lunedì 2 giugno 2014

Vincenzo Iannuzzi – 1939 - 1945. La situazione al mo paesello. Ricordi

Avevo pochi mesi allorché nel 1939 mio padre , mastro muratore  e costruttore di case emigrò in  Venezuela, scampando appena in  tempo alla chiamata alle armi ed  all’entrata in guerra dell’Italia. Con l’inizio del conflitto ed il massiccio abbandono dei campi e delle fabbriche per la chiamata alle armi, iniziarono  ad aggravarsi   le già precarie condizioni economiche  della popolazione del mio paesello come del resto d’Italia. Del periodo bellico  ricordo vividamente  lo stato di  privazione mia e di mia sorella, ma soprattutto di mia  madre, che senza entrate, per noi si   toglieva  il pane dalla bocca.  Per questo si ammalò   di anemia cronica , che poi ,da medico ,ho capito  che  si era trattato  di vera e propria carenza alimentare. Mamma mia, periodicamente, era costretta a recarsi assieme ad altre donne,  in Calabria , con i treni merci ,per barattare  biancheria del corredo, con grano, legumi , fichi secchi ed altre derrate .Ricordo che , al suo ritorno, le andavo incontro sulla strada di casa, per buttarmi felice tra le sue braccia. Quanto mi rammarico di non aver raccolto e trascritto i suoi proverbi ed i  detti popolari che conosceva a dovizia.
Allora , vicino casa,  era accampato un drappello di  cavalleggeri,  con i  cavalli, come presidio  militare. Erano tutti dell’Alta Italia che  da subito avevano familiarizzato con la popolazione  a cui non raramente allungavano un po’ di rancio. Con il tempo alcuni  sposarono pure donne locali.
Ricordo che spesso andavo a curiosare nella fucina del maniscalco,  affascinato dal bagliore dei carboni ardenti e dalle scintille che sprizzavano dal ferro battuto. Un giorno che il fabbro buttò per terra un pezzo di ferro dopo  averlo  fatto raffreddare nell’acqua facendola  sfriggere,lo raccolsi credendolo freddo e mi ustionai  la mano. Mia madre ,  cercò di lenirmi il dolore ungendomi la mano con olio di oliva.
Ricordo quando i soldati uccisero con un colpo di randello un  gatto  sorpreso a mangiare  nella dispensa, che poi cucinarono per tutti. Lo fecero assaggiare pure a me.Com’è vero che il miglior condimento è la fame. Quanto era buono!
Ricordo  il 15 agosto   del 43, il bombardamento di Sapri, di cui si udivano i sibili sinistri e gli scoppi raccapriccianti  delle bombe, essendo poco distante in linea d’aria da noi.Gli angloamericani  credendo di aver individuato un deposito militare importante la bombardarono con circa 30 bombardieri   a seguito di cui   fu distrutta al 70% con la morte di 83 civili, di cui  22 bambini. Questo evento, dalla storia, non viene nemmeno menzionato ma  la cittadinanza di  Sapri lo tiene ben vivo nella memoria.
Ricordo l’otto settembre del 1943 ,allorché  tutti i  cavalleggeri  uscirono in strada con i loro fucili per sparare in aria ripetutamente per festeggiare l’armistizio mentre io  raccoglievo i bossoli di ottone per terra. Nessuno pensava che i guai per l’Italia non fossero finiti e che il peggio dovesse  ancora  venire.
Durante lo sbarco anglo-americano  tutti ricordano l’accanito mitragliamento delle torri di avvistamento antisaraceni costruite nel Cinquecento lungo la costa scambiati per fortilizi militari, abbaglio che si ripeterà in maniera eclatante per l’abbazia di Montecassino alcuni mesi dopo. Io e molti altri subacquei , anni dopo,  abbiamo raccolto centinaia di bossoli di mitraglia d’aereo caduti in mare. Ancora oggi sulle mura spesse tre metri di queste torri   , si vedono i fori e le brecce aperte dai colpi.
