Come è
profondo il mare... come è profondo il mare.
Nessuno ci
pensa mai. Sta lì, una macchia blu poco più intensa del cielo. A separarli, una
sola linea. Ma sotto, un intero mondo.
Scendo
lentamente, giù, giù. Chissà quando toccherò il fondale. Chissà se me ne
accorgerò o se, quando i miei piedi si mischieranno alla sabbia, avrò già perso
coscienza. Se, addirittura, sarà già finita. Una discesa nell’oblio, lunga.
Vedo ancora la luce del sole, scomposta, riflessa in schegge di dimensioni
varie e indefinite. Mentre il mare mi avvolge con il suo abbraccio soffocante,
la sagoma della barca che si allontana. Da questa prospettiva, così rovesciata,
sembra un’enorme bara nera.
Qui sotto
non si sentono nemmeno i lamenti. Tutto è silenzio, tutto è riposo. Niente più
sciabordio delle onde, niente più gemiti delle donne, niente più pianti di
bambini, né urla, ordini, rumori sordi delle botte e degli schiaffi dei nostri
aguzzini.
Forse, la
pace a cui tanto ambivo era questa. Volevo raggiungere i miei cugini a Malmö,
in Svezia, e assaggiare nuovamente quella sensazione di casa, di protezione,
che avevo provato anni fa, quando la guerra ancora non aveva raggiunto la
pacifica Dar’a.
Ma, in
fondo, anche qui tutto è calmo. Ho cercato di lottare, ho sbattuto
freneticamente gambe e braccia, nel disperato tentativo di rimanere a galla, ma
non avevo mai nuotato prima d’ora. Niente di strano per chi, come me, ha visto
per la prima volta il mare qualche mese fa, all’arrivo a Beirut, in Libano.
In realtà,
non so nemmeno perché mi sono tuffato.
È stato un
attimo. L’ennesimo scossone alla barca stracolma, e già in parte sommersa.
Forse,
qualcuno si è alzato improvvisamente per far segno all’imbarcazione che si
intravedeva in lontananza. Forse è stato più di uno ad alzarsi e sbracciarsi
per chiedere aiuto.
Non saprei
nemmeno descriverlo con certezza, tanto è accaduto in fretta. Un equilibrio
perduto per un millisecondo. E poi, il panico. La barca che si piega tutta a
destra e il contraccolpo che ci sbalza sul lato opposto. Gente schiacciata,
gente che non riesce a rimanere salda, che cade in acqua, trascinando con sé
gli altri.
Uno tra i
primi a cadere è stato Amir. Era seduto vicino a me, il piccolo. Siamo rimasti
fianco a fianco per tutto il viaggio. Mi fissava, mentre cercava riparo tra le
braccia della madre. Gli occhioni umidi, neri neri. Troppo leggero per
resistere al contraccolpo, troppo debole per aggrapparsi, saldo, al petto della
mamma. Amir è il suo terzo figlio; gli altri, morti sotto le macerie della loro
stessa casa, ad Hama. Il padre, che tanto aveva faticato a racimolare i soldi
necessari alla traversata, giace già in fondo al mare, pestato a sangue e
gettato in acqua da quelle bestie mentre ancora era vivo per aver osato
chiedere un po’ d’acqua per il suo bambino, dopo quasi dodici ore di viaggio.
Non aveva
più parlato, il piccolo Amir, di soli tre anni. Non aveva nemmeno pianto, ma
forse il suo corpicino arido non era neppure in grado di produrre lacrime,
sotto il cocente sole di luglio. La madre, come pietrificata, aveva continuato
a fissare il punto in cui era caduto il marito anche per molto tempo dopo la
sua scomparsa, stringendo stretto a sé il piccoletto.
Ma Amir era
stato sbalzato via, e già si dibatteva tra i flutti.
Ho ancora
nelle orecchie l’urlo disperato di quella povera donna. Vedo la sua mano,
strappata a quella del bimbo, sospesa, a graffiare l’aria, ad afferrare il
vuoto.
Un attimo
dopo, non saprei dire perché, mi sono ritrovato in acqua, a dimenarmi in modo
scomposto nel tentativo di raggiungere Amir. Forse è stato per via delle sue
lunghe ciglia nere, o per le labbra secche, spaccate per il caldo e la sete. O
forse per le sue manine, che tanto mi ricordavano quelle della mia sorellina
Adila. Qualche mese prima, nel tentativo di raggiungere la Libia, i miliziani
avevano preso lei e mia madre. Ho aspettato due settimane, nella speranza che
le rilasciassero, finché ho capito che non le avrei più riviste.
