lunedì 2 giugno 2014

Andrea Vecchio - Dieci giorni dopo lo sciogliersi della neve

16 luglio 1988
- Da ora in poi, questo sarà il nostro rifugio, la nostra base. Ci verremo ogni giorno, per rinforzarla e per starci. Non avremo più bisogno di nulla. -
Bernardo indicò il masso, un masso umido e imponente, così grosso che ci avevano, da un paio d’anni, conficcato le radici due grosse robinie. Era lì, appena al di fuori dal sentiero che portava nei campi, al limitare del paese. Gli altri due annuirono, strizzando gli occhi contro il sole che illuminava la piccola radura. Per arrivarci, il sentiero nasceva spontaneo dopo che il poco cemento che costituiva una minuscola strada che usciva dal centro abitato divenisse strada sterrata. Un veloce zig zag tra due orti e poi i prati da fieno.
- Io ci sto, di sicuro. Posso portare del cibo, a casa siamo pieni di scatolette! - rispose agitato Gerardo, gli occhi socchiusi contro il sole che cercavano una via d’uscita per far riferimento al suo interlocutore. Era il più piccolo dei tre ed era il fratello minore di Giovanni,  che dietro di lui fissava attento la stazza imponente di Bernardo.
- Anche per me va bene - finalmente aggiunse il fratello maggiore. -L’unica cosa è l’inverno. Non si può venire qui d’inverno, è tutto coperto di neve e fa freddissimo. D’inverno farei una pausa anche perché tu, Bernardo, sei giù in città, d’inverno -.
- Sì, sono giù in città, ma ciò che conta è l’estate, e sarà un posto solamente nostro. I miei hanno deciso che verremo sempre qui in vacanza, quindi non c’è problema. Però non mi devo far bocciare a scuola. -
Le montagne rivestite di boschi e pietraie, tutt’attorno, scrutavano silenziosamente i tre bambini: un severo e inalterabile pubblico che assisteva disincantato ad un attimo di vitale importanza.
Una volta sancito il patto, pensarono subito ai lavori da intraprendere. Resero più facile l’arrampicata verso la vetta del macigno tramite una corda legata al ramo più robusto di una delle due robinie; a ripulire gli anfratti e le venature della roccia da pietruzze, terra  e ragnatele;  a riparare gran parte della sommità della loro nuova fortezza con una vecchia lamiera ricavata da un pollaio abbandonato che si trovava nelle vicinanze, accuratamente pulita e lucidata. Iniziarono a passare su quel sasso, che chiamavano semplicemente “rifugio”, intere giornate. Anche quelle più umide e malinconiche, durante le quali i ragazzini della loro età si ritrovavano al bar della piazza del villaggio per qualche partita ai videogiochi o semplicemente per trascorrere del tempo insieme, il tempo delle vacanze. Loro tre, invece, non avevano bisogno di amici più grandi o nemici da combattere. Non avevano paura che il passare del tempo potesse rovinare tutto, il tempo non esisteva. Non esistevano le città, non esistevano i compiti delle vacanze, non esistevano i compagni di scuola. Si sentivano invincibili grazie a quella promessa e a quel macigno, piantato lì in mezzo ai campi da chissà quale gigante mitologico.
Sino a metà settembre divenne un luogo indispensabile, per loro. Bernardo non abitava in paese e come ogni anno, appena prima l’inizio dell’anno scolastico, avrebbe dovuto congedarsi dai suoi compagni. Non li avrebbe sentiti né rivisti sino al giugno dell’anno seguente.
Fu così anche l’anno dopo, e quello dopo ancora. Le montagne, attorno, sempre le stesse.

