mercoledì 1 giugno 2016

Nadia Piloni - La radice di Amina

La prima volta che vidi il mare stavo seduta in mezzo all'Africa e tenevo gli occhi chiusi.
Non saprei dire esattamente quando ma il ricordo della voce di mia madre diffusa in canto, mischiata all'odore delle frittelle di miglio mi riportano facilmente indietro, tanto vicino alla me stessa di allora che sento ancora il respiro calmo e la pressione dello stipite della porta di casa sulla tempia reclinata. Seduta sulla soglia, con i piedi affondati nella terra rossa, ad occhi chiusi vedevo il mare. Il maestro ne aveva parlato a scuola quella mattina, nessuno di noi c'era mai stato. L'azzurro di cui ci parlava era mosso dal vento a formare tante increspature di superficie e in un moto perpetuo altalenava avanti e indietro portando dalle profondità i suoi tesori sulla spiaggia.
La prossima settimana io e Kahal partiamo.” disse mio padre a un tratto, “C'è un camion che parte da Agadez mercoledì, l'autista è un amico di mio fratello Abdul, ci carica a un prezzo di favore”. Mia madre interruppe il canto e, guardando mio padre, non fece in tempo a emettere altro suono. “Viaggeremo di notte”, aggiunse lui con voce ferma ma si sentiva che in fondo l'anima si muoveva, forte come il mare.
In quell'attimo il silenzio fu così profondo che compresi di trovarmi al bordo estremo di qualcosa che finisce, di qualcosa che nasce. Il profumo di fiori annunciò l'arrivo di zia Acai. Sorridendo tese il braccio porgendomi la mano, seguirono i cerchi d'oro dei bracciali con il loro familiare tintinnio. Strinse dolcemente la mia mano e entrò in casa superando la soglia su cui stavo seduta; cedetti il passo alla carezza della sua lunga gonna verde e respirai più forte per tenere con me più a lungo che potessi il suo profumo di fiori e fermare il tempo.
Con lunghi passi lenti e sicuri giunse diritta davanti alla mamma. Si strinsero la mano e si guardarono in silenzio. A volte anche gli adulti sanno parlarsi senza voce quando il pensiero è così profondo da bastare, lo avevo capito da un pezzo osservando mamma e papà alla volta di decisioni importanti. Poi rivolgendosi al papà seduto al tavolo zia Acai ordinò: “Ti prenderai cura del mio Kahal come fosse tuo figlio, promettimelo.”
Te lo prometto” disse papà con tono solenne. Guardai verso di lui appena in tempo per vederlo tuffare, il viso fra le mani, nell'abisso di un mare sconosciuto, per poi risalire sollevando la fronte in cerca di luce, mentre le mani affondavano nei capelli scuri.
Fu allora che decisi di non poter resistere più e lasciai la soglia per correre ad abbracciarlo: “Vengo con te, papà. Tu ti prenderai cura di Kahal, io mi prenderò cura di te. Ma dove? Dove andiamo?” Mi strinse forte e pacato mi disse: “Sono io che vado. Vedi, Amina, questo viaggio è lungo e le tappe non sono ancora ben definite. Io ora vado avanti. Tu verrai dopo, con la mamma. Una volta arrivato io vi chiamerò; torneremo a stare tutti insieme molto presto, vedrai.”
Ma perché ...?”
Il perché, mia piccola Amina, è intorno a noi” disse lui.

