lunedì 2 giugno 2014

Paolo Pergolari - Riflessi di luminosità naturale in continuo spostamento

Eh sì, ne ho vista di gente seduto qui, nella veranda lungo il fiume. Ne ho vista tanta… Fin da allora, fin da quando assieme ai miei vent’anni aspettavo Godot, un Godot qualsiasi, e così bevevo una birretta fresca e intanto guardavo l’acqua scendere a valle, sorniona. Respiravo l’aria umida e, attraverso il fiume, mi gustavo lo spettacolo sotto un cielo azzurro. Un cielo senza nubi sul quale scarabocchiavano le ali delle rondini… E poco dopo ecco che arrivava il vecchio avvocato con il bastone in mano e il Borsalino in testa, nobile, distinto, un gran signore che sempre a quell’ora andava al lavatoio. Discendeva gli scalini di pietra verso il fiume e guardava con soddisfazione la città e, soprattutto, si riempiva gli occhi delle lavandaie con i cesti di biancheria in testa, e si riempiva la vista di Agnese, la più bella, che alzava la gonna e mentre si inginocchiava la gonna le si impigliava sopra le ginocchia, tra le cosce, e al signor avvocato veniva un tuffo al cuore, e Agnese osservava nell’acqua calma il proprio viso e si dondolava e i suoi seni si ergevano come due pani di zucchero, e si aggiustava i capelli neri che continuavano a cadere, e intanto una seconda Agnese si sporgeva invece dal fiume verso il cielo come la donna delle carte piacentine. E poi Agnese prendeva dal cesto una federa o una camicia, si chinava e imbrattava il suo ritratto. E il signor avvocato camminava impettito sull’argine, lungo la riva, e un altro avvocato uguale identico camminava sul fiume con le gambe in su, e quando Agnese lo vedeva lo salutava e lui faceva un inchino e con un movimento si toglieva il Borsalino e nel riflesso del fiume sembrava che attingesse acqua nel fiume.
E intanto io aspettavo quel mio amico, quel mio Godot e un giorno arrivò Pietro, che aveva una faccia butterata come i calzini rammendati male. Ordinava un peroncino e portava la sua enorme pancia al mio tavolo. Pietro, che aveva visto Dio talmente da vicino che si era fatto frate, finché la Chiesa gli disse che il suo modo di amare il prossimo non era regolamentare e gli chiusero ogni comunicazione ufficiale con le gerarchie celesti, e pure il saio gli tolsero perché non stava bene girare con quel vestito in mezzo ai balordi, e nemmeno trascinare i sandali tra la spazzatura umana e poi toccare il culo alle suore e alle mondine… Pietro, che da giovanotto era andato a rubare il miele nel podere di Piccini, e quando stava gustando compiaciuto il bottino, allora non arrivò il fattore, arrivarono le api e Pietro aprì il temperino e tirò di scherma per difendersi, perché quelle api non gli bucassero la faccia, ma Pietro era giovane e inesperto e per difendersi tirò così male che si tagliuzzò la faccia dieci volte di diritto e quindici di rovescio, come se lo avesse torturato la santa Inquisizione.
Così. a mezzogiorno, Pietro arrivava alla veranda e apriva la Bibbia sul tavolo, tra la zuppa di cavoli e un quartino di rosso e borbottava in latino e faceva ridere, ma quando sembrava che potesse predire il futuro, la gente continuò sì a ridere di lui, ma da quel momento senza farsene accorgere.
Un mattino lesse nel futuro la sua morte e forse la mia, così diventammo amici. E mi presentò Irma che viveva con lui, secondo alcuni, mentre altri dicevano che Pietro alloggiava nella pensione sulla tangenziale dove la Berta andava a battere, ma nessuno aveva voglia di sapere, e nemmeno quando se ne andò, perché se ne andò esattamente nel giorno previsto, quando la gente aveva già da tempo smesso di ridere di lui, ed io piansi…
E Pietro mi lasciò Irma che era una gran persona quella puttana, che aveva pregato con tutte le sue forze affinché il cuore di Pietro non lo mollasse, s’era prostrata affinché continuasse a pompare come la pompa dell’aia dov’era nata, quella pompa che aveva tirato su acqua dal pozzo, con quell’acqua con la quale il padre la lavava e le toglieva la terra da ogni buco, perché Irma era pulita ma il padre voleva toglierle la terra lo stesso da ogni buco, da ogni buco dove Irma metteva la terra, perché pensava che dai buchi l’anima avrebbe potuto andarsene e Irma sarebbe rimasta sola, sarebbe morta senza la sua anima.