18 marzo 2011
Aveva sempre detestato i bar delle stazioni, soprattutto quelli delle stazioni degli autobus. Ma con quel tempo, quel tugurio era l’unico riparo capace di offrire un qualcosa che sapesse di caffè. Mancava ancora un’ora per incontrare il prossimo cliente, il suo lavoro l’aveva portato tra le montagne vicino a casa, posti che conosceva e rispettava da una vita. Era in anticipo e l’incontro col precedente cliente si era inaspettatamente concluso prima del previsto. Il giorno prima, invece, niente partite: giocava la Nazionale, il campionato era in pausa. Afferrò ugualmente la Gazzetta: calcio ce n’era sempre, pensò. Il caffè arrivò mentre fuori, oltre la vetrata lurida,scolaresche con i cappucci sulla testa, schiamazzanti ed irriverenti nei confronti dell’acquazzone che si stava abbattendo sul piazzale, si accalcavano attorno all’autobus di turno. Si annoiò ben presto di quella Gazzetta senza serie A, ed il caffè doppio che aveva ordinato era rovente. Attese due minuti e decise di dare un’occhiata  al giornale locale: soliti furti e scappatelle. Trovò finalmente il coraggio di accostare la tazza alle labbra quando fu attratto da una foto, al centro della quarta pagina. “Esce di strada a folle velocità: niente da fare per trentaquattrenne” titolava l’articolo.  E poi la foto della vittima, sotto. Non ebbe bisogno di leggere il nome dell’uomo, aveva ben impressa quella smorfia. Scostò la tazza dalle labbra ed afferrò il giornale con entrambe le mani, sudate. “Lascia una giovane moglie e un figlio di appena due anni, lo schianto nella notte tra venerdì e sabato”. Lesse due righe del misero e sgrammaticato articolo e poi tornò subito sulla foto. Giovanni, due anni più giovane di lui. Non era cambiato negli anni, il tempo per lui non si era fatto sentire più di tanto: i capelli corvini , le guance rotonde, l’aria arrogante. Faceva l’operaio e aveva una moglie ed un figlio. Era morto, pensò.  Più sotto, l’articolo, che descriveva minuziosamente la dinamica dell’incidente, terminava con il comunicare la data ed il luogo dei funerali: lunedì 9 marzo alle ore undici nella Chiesa parrocchiale del paese dove Giovanni aveva sempre vissuto, lo stesso paese dove Bernardo aveva passato le vacanze quando era ancora bambino. Quel lunedì 9 marzo, per l’esattezza. Dette un’occhiata ancora al di là della sudicia vetrata, i ragazzi erano scemati sui pullman e la pioggia continuava a battere. Finì il caffè in due sorsate e rimase ancora a contemplare la foto. Mancava ormai mezz’ora all’appuntamento con il cliente, un piccolo notaio della zona, ma non riusciva a pensare ad altro che al suo amico d’infanzia e a come fosse morto. Pensava a cosa avesse fatto in quegli anni, a come stesse crescendo suo figlio. All’ultima volta, un pomeriggio di settembre di ventun anni prima, in cui si erano parlati e salutati come avveniva ogni anno, prima di non rivedersi mai più.
Il paese dove si sarebbero tenuti i funerali era a poco più di un’ora di strada, una strada che conosceva bene anche se non l’aveva mai percorsa guidando: i suoi smisero di affittare la casa di villeggiatura quando lui aveva ancora undici anni. Decise di andare. Una veloce chiamata al suo cliente, che peraltro non sembrava dispiaciuto per il rinvio dell’appuntamento, e lasciate le monete sul tavolino si diresse verso la macchina, sotto la pioggia che iniziava a cessare. Prima di mettere in moto si strinse nel giubbotto frugando nelle tasche alla ricerca di una sigaretta. Fumare era una delle cose che preferiva fare, appena dopo aver preso una decisione importante.
La strada se la ricordava bene. Iniziava placida costeggiando il torrente per poi impennarsi in un susseguo di tornanti. Un altro pianoro, un falsopiano e poi ancora tornanti. Se non ci fossero state le nuvole avrebbe potuto già intravedere le vette delle montagne più alte, che chiudevano la vallata ad anfiteatro. 
