a chiamarle anche se ormai Giovanna, la maggiore, andava per i diciassette anni, e Daria la più piccola ne aveva appena compiuti dodici, non chiesero nulla.
“Bambine, avanti aiutatemi a mettere in ordine e poi subito a letto. Dai Giovanna su...” disse con il suo solito tono sbrigativo zia Elvira.
Ma Giovanna era agitata.
“Mamma, cosa è successo?”
“Niente Giovanna, fa' come ti dice la zia, vai a dormire”. Giovanna ubbidì, accompagnò la sorella nella stanza che dividevano, ma poi tornò in cucina. Non avrebbe rinunciato tanto facilmente.
“Mamma io sono grande ormai, a me puoi dirlo no, che cosa è successo” insistette Giovanna.
“Zia, cosa è successo?” disse non avendo ottenuto dalla madre alcuna risposta.
Sua zia guardò la sorella, si tolse il grembiule, lo ripiegò con cura e sedendosi disse soltanto: “ Ha ragione, Clelia”.
Clelia esitò ancora un istante e poi si decise: “Il lavoro che mi avevano promesso... Non c'è più, però non ti devi preoccupare Giovanna vedrai che...”. Sua madre parlava ma Giovanna non l'ascoltava più. Abbassò lo sguardo e si chiese cos'altro sarebbe potuto succedere. Prima suo fratello partito e mai più tornato, disperso per colpa di quella dannata guerra e poi suo padre Ernesto, partigiano caduto in battaglia. Da eroe e con onore certo, ma cambiava forse qualcosa? E adesso si ritrovavano lì, sedute intorno a quel vecchio tavolo in cucina, affrante.
A questo pensava Giovanna mentre cercava, non trovandole, le parole giuste per consolare sua madre, quando, saranno state ormai quasi le nove, sentirono bussare alla porta. Giovanna rimase immobile e si strinse nel suo scialle di lana, come se quel gesto bastasse a proteggerla da una nuova cattiva notizia.
“Chi è?” chiese Clelia da dietro la porta.
“Sono Piera, Piera Molina”.
Clelia, Elvira e Giovanna, si guardarono stupite. Cosa poteva volere la signora Piera da loro, e a quell'ora poi?
Clelia aprì la porta e la fece entrare.
”Buonasera  Piera, prego si accomodi,  ma è successo qualcosa?”
“Buonasera, no niente, niente è solo che ho saputo del suo lavoro...” disse mentre si toglieva il cappotto e i guanti.
Clelia annuì ed era così amareggiata che non si chiese neanche come avesse fatto a saperlo.
“Elvira, Clelia, ascoltate, io ci ho pensato tanto e vi vorrei aiutare. Per prima cosa sono venuta a portarvi questi”. Si mise la mano nella tasca della gonna ed estrasse due anelli d'oro.
“No Piera no”  iniziò a dire Clelia, ma Piera la interruppe subito. “Se li ho ancora qui con me” disse indicando gli anelli, “lo devo a Bruno sa?”
“Bruno?” Chiese Clelia, guardando prima sua sorella e poi Giovanna, che distolse subito lo sguardo. Quanta pena per lei sentire pronunciare il nome di suo fratello.
“Volevo darveli e soprattutto...” ma fu Elvira, a quel punto che non la lasciò terminare.
“Piera  no. No grazie. Io non so cosa c'entri Bruno ma veramente noi non possiamo accettare. Ma grazie comunque” e richiuse delicatamente la mano di Piera Molina cercando con quel gesto di mitigare almeno un po’ quel tono brusco che aveva usato.
“Lo sapevo che mi avreste risposto così.” Piera sorrise e continuò.
“Ma se mi lasciaste finire...” e fece una pausa per poi proseguire, “Allora, io sarei  venuta a dire anche un'altra cosa.” Abbassò lo sguardo e rimase in silenzio a fissarsi le mani, nude e screpolate.