 Ricordo dello scontro aereo che ci fu proprio sopra il cielo del mio paesello  tra un caccia angloamericano ed uno tedesco. Questo ultimo ebbe la peggio e precipitò sopra una montagna vicina . L’aviatore si lanciò  con il paracadute. Pur essendo  atterrato alcuni chilometri distante, in poche ore  raggiunse a piedi i resti del suo aereo .Poi , minacciando con un revolver ,tenne in scacco la popolazione per un paio di giorni prima di consegnarsi ai carabinieri. Voleva sparare in testa ad un mio cugino che cercava di recuperare la sua vecchia bicicletta arrugginita che il germanico gli aveva sequestrato.  Tra lui e  mio cugino  si frappose la madre disperata con le braccia aperte per impedirgli di sparare, salvandolo a stento. Ogni volta che ricordo questa scena mi sovvengono  “I disastri della guerra” di Goya.
Ricordo  il fragore dei blindati  ed il cigolio degli anfibi  anglo- americani   sbarcati, diretti a Salerno, che passarono proprio davanti casa mia ed i soldati che lanciavano alla gente  gallette.
In quel periodo con i miei compagni avevamo costituito una vera  e propria  banda  di scugnizzi. Assieme giocavamo alla “guerra francese” un gioco ereditato  a seguito del passaggio delle truppe napoleoniche  , che non richiedeva palle o attrezzi  ed a “strummulo” gioco che consisteva nell’avvolgere una cordicella attorno ad una trottola di legno munita di  punta di ferro, che  costruivamo da noi e poi nel lanciarla per colpire quella dell’avversario.  Andavamo a caccia di uccelli con la fionda  o i “lazzuli”, trappole , che costruivamo, per acchiappare i passerotti usando come esca un’oliva .Ma il massimo divertimento consisteva per  noi, sempre affamati ,nel rubare per le campagne: ciliegie , nespole , fichi e altra frutta varia. Non raramente capitava di essere inseguiti da vecchi contadini inferociti, perché i giovani erano tutti alle armi,   che appunto per l’ età avanzata riuscivamo facilmente a seminare.
Durante una di queste scorrerie ladresche, nella fretta ingurgitai   il seme di una nespola. Allorché giunsi  a casa ,preoccupato lo raccontai a uno zio . Questi, forse per scoraggiarmi dal fare future  marachelle , fingendosi visibilmente preoccupato, mi disse che da lì a qualche mese mi sarebbe spuntata nella pancia una pianta di nespole che con il tempo sarebbe diventata sempre più grande. Da allora per mesi vissi nel terrore che mi spuntasse l’albero e ogni momento mi guardavo la pancia e mi tastavo la pelle.
 Ricordo  il nonno paterno, perché abitavamo a casa sua, che mi raccontava la sera davanti al fuoco,  leggende e favole  finché mi addormentavo. Allora  mi prendeva in braccio e cullandomi con le mani mi cantava la  ninna nanna: “dormi… dormi… niputello mio, dormi… dormi… ndà candarella i papoppo… dormi… dormi niputello mio…”. “Candarella di papoppo” stava per culla del nonno.
