lunedì 2 giugno 2014

Lorenzo Bianco - La scatola rossa

Al terzo rifiuto dovette accettare, la signora del trucco non avrebbe esitato a stuccarle la faccia con quella malta color carne. Dice che in televisione per sembrare naturali bisogna mascherarsi, fingere un po’. Ora capiva perché era stata tanto ferma nel declinare ogni invito per qualsivoglia genere di trasmissione televisiva. Ormai era inutile cercare di tirarsi indietro. Si guardò allo specchio e le mancava il delta delle rughe ai lati degli occhi come fiumi in secca, le strane M che dalla fronte scendevano rincorrendosi fino all’attaccatura del naso, ma più di tutto i segni del sorriso ai lati delle labbra. Nonostante la sua fama di austerità era una donna che aveva riso molto e non si era mai presa troppo sul serio. Un tipo incravattato con l’auricolare le fa segno con la mano “2 minuti!”, allora abbandona il camerino e sbircia lo studio da dietro le quinte. Un viavai di telecamere, alcune automatiche che salgono e scendono da un traliccio inclinato, un pubblico obbediente che applaude al comando di due giovani scalmanati con un berretto ridicolo, schermi giganti, e quella luce irreale da mezzogiorno di fuoco.
Ora il conduttore sta descrivendo a tratti sommari la sua biografia (ma perché, si chiese, perché ti stai facendo questo?) e la presenta:

“…la più letta scrittrice di gialli italiana, alla sua prima apparizione televisiva. Siamo davvero onorati di avere qui con noi… Nora De Amicis!”

Applausi.

Mentre percorre lo studio con passo incerto si chiede se è abbastanza elegante: gonna lunga plissettata blu oltremare, abbinata a un golf bianco ricamato e l’immancabile girocollo di perle. Le manca la mollettina nera che usa di solito per sostenere la frangia, ma la parrucchiera dello studio disse che sarebbe stato un oltraggio rovinare quello splendido caschetto biondo platino. Dato che non è stupida intuisce di essere ridicola e ride di se stessa prima di prendere posto.

Benvenuta.

Buonasera a tutti.

Nora De Amicis!

Mi chiami pure Nora. Si fa prima. (Sorride sistemandosi la gonna)

Nora. Siamo riusciti a vincere la sua leggendaria avversione alle interviste. Per non sbagliare, cosa non vuole assolutamente che le chieda.

(Ride). Può chiedermi quello che vuole, al limite non le rispondo. Le signore della mia età non hanno più segreti interessanti da raccontare. Però, se posso permettermi, lasci perdere il mio cognome perché non sono parente di nessun famoso letterato. E (finge un momento di imbarazzo) non mi chieda delle mie scarpe.

Perché? Cos’hanno le sue scarpe?

Esatto, non hanno nulla. Tacco basso e tozzo, plantare largo. Da ragazza mi sembravano una civetteria garbata, perché ero – insomma -  abbastanza carina. Mi piaceva quel tocco severo. Ora le trovo semplicemente comode per i miei piedi gonfi.

Cosa l’ha convinta ad accettare questa intervista?

Ma… forse l’età. Era un’esperienza che mi mancava. Temevo di sembrare obsoleta continuando a negarmi, mentre sono solo vintage. (ride). Diciamo che mi ha spinto una strana forma di affetto per Alice.

Alice è la protagonista del suo ultimo romanzo…

Sì, certo. E forse sembrerò un po’ stucchevole in quello che sto per dirle, ma è effettivamente così: Alice mi è molto cara, le sono legata come a una vecchia amica, fa parte di me.

Tra l’altro il suo ultimo romanzo è il primo a non essere un giallo. Cosa l’ha spinta a uscire dal genere?

Non sono del tutto d’accordo con lei. Credo che ai lettori non interessino tanto gli assassini quanto gli intrighi e in questo Alice è molto simile alle altre mie eroine. Anche lei si dedica alle investigazioni, ma a quelle della mente.

