La prima volta che vidi il mare stavo
seduta in mezzo all'Africa e tenevo gli occhi chiusi.
Non saprei dire esattamente quando ma
il ricordo della voce di mia madre diffusa in canto, mischiata all'odore delle
frittelle di miglio mi riportano facilmente indietro, tanto vicino alla me
stessa di allora che sento ancora il respiro calmo e la pressione dello stipite
della porta di casa sulla tempia reclinata. Seduta sulla soglia, con i piedi
affondati nella terra rossa, ad occhi chiusi vedevo il mare. Il maestro ne
aveva parlato a scuola quella mattina, nessuno di noi c'era mai stato.
L'azzurro di cui ci parlava era mosso dal vento a formare tante increspature di
superficie e in un moto perpetuo altalenava avanti e indietro portando dalle
profondità i suoi tesori sulla spiaggia.
“La
prossima settimana io e Kahal partiamo.” disse mio padre a un tratto, “C'è un
camion che parte da Agadez mercoledì, l'autista è un amico di mio fratello
Abdul, ci carica a un prezzo di favore”. Mia madre interruppe il canto e,
guardando mio padre, non fece in tempo a emettere altro suono. “Viaggeremo di
notte”, aggiunse lui con voce ferma ma si sentiva che in fondo l'anima si
muoveva, forte come il mare.
In quell'attimo il silenzio fu così
profondo che compresi di trovarmi al bordo estremo di qualcosa che finisce, di
qualcosa che nasce. Il profumo di fiori annunciò l'arrivo di zia Acai.
Sorridendo tese il braccio porgendomi la mano, seguirono i cerchi d'oro dei bracciali
con il loro familiare tintinnio. Strinse dolcemente la mia mano e entrò in casa
superando la soglia su cui stavo seduta; cedetti il passo alla carezza della
sua lunga gonna verde e respirai più forte per tenere con me più a lungo che
potessi il suo profumo di fiori e fermare il tempo.
Con lunghi passi lenti e sicuri
giunse diritta davanti alla mamma. Si strinsero la mano e si guardarono in
silenzio. A volte anche gli adulti sanno parlarsi senza voce quando il pensiero
è così profondo da bastare, lo avevo capito da un pezzo osservando mamma e papà
alla volta di decisioni importanti. Poi rivolgendosi al papà seduto al tavolo
zia Acai ordinò: “Ti prenderai cura del mio Kahal come fosse tuo figlio,
promettimelo.”
“Te
lo prometto” disse papà con tono solenne. Guardai verso di lui appena in tempo
per vederlo tuffare, il viso fra le mani, nell'abisso di un mare sconosciuto,
per poi risalire sollevando la fronte in cerca di luce, mentre le mani
affondavano nei capelli scuri.
Fu allora che decisi di non poter resistere
più e lasciai la soglia per correre ad abbracciarlo: “Vengo con te, papà. Tu ti
prenderai cura di Kahal, io mi prenderò cura di te. Ma dove? Dove andiamo?” Mi
strinse forte e pacato mi disse: “Sono io che vado. Vedi, Amina, questo viaggio
è lungo e le tappe non sono ancora ben definite. Io ora vado avanti. Tu verrai
dopo, con la mamma. Una volta arrivato io vi chiamerò; torneremo a stare tutti
insieme molto presto, vedrai.”
“Ma
perché ...?”
“Il
perché, mia piccola Amina, è intorno a noi” disse lui.