Durante la guerra,  riuscire ad allevare un maiale era risolutorio per la fame e per la  carenza  proteica.Ricordo che mia sorella, più grande di me di un anno, provvedeva a raccogliere per i campi ,durante l’intera giornata, erbe mangerecce, ghiande e radici per il maialino che come la sentiva avvicinare da lontano iniziava a inerpicarsi sul muretto del porcile con le zampe anteriori  ed a grugnire festosamente.Nel mese di dicembre, prima di Natale , si usava uccidere il maiale per poi consumarlo  tutto senza buttare nulla come ovunque, ma allora più che mai. Quattro robusti contadini afferravano il porco e dopo averlo sbattuto per terra e immobilizzato tra stridenti e acuti  grugniti che si sentivano a distanza di chilometri e che evidentemente dimostravano che l’animale non fosse d’accordo, veniva scannato all’istante con un affilato coltello  raccogliendo il sangue in un recipiente , per poi farne gustose pietanze di sanguinaccio. Poi veniva squartato e fatto  a pezzi per  preparare numerose varietà di salumi  ed i prosciutti. Con le interiora  si friggevano in vario modo  le frattaglie. Gli intestini servivano come contenitori dei salumi. Con lo stomaco si cucinava un’appetitosa trippa. Con la pelle si cuocevano  le cotenne. Con le zampe si ricavava il cotechino e lo zampone. La coda corta e  pelosa veniva usata come scopino. Con i residui della carne grassa si assortiva  la  “cicola”,   ammasso   compresso che residuava dopo averla cotta e spremuta del grasso con cui si faceva la sugna bianca. Questa veniva conservata a parte nella vescica del maiale e poi utilizzata per svariati usi ma soprattutto in cucina in alternativa all’olio di oliva. Per me la “cicola” assieme al sanguinaccio a base di riso con uva passa e pinoli  erano i manicaretti supremi. Ma soprattutto  ricordo il pianto irrefrenabile di mia sorella  che dopo aver cercato di impedire l’uccisione del suo  “nico” con pianti e strepiti non riusciva a darsi pace perché avevano ucciso il suo porcellino a cui si era affezionata, che sin da piccolo , l’aveva  adottata come madre.
Allora c’era carenza di tutto. Ricordo che su richiesta di mio nonno paterno a letto ammalato , andavo a staccare la corteccia dal tronco di  una grande pianta di vite che poi tritavo affinché  potesse utilizzarla come surrogato del tabacco  e prepararsi con piccoli pezzetti di carta le sigarette.
I bei tempi che furono, sempre tanto  decantati e rimpianti  ,lo  saranno stati per la nobiltà  decaduta, nostalgica di un passato  allorché  essere nobile garantiva privilegi , ma non certo per il popolo. A sentire quello che raccontava mio padre di come fosse la vita per un popolano del mio paesello, negli anni venti-trenta, il cosiddetto “sfasulatu”, cioè colui che era tanto povero da non avere nemmeno i fagioli, che da sempre erano stati la carne del contadino, quella dopo il boom economico era come stare in paradiso. Giorni fa leggevo sul giornale che una grande  famiglia di imprenditori di Treviso  aveva invitato ad una suntuosa cena  trecento   VIP il cui piatto principale, elaborato da un noto chef ,era stato a base  di pasta e fagioli. Mio padre raccontava  ,che  a quattordici anni fu iniziato all’arte muraria, dal padre, alias mio nonno , mastro muratore di vaglia, che era stato l’artefice delle mura e dei ponti della strada provinciale del  mio paesello finanziati dal fascismo , ancora completamente integri dopo quasi cento anni. Per tre anni, come apprendista, dové caricarsi sulle spalle e trasportare  la “cardarella” piena , un   recipiente metallico a cono tronco  che poteva contenere fino a venti chili  di calcestruzzo, su per le scale a pioli, per rifornire i  muratori. Doveva impastare ,per il restante tempo della giornata lavorativa, la calce con l’arena. E questo dall’alba al tramonto. La sera la cena consisteva in un pezzo di “pane nero” che era il pane  dei poveri, senza un filo di olio né companatico assieme ad un bicchiere d’acqua, per poi andare a dormire assieme a tutti i fratelli in un unico grande letto con  un materasso imbottito  di sfoglie secche di pannocchie di granturco. Oggi il pane integrale viene venduto  nelle panetterie come bene di lusso. La vita per i braccianti  era ancora più dura. Il mattino all’alba, di giorno in giorno, dovevano andare in piazza ad aspettare che qualche “caporale” li assoldasse per lavorare nei campi duramente, dall’alba al tramonto  per pochi spiccioli, cosa che capitava quasi solamente durante i raccolti. E mio padre ci teneva a dire che la vita dei suoi avi era stata ancora più dura e con più privazioni. A parte la domenica non c’erano  ferie. Non c’erano né mutue né ospedali. Il medico se lo dovevano pagare di tasca propria . Quando era la festa del patrono del paese il suo premio consisteva , unico in un  anno intero di duro lavoro, in due soldi di rame  con cui riusciva a comperare un piccolo cono di carta gialla pieno di  lupini e una piccola statuina di zucchero colorato di Cecco Peppe , alias Francesco Giuseppe Imperatore d’Austria e Ungheria.uesti raccQuQQ Questi racconti la dicono lunga sul perché del massiccio esodo, nel mondo, di Meridionali che ci fu specie dopo l’unità d’Italia ed ai primi del Novecento.