Allora potremmo definirlo un romanzo rosa esistenzialista…

(Ride). Non direi. Alice alle rose preferisce le spine, le fitte punture dello stelo al profumo del fiore. In questo è anche decisamente autoironica. Non prende troppo sul serio i suoi tormenti. Deve andare avanti. E’ l’imperativo che ha dentro.

Comincia ad annoiarsi. Le domande sono fin troppo prevedibili. Sposta allora lo sguardo fra il pubblico: un ragazzo pare più interessato a chattare sul suo telefonino, molti altri invece la seguono dallo schermo dei cellulari. Da lontano sembrano tante mascherine per dormire, o binocoli. Non resiste e le scappa una battuta.

(dice) Mi sembra di tornare all’eclissi totale del 61.

Come scusi?

Lei non può ricordarselo, sarà stato un bambino all’epoca, o probabilmente non era neanche nato. Per poter guardare quell’incredibile spettacolo della natura bisognava mettersi davanti agli occhi delle lenti affumicate. Anche in questi anni sembra che non si possano più misurare gli eventi semplicemente con il proprio sguardo, ma servano per forza dei supporti. Non ci si fida più della memoria per ricordare, sono necessarie immagini, filmati. Sembra che il nostro cervello non riesca più a fissare il tempo, o perlomeno non abbiamo più fiducia in lui. Naturalmente consiglio a tutti gli spettatori di continuare a guardarmi dallo schermo del telefonino, magari riescono nel miracolo di rendermi accettabile. (sorride).

Lei non ama molto le nuove tecnologie?

Non è che non ami le tecnologie. Le trovo utili e cerco anche di mantenermi moderatamente aggiornata. Non apprezzo come vengono usate.

Cosa ne pensa dei social network?

Li odio.

(Qualcuno fra il pubblico accenna un applauso).

Non usa mezzi termini.

E perché dovrei? Sono una terribile illusione di vicinanza, anche affettiva. Ma ciò che trovo più fastidioso è la spettacolarizzazione del proprio privato in bacheche che sembrano confessionali. Ogni messaggio deve essere pirotecnico per strappare un “mi piace”, quasi fosse una medaglia al valore. Si scrive il romanzo della propria vita senza viverla davvero. E’ solo finzione.

La finzione che entra nel quotidiano non dovrebbe affascinarla?

La finzione (ma in questo caso forse sarebbe meglio parlare di immaginazione) entra continuamente nel quotidiano in modo molto più naturale. L’amore è la massima finzione, crea la stessa euforia di Woodstock, o quella che ha provato il mondo di fronte all’allunaggio nell’estate del ’69. Il sogno sbarca nella meccanicità dei giorni e lascia la propria impronta in quell’abisso che è il nostro inconscio. Non siamo più gli stessi, siamo nuovi. E anche se ci diranno che quell’atterraggio non è realmente avvenuto, che è stato un inganno, che non è possibile l’intervento dello straordinario nell’ordinario, noi sapremo che non è vero, perché avremo dentro di noi quell’impronta indelebile, il passo di un uomo sul nostro terreno lunare. Quella su internet è solo una commedia per disadattati.

Come vive l’amore la protagonista del suo libro?

Intensamente. Come ogni donna. E gli uomini non se la prendano troppo, molti di loro sono sempre più vicini al femminile e alla sua sensibilità, ma sono ancora una minoranza. Alice deve però affrontare il dolore di una perdita. Il suo non è un amore felice. E’ messa di fronte a una scelta e decide di andarsene, ma non voglio rivelare di più sulla trama.

Ci parli della scatola rossa che dà anche il titolo al romanzo?

Potrei prima chiederle qualcosa da bere? In altri salotti televisivi viene offerta la birra agli ospiti. Non chiedo tanto. Mi basta un bicchiere d’acqua.

La birra possiamo offrirgliela anche noi, prego.