Arrivò in paese e decise di non parcheggiare nella piazza principale, quella della chiesa dove si sarebbe tenuto il funerale. Scelse una strada che costeggiava le ultime case del centro abitato, per poi percorrere a piedi la distanza rimanente. Scendendo dalla macchina si guardò intorno. Il rumore dell’acqua invadeva gli spazi, scendendo dalle montagne fredde e umide. Mise le mani in tasca, si strinse nel cappotto e si incamminò verso le campane, che avevano già iniziato a rintoccare. Aveva il timore che qualcuno avrebbe potuto riconoscerlo: ventitré anni sono tanti, e non avrebbe saputo cosa dire. La piazza principale era gremita e tenne lo sguardo basso sul selciato mentre un sole timido cercava, facendosi largo tra i boschi che coprivano le cime più vicine al villaggio, di illuminare quello sperduto angolo di vita. Si avvicinò all’entrata della chiesa, a pochi metri dal porticato, per poter cercare di riconoscere qualcuno degli astanti, almeno Gerardo. E infatti, eccolo. Lo sguardo serio e impettito come sempre, come l’ultima volta che l’aveva incrociato, teneva per mano due bambini  che fremevano di irrequietezza e capricci. Era vestito elegante e la cosa lo fece sorridere: non avrebbe mai immaginato di poterlo vedere vestito con indumenti diversi da un paio di pantaloncini corti sgualciti, una maglietta bianca a righe gialle ed un paio di scarpe da ginnastica con la chiusura in velcro. Lasciò, stando sempre in disparte, defluire anche gli ultimi partecipanti all’interno dell’edificio sino a rimanere da solo. L’ unico rumore era diventato lo scrosciare dell’acqua di una fontanella posta al limitare della piazza, della quale non si era accorto arrivando ma che ora, immersa nel silenzio dell’attesa, vessava l’intero paesaggio.
Si chiese il perché di quella decisione, del partecipare così sommessamente al funerale di una persona che non vedeva da più di due decenni. Si rispose subito dopo. Si accese una sigaretta e, le mani in tasca, si avviò verso il limitare del centro abitato opposto a quello dove aveva lasciato la macchina, che confinava con gli orti e i prati. I passi decisi echeggiarono in vicoli maleodoranti di stallatico e mancanza di sole, sino a raggiungere il punto dove la strada che aveva imboccato diventava sterrata tutto d’un tratto. Imboccò la mulattiera che si districava tra due orti coltivati a fagioli per poi incassarsi ai piedi di un piccolo terrazzamento e riprendere placido la via dei campi da fieno. Sapeva che avrebbe già potuto, impegnandosi ed alzando lo sguardo, scorgere il masso dove tanto tempo fa lui, Gerardo e Giovanni avevano sancito il patto che lui non aveva potuto rispettare, ma aspettò a farlo. Preferì fare le cose poco alla volta, gradualmente. L’erba alta portava ancora i segni dell’inverno:  era schiacciata, pesante, umida, di un colore tra il segaligno ed il verde e si aggrovigliava su se stessa come i capelli di un’anziana, segno che la neve si era sciolta completamente da non più di dieci giorni. Ne rimase incantato: gli orti, i prati, i terrazzamenti,i  campi erano stati letteralmente strappati alla montagna. Non aveva mai fatto caso a quanto lavoro umano ci fosse stato in quel paesaggio, che aveva sempre ritenuto selvaggio ed incontaminato.
Il sasso era lì, appena a sinistra rispetto al sentiero, dopo l’ultimo muretto a secco. Umido, sporco, rozzo. Le venature di quarzo che ne spezzavano l’austerità erano ricoperte di muschio e fanghiglia. Le piante che crescevano ai suoi lati non avevano ancora indossato la livrea estiva e non lo potevano riparare completamente dalle intemperie, come succedeva nei mesi caldi. Era esposto alle angherie ed agli sguardi severi delle cime che dominavano il paesaggio, al gelo dell’inverno e all’indifferenza delle poche persone che durante i mesi più rigidi si avventuravano in direzione della boscaglia.
Tutto ad un tratto si sentì, per la prima volta in vita sua, orgoglioso di tutto quel volgare materialismo che gli stava permettendo di poter vivere quella stessa esistenza. I suoi libri, le cose che aveva studiato, i colloqui di lavoro che aveva sopportato, le macchina che aveva avuto, i commenti  volgari sulle donne, le domeniche allo stadio, il cenare al ristorante. Si strinse ancora di più nella giacca a vento.
Il masso, invece, era in uno stato di completa servitù, dalla quale mai nessuno aveva provato a liberarlo. Nemmeno lui e i suoi due amici, quando lo elessero a rifugio e punto strategico per i loro giochi.
 Non lo sentiva più pulsare, non era più corroborato dalla linfa vitale che pensava l’avrebbe invaso per l’eternità  l’ultima volta che, senza saperlo, lo lasciò prima di tornarsene in città. La morte di Giovanni, alla fine, non fu una scoperta così tanto sconvolgente, per lui.


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