Al mio paesello ,da sempre ,fino all’arrivo del gas  ,il focolare è sempre stato non solo l’unica fonte di riscaldamento  durante l’inverno ma anche  la maniera  più comune  per cucinare durante l’intero anno. Per questo motivo a tutti i miei paesani, specie le donne, sulla pelle della parte anteriore delle gambe, esposta al fuoco, si formavano i “ruezzi”che erano delle striature rossastre, veri e propri esiti di ustioni.  Oggi il camino durante l’estate non viene più acceso  , fatto salve in qualche sparuto casolare di campagna, ma viene ripristinato ancora, in quasi ogni casa ,durante l’inverno come  fonte  di calore alternativo o supplementare  al riscaldamento a gas. A Natale , i pochi paesani emigrati che di tanto in tanto fanno una rimpatriata nella loro madre terra è attorno al focolare che ritrovano i ricordi della loro infanzia e l’essenza della loro anima. Il camino , in tutto il mondo, anche se oggi è  obsoleto  come calorifero  resterà sempre in uso come residuo atavico nella nostra memoria filogenetica del vecchio focolare ,attorno al quale ,  a far capo ad almeno 400 mila anni fa  il nostro antenato l’Homo erectus sicuramente già si riuniva con la famiglia. Al mio paesello ancora si respira, nel periodo natalizio, assieme all’aria acre e odorosa di legna bruciata nei camini, l’atmosfera di miti e di vecchi racconti. Ricordo tra le tante leggende che mi narrava il nonno paterno, oltre a quella del brigante Musolino che aveva imperversato in Calabria ai primi del Novecento ,   quella del  “mummacello” e del “lipombinu” alias il lupo mannaro. Il “mummacello”, a sentire gli anziani che ne parlavano convinti e con fervore,   lo avevano visto tutti più di una volta . Per questo motivo al “mummacello” finivano col credere pure coloro  che non lo avevano  visto mai. Era un ometto senza tempo, quanto un nano, scherzoso e beffardo  che di tanto in tanto compariva sornione davanti al focolare o accanto al letto per fare  boccacce o marameo. Oggi potremmo assimilarlo ad uno hobbit. A pensarci bene doveva essere più un’allucinazione ricorrente ,  frutto della fame,  che parto  della fantasia popolare. Peccato che del “mummacello” oggi  non se ne parli più. Perché se è vero che non c’è più sua madre, la fame , abbiamo perduto pure  suo padre: il mito incantato.
 “U lipombinu” cioè il lupo mannaro, più che un mito popolare derivante  da lontane origini di fame atavica, come “u mummacello”, è rapportato scientificamente al licantropo, cioè a colui che è affetto da licantropia, forma di profonda crisi di  sconforto  , assai diffusa un tempo in cui la grande miseria in Europa era di casa . Ritengo che nessuno più di Munch “con il grido” abbia rappresentato meglio questo stato esistenziale dell’uomo. Dalle mie parti i nonni , chiamati “mamma rossa” e “tata rosso “a seconda il sesso, che erano i detentori dei racconti e delle storie in tempi di grande analfabetismo e senza televisione , alla luce dei lucignoli a olio di oliva ,dicevano con convinzione che quando ti trovi davanti a “nu  lipombinu”, per neutralizzarlo devi pungerlo con un punteruolo oppure con la lama di un piccolo coltello. E quei nonni quando lo raccontavano  lo facevano convinti di narrare una cosa vera, reale a salvaguardia dei nipoti.