(Fra il pubblico c’è un leggero brusio, qualche risata. Il ragazzo con l’auricolare viene per un attimo inquadrato dalle telecamere mentre porge un boccale di birra all’autrice. Nora De Amicis beve un lungo sorso. Il pubblico applaude).

(Sorride dopo essersi passata un fazzoletto sulle labbra).

Ci voleva proprio! Dove eravamo rimasti?

La scatola rossa.

Lei lo sa che le scatole nere degli aeromobili in realtà non sono nere, ma di un arancione molto marcato, quasi rosse?

No, non lo sapevo…

Le scatole nere (per chi è come me poco tecnologico e non lo sapesse) sono dispositivi elettronici che registrano i parametri di volo, le traiettorie, i suoni nella cabina di pilotaggio, in modo tale da facilitare le indagini sulle cause di incidente. Gli investigatori avranno la possibilità di capire cosa è veramente accaduto controllando le registrazioni di questi apparecchi.

Mi spieghi meglio. Non capisco il collegamento.

Anche Alice si trova nella situazione di capire cosa è accaduto nella sua vita dopo il suo “incidente” sentimentale. Vuole capire le ragioni del distacco, cosa l’abbia portata ad allontanarsi e soprattutto prendersi del tempo per gestire il dolore. Così le viene in mente di usare la scatola rossa.


Una scatola di latta utilizzata per conservare i biscotti.

Sì, proprio quella. Mia madre ne aveva una deliziosa, di un verde azzurro chiaro come il cielo all’alba. Perdoni la digressione cromatica. Di fronte ai ricordi si diventa un po’ tutti poetici, o patetici, persino noi zitelle. Ma di biscotti legati a rimembranze qualcuno ha già parlato approfonditamente e molto meglio di me.

La scatola rossa, continui.

Alice si chiede cosa le rimanga di quell’esperienza che l’ha segnata così profondamente. Immagini certo, istantanee della memoria, ma più di tutto parole, quelle che avrebbe voluto dire e che non ha detto, le offese durante le liti prima di lasciarsi, le promesse, i nomi dell’amore (quei nomignoli che si usano per chiamarsi quando ci si vuole davvero bene e non sono esclusività della passione, ma anche delle amicizie sincere). Di fronte al vuoto di un lutto sente che le rimangono solo parole. D’altronde sarebbe forse impossibile ricordare senza una costruzione verbale, le parole collegano i pensieri, elidono, sottolineano, troncano. Il ricordare sembra essere una prerogativa umana, perlomeno il rievocare intenzionale, quel richiamare alla memoria per far rivivere situazioni, persone, sentimenti. Questo perché anche il ricordo ha una sua grammatica, una sua forma, delle regole. Alice scrive per nove mesi. Come il tempo di una gestazione.

Una prerogativa tutta femminile.

No. Non sono d’accordo. Il mettere al mondo non è un privilegio delle donne. Dà alla luce chiunque voglia essere creativo. E’ una missione di chi decide di impegnare del tempo in un progetto ambizioso. Pensi alla parola “parto”.

Nascita, origine, inizio…

Sì ma anche partenza, prima persona singolare del verbo partire. Si ricorda anche per metabolizzare e staccarsi da qualcosa che è cresciuto enormemente dentro di sé e a cui bisogna dare vita. E’ così anche il voler bene, non può restare un’esperienza solitaria e taciuta dentro di sé. Deve esprimersi e diventare altro, un’amicizia, una relazione. Ha bisogno di fregare il tempo.

Fregare il tempo?

Sì, l’essere umano ha bisogno di scommettere, di avere un progetto. La mancanza di progettualità uccide ogni relazione. Se vivo un eterno presente, ma non ho un passato e non penso a un futuro sono inumano. Il tempo diventa un alleato quando non è un inesorabile e indefinito trascorrere, ma quando segna le stagioni, le variazioni dell’esistere, il raggiungimento di una meta, i percorsi.

E qual è il progetto di Alice?