E, un giorno, uscii con Irma lungo il fiume, camminavo accanto a lei che reggeva la borsa di plastica con l’involto delle cotolette impanate e la bottiglia del vino, perché m’era scappato un… “Che fai domenica?...”
“Niente, boh!, niente di particolare…”
Sicché le avevo detto… “Andiamo lungo il fiume, eh?...”
Il fiume scorreva e s’increspava lungo il viale di eucaliptus che si riflettevano sull’acqua capovolti. Carrozzine colorate sospinte da giovani madri, calzoni e gonne e camicie variopinte formavano un altro fiume di abiti e volti umani e movimenti. Un pescatore, seduto, infilava nell’amo un pesciolino vivo, vivo e lucido come uno specchietto, e il pescatore lo infilava con estrema cura per non romperlo e poi, con un ampio arco, lo lanciava nell’acqua, e un altro pescatore stava seduto nell’acqua, di fronte a lui, come un re di spada…
E così passeggiavo con Irma al fianco, l’avevo presa delicatamente per il gomito e andavamo incontro alla varietà di colori finché arrivammo fino a dove il fiume si divideva in un ramo morto, là il fiumiciattolo scintillava come una perla e si acchetava, e decine di pescatori stavano fermi, con in mano le canne da pesca, vicino ai parapetti, sostavano tutte quelle persone attente solo ai galleggianti, e sull’altro lato del viale si apriva un prato pieno di bambini che giocavano, di panchine e tavoli di legno con madri e nonne, tutte sedevano al sole e offrivano i visi e le spalle, tutte immobili, così che quel prato era un museo all’aperto di figure umane, e poi da quel prato saliva in alto un viottolo a zigzag tra cespugli e chiome d’alberi sopra le quali svettavano pioppi imponenti, e da quella parte c’era più chiasso, c’era l’allegria del giorno di festa, sui lunghi tavoli i vecchi giocavano a carte, si sentiva lo schiocco dei carichi e le risate dei giocatori, e pure qualche bella parolina… Così la collina, da quella parte era in movimento, era cosparsa di persone che si muovevano, che scendevano o salivano su, busti di persone dimezzate dai cespugli o decapitate dai rami degli alberi, e lì finiva il museo ma non l’arte, perché era come in un enorme teatro, come in un film a colori.
E io camminavo con Irma al fianco ed ero felice, anche se qualcuno si girava disgustato dopo averla riconosciuta, ma ero felice perché per la prima volta mi guardavo veramente attorno, per la prima volta toccavo il mondo, e vedevo in che modo vivevano persone uguali a me, persone che forse erano nella mia stessa situazione, che per un momento avevano lasciato a casa guai e patemi, tristezze e passioni, e vivevano la domenica come se non gli fosse successo niente, come se si fossero tolti quei paraocchi di tutti i giorni e vedessero la domenica come un regalo, un bel regalino, e tutto davanti aveva la bellezza di essere come una sorpresa.
Mi meravigliai per come mi accadeva di vedere le cose, le persone, gli alberi così belli, alberi di cui non mi ero mai accorto, non che non ne avessi avuto il tempo, anzi, ma fino a quella domenica avevo camminato come un cieco, e nemmeno come un cieco, ma come uno che sta a guardare dalla finestra solo dentro se stesso, senza mai affacciarsi per il verso giusto, così io avevo visto sempre testardamente solo i miei guai, i miei mugugni, le mie tristezze, e non mi ero mai accorto di quanto sono belli gli alberi, di quanto sono gradevoli i cespugli e tutta la vita che gli sta intorno, l’anima che c’è nelle cose. Anzi, non mi ero mai accorto, se non in quel momento, di quanto fosse molto più bella la vita, e neppure quando ero ragazzo me n’ero accorto. E pensavo che solo una persona mi aveva dato quella possibilità, la persona che procedeva accanto a me, che non aveva bisogno di parole per spiegare, finché mi fermai, le presi una mano e ad Irma dissi… “Grazie.”