La fame, che era il condimento primario durante il periodo bellico, non faceva mancare le prelibatezze . Bastava accontentarsi e non aver conosciuto le mense ricche. Così le castagne al forno che preparava mia madre erano una di queste, assieme ai fichi secchi profumati dall’essenza di alloro di cui si impregnavano  nelle cassapanche  ove venivano conservati. Quelli poi eccezionalmente  farciti con noci e/o mandorle erano il non plus ultra delle leccornie. Così una prelibatezza era scrostare con il cucchiaio la “maracucciata” ,la polenta che rimaneva attaccata alle pareti interne del pentolone di rame in cui si metteva a cuocere sul fuoco nel camino  oppure mangiare quella commista con i “tozzarelli”,  piccoli pezzettini di pane abbrustoliti. Per non parlare delle patate arrostite nella brace che covava sotto la cenere  del focolare, che pulivamo alla buona con le mani e che mangiavamo  con tutte le bucce, che  costituivano la parte più gustosa.Anni dopo, da medico, dovevo apprendere che mangiare cibo commisto con cenere o terra da parte dei bambini poveri del terzo mondo serve, quale contropartita alla denutrizione, come integrazione minerale e che la sporcizia a questi fanciulli oltre a fungere da vaccinazione plurima gratuita li premunisce dalle allergie, di cui invece soffrono di frequente i  bambini superpuliti dei paesi ricchi.
Ricordo allorché frequentavo la seconda elementare che la maestra, una donna bassa, tozza , pettoruta e con un evidente accenno di baffi, spesso e volentieri mi propinava  delle forti bacchettate sulle mani allorché sbagliavo e se le schivavo me le suonava sul corpo. Questa consuetudine di bacchettare anche duramente i bambini nelle scuole elementari al mio paesello è durata fino a qualche lustro fa, proseguendo nella tradizione di Orbilio, il maestro che  Orazio ricorda soprattutto per questo tipo di abitudine. Oggi a questi maestri, qualora fossero sfuggiti al linciaggio da parte dei genitori dei bambini , avrebbero sicuramente comminato l’ergastolo.
Per radio, avvinti, ascoltavamo Mussolini allorché a piazza Venezia arringava le masse oceaniche o pontificava al popolo italico. Ogni volta che rivedo i film luce girati a quei tempi osservo come allora la popolazione fosse magra in paragone a quella delle manifestazioni popolari attuali.

Quando sono preoccupato per l’attuale crisi economica penso alla famiglia di un ciabattino povero durante la guerra, costituita da lui, da 18 figli e dalla moglie che veniva soprannominata “la coniglia” per averli avuti malgrado quattro aborti. Fino alla caduta del fascismo aveva ricevuto il sussidio del governo che incoraggiava la natalità a ogni piè sospinto perché occorrevano figli per “fertilizzare” l’Impero. Dopo l’otto settembre, rimasto senza sussidio, il povero ciabattino allorché i figli sentivano fame e gli andavano a chiedere del cibo diceva loro: “figli miei mangiate me, mangiate me”. Quei ragazzi per sopravvivere si nutrivano dei  fichi d’India che abbondanti crescevano nei dirupi e di erbe di ogni tipo. Ciononostante   tutti  sono sopravvissuti e  si sono  sposati e sistemati. La moglie, di aspetto  portante, morto il marito,  ebbe ancora proposte di matrimonio. 

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