Anche a Piera, la guerra non aveva lasciato praticamente nulla se non tanti ricordi. Dei suoi genitori ad esempio, che non c'erano più e di suo marito Giacomo. Che non c'era più. Le era rimasta l'officina, quel piccolo capanno risparmiato dai bombardamenti, che aveva curato in quei lunghi mesi di solitudine dacché era finita la guerra, un gioiello che avrebbe voluto lasciare ai suoi figli se ne avesse avuti, ma non c'era stato il tempo.
Quel pomeriggio, improvvisamente, l'idea che accarezzava da giorni prese forma e contorni. Era arrivato per tutte loro il momento di ricominciare a vivere, ne era certa. Per questo avrebbe chiesto a Clelia e alla sua famiglia di lavorare con lei, di rimettere in piedi la vecchia officina.
“Che cosa?”  Rispose Giovanna, che fu la prima a riaversi dalla sorpresa.
Giovanna guardò prima la mamma e poi la zia. Ma come poteva lei che stava studiando, tra mille difficoltà, per diventare maestra, lavorare in quell'officina dove si riparavano automobili. E poi sua madre e sua zia, erano donne caparbie e volenterose certo, ma come avrebbero potuto aiutare la signora Piera? Quattro donne, sole. Non ce l'avrebbero mai fatta, di questo era sicura.
“Sentite” riprese Piera decisa a difendere la sua idea “non mi è rimasto più niente, a parte l'officina e questi anelli. Me lo ricordo bene Bruno, sapete, quella sera, quando si avvicinò a Giacomo e a me, e li lasciò sul bancone dell'officina avvolti in un pezzetto di carta di giornale e poi, senza dire una parola, se ne scappò via.

Fu in quell'istante che Giovanna si ricordò di quella mattina di dieci anni prima.
Era andata a chiamarlo nell'officina del signor Molina, dove lavorava come apprendista, per avvisarlo che era pronto il pranzo e l'aveva scoperto intento a trafficare con i suoi attrezzi.
“Bruno, dove sei?” lo chiamò.
“Ninni, cosa ci fai qui?” Le chiese, sorpreso di vederla e un po’ seccato.
“E' pronto il pranzo, ma cosa fai, piangi?” Ninni era così spaventata nel vederlo in quello stato  che Bruno fu costretto a darle una spiegazione.
“Senti Ninni ho fatto una cosa, ma deve essere un segreto, tu mi aiuterai vero?”
“Cosa hai fatto?” e spalancò gli occhi. A lei non piacevano i segreti.
“Guarda” aprì la mano sinistra e le mostrò degli anelli d'oro.
Ninni, sorrise vedendo tutto quel luccichio.
“Che belli! Ma Bruno dove li hai presi?”
Bruno non li aveva presi da nessuna parte, li aveva fatti lui, con le sue mani, creati da solo nell'officina del signor Molina.
“Vedi sono le fedi di mamma e papà e queste sono per il signor Giacomo, le sto facendo anche per lui perché è l'unico che ci ha sempre aiutato. Ma sono finte vedi, non è mica oro vero questo”. E quegli occhi prima bagnati di lacrime ora splendevano.
Entro pochi giorni ci sarebbe stata la cerimonia della consegna dell'oro alla patria ma a Bruno proprio quella richiesta non era andata giù. Non possedevano nulla, se non quelle fedi d'oro che rappresentavano molto più di quello che valevano e quel sacrificio lui non voleva farlo fare alla sua famiglia, perché quel ragazzino giovane e ingenuo si era persuaso che i suoi genitori, avrebbero  rispettato quella richiesta, ma sarebbero poi morti di crepacuore o, peggio ancora, di fame. Eh sì, perché in quegli anni la sua famiglia non se la passava bene e quel poco oro era, in primo luogo, il legame sacro e indissolubile che univa i suoi genitori ma anche una piccola scorta, un tesoro da proteggere e conservare per i tempi ancora più duri che, come sentiva spesso ripetere da suo padre Ernesto, sarebbero sicuramente arrivati. E quel presentimento puntualmente si avverò.