E intanto i miei anni crescevano e quel Godot qualsiasi era in ritardo, come sempre d’altronde. E quella volta confessai ad Irma… “Sai, io sono cresciuto qui, vicino all’acqua. Quando andavo a scuola, quando frequentavo le elementari attraversavo il ponte e poi dopo ripassavo sempre per la stessa strada, la scuola non mi piaceva, non vedevo l’ora di uscire, che arrivasse il pomeriggio, e la sera mi spaventava la mattina dopo, perché dovevo ritornare a scuola e intanto non mi accorgevo che la vita m’era iniziata a passare, passava come l’acqua del fiume, perché ogni volta mi fermavo sul ponte e la vedevo quell’acqua passare sotto, e fissavo un punto, una foglia caduta, un bastone e lo seguivo fin dove era possibile e ancora più in là, lo seguivo non con gli occhi ma con la fantasia fino al mare, e io sopravvivevo così… A me piace vedere l’acqua che corre, a me piace questa metafora della vita… E come cambia il tempo anche l’acqua cambia di colore, cambia la superficie a seconda del tempo, e forse anch’io cambio d’umore a seconda del tempo, quando piove sono malinconico e come il fiume ho imparato ad essere taciturno e pensieroso, e guardo il fiume come un innamorato, come una bella ragazza alla quale voglio bene…”
Sicché con Irma avevo preso l’abitudine di fare delle passeggiate lungo il fiume, non solo di domenica ma anche nei giorni feriali. Di pomeriggio l’andavo a prendere al parcheggio dello stadio o dietro la stazione, quando era stanca di quel suo mestiere per il quale, un giorno, m’ero permesso di chiederle perché lo facesse… “Non lo so, non me lo ricordo… Forse per campare, per abitudine adesso… E forse, prima, per i bei vestiti, per farti guardare dalle persone mentre cammini, per leggere nei loro occhi l’invidia, la condanna, la curiosità, lo schifo, a volta anche l’ammirazione… Fai un patto, dici a te stessa che sarà per poco tempo, per qualche mese, un anno al massimo, giusto il tempo di risollevarti un po’ da terra, ma invece a terra ci vai ancora più giù e fai finta di non accorgetene, e così ti adatti, perché le persone si adattano a tutto.”
Ecco, questo mi rispose Irma e un giorno anch’io me ne sono ritornato qua, sul fiume, dove veramente sembra che il tempo si sia fermato. Forse perché anch’io, come diceva Irma, mi sono adattato… Mi sono adattato ad aspettare quel mio Godot qualsiasi, e intanto penso che quando muore una persona giusta, o comunque una persona che deve avere dei giusti meriti in cielo, be’, secondo me la sua anima si trasforma in una colomba, perché sotto forma di colomba è venuta l’annunciazione a Maria con l’arcangelo, e sotto forma di colomba è arrivato agli apostoli il messaggio dello Spirito santo, così come la colomba era nel triangolo di Dio sul libretto del catechismo. Così quando vedo volare le colombe sopra il fiume dico sempre che una di quelle è Irma, che è stata sì una puttana, ma una puttana santa per tutto quello che ha sofferto in agonia.
E negli ultimi giorni della sua vita mi ha guardato in tutto due o tre volte e io non l’avevo mai vista così bella e così piena di luce. E una di quelle volte Irma m’ha detto a fatica, a bassa voce, ma meravigliosamente… “Ti ringrazio…”
E m’ha ringraziato come quella mattina, come mesi prima l’avevo fatto io passeggiando con lei lungo il fiume, e dopo tre giorni Irma è volata via, è volata oltra la sua casa e oltre il fiume, là dove le colombe si liberano del peso della vita, perché ad Irma si era spezzato quel filo che la teneva legata a se stessa.
Eh sì, ne ho vista di gente seduto qui, nella veranda lungo il fiume. Ne ho vista tanta… Fin da allora, fin da quando assieme ai miei vent’anni aspettavo Godot, un Godot qualsiasi, e così bevo una birretta fresca e intanto guardo l’acqua scendere a valle, sorniona. Respiro l’aria umida e, attraverso il fiume, mi gusto lo spettacolo sotto un cielo azzurro. Un cielo senza nubi sul quale scarabocchiano le ali delle rondini. E intanto aspetto quel mio amico, quel mio Godot che non so nemmeno da dove e quando sbucherà fuori.


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