***
Il luogo in cui sono cresciuta è una soglia sul deserto, una forma piatta di terra rossa sulle sponde del fiume Niger, tra le dune e le grandi savane. Papà è partito tre anni fa e ora, come dice la mamma, tocca a noi. Il raccolto di quest'anno è stato ancora più scarso, seppure tutti noi abbiamo lavorato sodo e poi la guerra ... nell’area del lago Ciad sono decine i villaggi ridotti in cenere dai combattimenti, e l'esercito non è ancora riuscito ad avere la meglio. “Le rappresaglie ci mettono a rischio” concluse la mamma e, spostando lo sguardo verso il deserto, aggiunse “Addio albero del Ténéré, isolata radice profonda, ora non possiamo più restare, ma un giorno... qualcuno di noi ...” I racconti della nonna sull'albero del Ténéré, giunti a lei con le carovane Tuareg, avevano di volta in volta incantato tutti i bambini del villaggio. Questo albero, unico e solo a reggersi in piedi nel deserto nel raggio di molti chilometri, doveva il premio della vita al suo aver cercato, senza arrendersi, in profondità, sempre più giù, fino a trovare l'acqua di una falda ad almeno 40 metri di profondità. Questa radice ostinata, diceva la nonna, apparteneva alla nostra gente, ed era da considerare parte della nostra stessa storia, tanto che l'albero viene tuttora conservato nel museo nazionale di Niamey.
La mamma nel rivolgergli l'ultimo saluto ne onorava la memoria e al tempo stesso gli raccomandava con una promessa la nostra stessa sopravvivenza.
Dove si trova questo posto così lontano? dove andiamo?” chiesi allora.
Oltre il deserto, oltre Agadez, oltre il mare” rispose la mamma.

Con la mente proiettata sui nuovi orizzonti, vagai coi pensieri fra le dune e il mare, come i Tuareg sulla via del sale, unico faro luminoso l'albero del Ténéré. Quella notte mi addormentai tenendomi stretta Kima l'amuleto di stoffa che mi aveva regalato nonna Nakisai prima di morire. “Tienila sempre con te, Ti proteggerà” mi disse allora riponendo la piccola bambola col turbante rosso e il bimbo annodato al dorso, fra le mie mani. Apparteneva alla nostra famiglia da molto tempo, come la nonna, almeno trent'anni e come lei conosceva le storie del villaggio meglio di chiunque altro. Bastava stringerla fra le mani e attendere: le storie, vecchie e nuove, sarebbero arrivate...
***
L'ultima volta che vidi l'Africa stavo seduta in mezzo al mare. Il cammino lungo le piste del Sahara era durato diversi mesi, e molti altri ne erano passati in attesa di un imbarco di fortuna. Non ero più la stessa di quando ero partita, e neppure mia madre che all'imbarco era incinta. Attraversare un deserto richiede un prezzo molto alto e noi lo avevamo pagato tutto tenendoci il resto. Ma anche ora, sulla barca gremita di persone sconosciute, come allora, nella notte prima di partire, tenevo gli occhi chiusi e Kima stretta fra le mani.
Quando il motore si arrestò e le onde presero il sopravvento fu in un solo lunghissimo istante che la barca si capovolse e io conobbi la profondità del mare. Io scendevo e anche la mamma scendeva con me, “Aminaaaaa!” riuscii a sentire ancora la sua voce, ma poco dopo, nella discesa abissale, i suoni si erano spenti, e il blu del mare profondo si estendeva senza fine come un nuovo deserto davanti a me.
Allora, senza respiro e senza voce, chiesi a Kima la storia più bella, profonda come la radice del Ténéré. Quando la vidi arrivare la riconobbi, era una storia nuova ma anche antica, che mi afferrò con forza e mi avvolse nella fascia purpurea con cui le donne in Africa portano con sé i bambini, in un abbraccio di stoffa tessuta da mani sapienti, da mani accoglienti. Forte e sicura, la storia di Kima procedeva al ritmo tribale dei tamburi srotolando il suo drappo che si faceva via via più grande per avvolgere anche la mamma. Poi, nuotando veloce, prese una corrente ascendente indicata dai pesci argentati e senza fatica ci riportò in superficie, adagiandoci sulla spiaggia dove mi risvegliai.
Quando aprii gli occhi tenevo ancora Kima stretta fra le mani. La mamma era vicino a me, mi accarezzava. Teneva tra le braccia una bambina, il volto stanco ma felice “Amina, tesoro, siamo oltre il mare e siamo insieme, e da oggi lei è con noi. La chiameremo Futura.”

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