Mi agito in
maniera convulsiva, cercando solo di pensare a rimanere a galla e raggiungere
il punto in cui Amir è scomparso, ma tutto è nuovo per me. Il freddo
dell’acqua, il sapore di sale in bocca, il bruciore negli occhi, in gola, nelle
narici. Non faccio più di un metro e già mi arrendo. Inghiottisco acqua mentre
cerco, disperato, di respirare. Sono a galla, e poi affondo, riprendo aria, e
sono di nuovo giù. Mi affanno, mi agito, tossisco, bevo. Una fitta al petto e
mi manca il fiato. Chiudo gli occhi, per non vedere attorno a me chi si dimena,
chi lotta per risalire e si aggrappa al vicino, chi si dispera nel tentativo di
guadagnarsi una tavola di legno, un brandello di barca.
Buio.
Silenzio. Tutto è ovattato. Il panico che aumentava la morsa al petto, poco a
poco, mi abbandona. Mi sembra di scendere al rallentatore verso l'abisso.
Sempre più silenzio. Sempre più buio.
Com’era
buia la notte precedente. La fioca luce della luna sembrava nascondersi a noi,
quasi non volesse testimoniare quello che stava accadendo. E il rumore
assordante del mare, delle onde nere, ora alte, ora impetuose, ora violente,
ora seducenti, ora concilianti, ora martellanti, ora rasserenanti... Il mare è
una grande culla, e una grande bestia. Divora i suoi figli, quelli a cui ha
dato di che vivere con le sue acque. Finge di farsi domare, di assecondare i
capricci e i voleri degli uomini, e poi li spazza via. Accoglie nel suo ventre
marinai e pescatori, aguzzini e fuggiaschi. A volte li accompagna, a volte li
ingoia. Puoi sentire la sua conciliante compassione o la sua schiumosa rabbia.
In queste
sedici ore di traversata abbiamo imparato a conoscerlo, il mare, e a temerlo.
La maggior parte di noi nemmeno lo aveva mai visto. Nessuno ci aveva mai
pensato, al mare. La nostra vita procedeva e lui, a chilometri di distanza,
stava lì; una macchia blu poco più intensa del cielo. Per sedici ore abbiamo
vissuto solo il mare, sentito solo il mare. Alle nostre spalle, ormai
invisibile al di là dell'orizzonte ondulato delle onde schiumose, c’era la
nostra terra dove, in alcuni casi, avevamo lasciato i nostri genitori, troppo
deboli per tentare l'impresa, o le nostre mogli, sepolte sotto le coperte dove
si trovavano, addormentate, quando la bomba le ha sorprese. Davanti a noi (e
ormai non poteva mancare molto, non doveva mancare molto), la nostra nuova
speranza. A dividerci da essa, il mare. Mare di fronte a noi, mare dietro di
noi, mare sotto di noi. E chissà come è profondo il mare… da qui, forse, potrei
riuscire a capirlo… D’improvviso apro gli occhi, e lo vedo. Il mare è anche
sopra di me. E non è nero, ma è pieno di sfumature azzurre, verde acqua, blu
inteso, bianco schiuma…
Scendo
lentamente, giù, giù. Chissà quando toccherò il fondale. Chissà se me ne
accorgerò o se, quando i miei piedi si mischieranno alla sabbia, avrò già perso
coscienza. Se, addirittura, sarà già finita. Una discesa nell’oblio, lunga.
Vedo ancora la luce del sole, scomposta, riflessa in schegge di dimensioni
varie e indefinite. Mentre il mare mi avvolge con il suo abbraccio soffocante,
la sagoma della barca che si allontana. Da questa prospettiva, così rovesciata,
sembra un’enorme bara nera.
Qui sotto
non si sentono nemmeno i lamenti. Tutto è silenzio, tutto è riposo.
Ma io non
voglio il silenzio, non voglio la “pace”. Io voglio la vita. Mi dimeno con
forza, risalgo di un poco. Batto i piedi, ma il sangue mi pulsa nelle orecchie,
le tempie picchiano, i polmoni mi scoppiano...
Una forza,
dall’alto, mi recupera. Mi trascina verso il cielo, a riprendere fiato. Il
mare, in superficie, è di un colore azzurro chiaro. Un’altra mano mi afferra,
mi stringe, mi issa. Alzo lo sguardo. Un uomo. Anche i suoi occhi sono azzurro
chiaro. I suoi occhi hanno il colore del mare.
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