Suo padre quella mattina non era andato al lavoro e quando Bruno prima di uscire per andare in officina chiese il perché a sua madre, lei non gli rispose. Lo seppe poco più tardi il motivo però, ascoltando il signor Giacomo che parlava con Piera, la moglie. Ernesto aveva perso il lavoro, cacciato senza tanti riguardi perché lui la tessera del partito proprio non la voleva prendere.
Fu allora che Bruno, sconvolto da quella notizia, organizzò la sua piccola vendetta, contro quel destino cieco e maledetto, che si accaniva sulla sua famiglia.  Avrebbe fatto qualsiasi cosa, avrebbe lavorato di più, si sarebbe spezzato la schiena si disse, ma quell'oro no, non glielo avrebbero portato via. Il giorno dopo, decise, avrebbe dato i falsi a suo padre, lui avrebbe sicuramente saputo cosa fare.
E mentre era lì al tornio a fabbricare quegli anelli, gli montava una tale rabbia in corpo che ogni tanto si doveva fermare e asciugare col palmo della mano quelle lacrime che proprio non la volevano smettere di scendere. Ed ora ci si era messa anche sua sorella, che lo aveva scoperto, lì nel retro dell'officina del signor Giacomo.
Non gli restava altro che confessare tutto a Ninni, e poi farle giurare, o almeno promettere, di mantenere il segreto. Ancora per un giorno.

Clelia, che era rimasta in disparte e in silenzio, dopo aver ascoltato il racconto di Giovanna, si alzò e lentamente si avviò verso la sua camera da letto dove in una vecchia scatola conservava quelle due fedi d'oro. “Quando ti serviranno usale, lo saprai quando sarà il momento giusto” le aveva detto Ernesto abbracciandola prima di partire deciso ad unirsi ai partigiani, straziato dal dolore per la notizia di  Bruno, dato per disperso.
“Quando anche Ernesto partì promisi che non le avrei toccate fino al loro ritorno” sussurrò Clelia.
“Ma come possiamo farcela” continuò  “noi non abbiamo nessuna esperienza, abbiamo la sua officina Piera, ma non siamo mica dei meccanici e poi ci vogliono soldi, molti soldi e questi anelli non basteranno di certo e poi...”. Lasciò la frase in sospeso senza smettere di guardare e accarezzare quei piccoli cerchi d’oro.
Piera però aveva già pensato a tutto e proprio in quell'istante sentirono bussare alla porta. Era Erminia, la vicina di casa, seguita da Mariella e Stefania e da Angela, e da Antonietta. Ognuna di loro entrò, si avvicinò a Clelia e appoggiò qualcosa sul tavolo della cucina. Un ciondolo, una medaglietta, un anello così piccolo che non sarebbe andato bene neanche per la mani giovani e ossute di Daria, e un braccialetto.
“E' tutto quello che abbiamo, ma basterà, credimi” disse Antonietta, togliendosi dal collo la sua vecchia catenina.
Clelia continuava a spostare lo sguardo, un po' verso quel mucchietto d'oro e ricordi, e un po' verso quelle donne che adesso la fissavano, aspettando una sua risposta.
Allora inspirò profondamente, chiuse gli occhi e si lasciò andare, contagiata e invasa da quella luce che brillava nei loro occhi e riuscì persino a sentirsi bene, finalmente in pace con il mondo. Avevano ragione loro, non serviva altro perché sarebbero state d'ora in avanti, le une per le altre, preziose più dell'oro.
“Allora Clelia?” domandò Piera.
Clelia guardò sua sorella e poi sua figlia. “Voi cosa dite? Ninni tu cosa ne pensi?” chiese, usando per la prima volta dopo tanto tempo quel nomignolo con cui la chiamava sempre Bruno. Fecero entrambe sì con la testa, troppo emozionate per parlare, e allora anche Clelia disse di sì. Quello era il momento giusto. Tolse quei due anelli dalla scatola e li appoggiò sul tavolo.

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