La maturazione di una lontananza. Un’assenza che forse c’era già prima e non se ne era resa conto. Una sedia che era rimasta vuota. E lo fa scrivendo su foglietti di carta i suoi pensieri, dolorosi, incerti, sovrumani a volte, banali anche. Poi li piega e li mette in questa scatola rossa. Lì li sente protetti e al tempo stesso sono rinchiusi. Scriverli e depositarli le consente di affrontare il quotidiano senza rimanere sopraffatta dal dolore.

Una specie di diario.

Forse. Ma il diario è più narrativo. Alice scrive questi biglietti per nove mesi e li custodisce nella scatola di latta rossa. Poi sente che la fonte si è esaurita, ha detto tutto, si è anche ripetuta, qualcosa si è dissolto. Allora apre la scatola e dispiega tutti i biglietti. Li legge e li appende alla parete. Uno di fianco all’altro creano una forma, la sagoma di quell’ “incidente” dentro alla sua anima.

In fin dei conti sembra una specie di bacheca, come quella di facebook, volendo tornare a un discorso precedente.

Lei è particolarmente insistente su questo tema, forse perché vuol farmi apparire irrimediabilmente desueta (sorride).

(Il pubblico che era rimasto a lungo zitto e immobile, o perché interessato al discorso, o perché da tempo assopito, improvvisamente scioglie il silenzio con una breve risata).

(continua) La differenza sostanziale tra la bacheca di Alice e una qualsiasi pagina di facebook è che lo scopo di Alice non è creare una specie di manifesto pubblicitario di se stessa, ogni biglietto perde di importanza se letto singolarmente, non è scritto per suscitare l’interesse o la compiacenza di qualcuno. L’essenziale è nella pienezza della struttura. Una scrittura per stratificazione che frega il tempo facendolo diventare suo alleato.

Scrittura per stratificazione?

Sì, una pennellata dopo l’altra, non avendo ben chiara l’immagine finale, ma con una precisa intuizione, una volontà ben definita. Una determinazione.

E così si “frega” il tempo?

Sì, credo di sì. Io e il tempo ormai abbiamo imparato a sopportarci. Se non puoi sconfiggerlo fattelo amico, come si usa dire. Il tempo che abbiamo è l’unica cosa che è veramente ignota a tutti. Spesso chi pensa di averne molto viene truffato. Il tempo sa essere un gran turlupinatore. Avere un’idea, una vocazione obbliga il tempo a una progettualità che gli è propria, ma spesso non gli è riconosciuta. E ci si allea a lui, senza il terrore di un’opera postuma.

Un’angoscia decisamente letteraria, o artistica.

Si sbaglia di grosso. Dovrebbe essere la preoccupazione di ogni uomo. Rimane ultimo solo chi resta incompleto, non fa il salto verso l’ignoto, verso se stesso e l’altro. Spesso ci si conosce senza comprendersi, ma accade anche il suo contrario.

Grazie Nora, questa più che un’intervista è stata quasi una lezione di vita.

(Ride) E’ finalmente riuscito nell’impresa di farmi sentire in imbarazzo. E’ una sensazione che non provavo da tempo. (Ride fra gli applausi del pubblico). Spero di non aver annoiato nessuno. D’altronde non si faccia l’idea che ciò che le ho detto sia ciò che penso. Non ho grandi certezze sulla vita. Quelli erano i pensieri di Alice, io li ho solo presi in prestito per un po’.

Ci lasci allora con un pensiero tutto suo, personale.

C’è ancora tempo. Per tutto. Per cambiare, per crescere o per tornare indietro. Per incontrarsi, capirsi, scusarsi, comprendersi. Ogni possibilità è ancora aperta, ogni ferita potrà rimarginarsi e essere dimenticata. Lo dico soprattutto a me stessa in maniera scaramantica. (Ride ).

C’è tempo allora.

C’è tempo.

Nora De Amicis!

(Applausi). Grazie a tutti.

Esce lentamente dallo studio e scompare dalla scena.
Il pubblico sta già applaudendo il nuovo ospite.


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