***
Il luogo in cui sono cresciuta è una
soglia sul deserto, una forma piatta di terra rossa sulle sponde del fiume
Niger, tra le dune e le grandi savane. Papà è partito tre anni fa e ora, come
dice la mamma, tocca a noi. Il raccolto di quest'anno è stato ancora più
scarso, seppure tutti noi abbiamo lavorato sodo e poi la guerra ... nell’area
del lago Ciad sono decine i villaggi ridotti in cenere dai combattimenti, e
l'esercito non è ancora riuscito ad avere la meglio. “Le
rappresaglie ci mettono a rischio” concluse la mamma e, spostando lo sguardo
verso il deserto, aggiunse “Addio albero del Ténéré, isolata radice profonda,
ora non possiamo più restare, ma un giorno... qualcuno di noi ...” I racconti
della nonna sull'albero del Ténéré, giunti a lei con le carovane Tuareg,
avevano di volta in volta incantato tutti i bambini del villaggio. Questo
albero, unico e solo a reggersi in piedi nel deserto nel raggio di molti
chilometri, doveva il premio della vita al suo aver cercato, senza arrendersi,
in profondità, sempre più giù, fino a trovare l'acqua di una falda ad almeno 40
metri di profondità. Questa radice ostinata, diceva la nonna, apparteneva alla
nostra gente, ed era da considerare parte della nostra stessa storia, tanto che
l'albero viene tuttora conservato nel museo nazionale di Niamey.
La mamma nel rivolgergli l'ultimo
saluto ne onorava la memoria e al tempo stesso gli raccomandava con una
promessa la nostra stessa sopravvivenza.
“Dove
si trova questo posto così lontano? dove andiamo?” chiesi allora.
“Oltre
il deserto, oltre Agadez, oltre il mare” rispose la mamma.
Con la mente proiettata sui nuovi
orizzonti, vagai coi pensieri fra le dune e il mare, come i Tuareg sulla via
del sale, unico faro luminoso l'albero del Ténéré. Quella notte mi addormentai tenendomi
stretta Kima l'amuleto di stoffa che mi aveva regalato nonna Nakisai prima di
morire. “Tienila sempre con te, Ti proteggerà” mi disse allora riponendo la
piccola bambola col turbante rosso e il bimbo annodato al dorso, fra le mie
mani. Apparteneva alla nostra famiglia da molto tempo, come la nonna, almeno
trent'anni e come lei conosceva le storie del villaggio meglio di chiunque
altro. Bastava stringerla fra le mani e attendere: le storie, vecchie e nuove,
sarebbero arrivate...
***
L'ultima volta che vidi l'Africa
stavo seduta in mezzo al mare. Il cammino lungo le piste del Sahara era durato
diversi mesi, e molti altri ne erano passati in attesa di un imbarco di
fortuna. Non ero più la stessa di quando ero partita, e neppure mia madre che
all'imbarco era incinta. Attraversare un deserto richiede un prezzo molto alto
e noi lo avevamo pagato tutto tenendoci il resto. Ma anche ora, sulla barca
gremita di persone sconosciute, come allora, nella notte prima di partire,
tenevo gli occhi chiusi e Kima stretta fra le mani.
Quando il motore si arrestò e le onde
presero il sopravvento fu in un solo lunghissimo istante che la barca si
capovolse e io conobbi la profondità del mare. Io scendevo e anche la mamma
scendeva con me, “Aminaaaaa!” riuscii a sentire ancora la sua voce, ma poco
dopo, nella discesa abissale, i suoni si erano spenti, e il blu del mare
profondo si estendeva senza fine come un nuovo deserto davanti a me.
Allora, senza respiro e senza voce,
chiesi a Kima la storia più bella, profonda come la radice del Ténéré. Quando
la vidi arrivare la riconobbi, era una storia nuova ma anche antica, che mi
afferrò con forza e mi avvolse nella fascia purpurea con cui le donne in Africa
portano con sé i bambini, in un abbraccio di stoffa tessuta da mani sapienti,
da mani accoglienti. Forte e sicura, la storia di Kima procedeva al ritmo tribale dei tamburi
srotolando il suo drappo che si faceva via via più grande per avvolgere anche
la mamma. Poi, nuotando veloce, prese una corrente ascendente indicata dai
pesci argentati e senza fatica ci riportò in superficie, adagiandoci sulla
spiaggia dove mi risvegliai.
Quando aprii gli occhi tenevo ancora
Kima stretta fra le mani. La mamma era vicino a me, mi accarezzava. Teneva tra
le braccia una bambina, il volto stanco ma felice “Amina, tesoro, siamo oltre
il mare e siamo insieme, e da oggi lei è con noi. La chiameremo Futura.”
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