venerdì 8 maggio 2015

Anna Maria Castoldi e Miriam Donati - La mano che tiene la mia

Il 4 giugno 2005 sfilavano quei matti del Gay Pride e noi ci eravamo rifugiate in un bar per far passare la scarmigliata manifestazione che inondava Via Dante, riempiendola di colori, canti e slogan ripetuti con i megafoni. Stavo sorseggiando una coca quando mi accorsi che la mia amica Liviana si era illuminata all’ingresso di un gruppetto variopinto e si era alzata a salutare una ragazza vestita da centauro.
Si volse direttamente a me presentandosi con una stretta sicura: «Piacere, mi chiamo Franca, sono una sua vecchia collega - ammiccando verso Liviana - dei tempi della Croce Bianca, e tu…»
«Io sono Graziella, ciao!»
«Non venite alla manifestazione? Sì, lo so che Liviana non ama schiamazzi, parolacce e tutto il repertorio di questi eventi, però tu Graziella…» Per tutto il tempo della breve conversazione non smisi un attimo di fissarla. Mi sentivo attratta.
Franca, con gli occhi nei miei spegneva le ultime parole sulle labbra. Prese la mia mano come se fossimo vecchie amiche e mi trascinò fuori. L’aria calda d’inizio estate aveva la stessa temperatura delle mie guance. Per la prima volta, vivevo un’avventura imprevista e spensierata. La mano che stringevo dava sicurezza, protezione, e nello stesso tempo mi faceva sentire libera, frizzante e spavalda. Nella corsa persi il laccio che tratteneva i capelli raccolti sulle spalle. Me ne accorsi solo quando Franca accarezzò quell’anemone di mare biondo che si era aperto incorniciandomi il viso; la punta delle dita che scostò i ricci dalla mia fronte, mi fece tremare in un mix di piacere e smarrimento. In quell’attimo intuii la predestinazione in tutto questo, eppure avevo paura, non sono mai stata coraggiosa e comunque non volevo, né potevo, oppormi all’inevitabile.
Vorrei ora la stessa sicurezza di allora. Ho bisogno di sentirla, anche se sarà impegnata in ospedale.

«Cosa c’è?» rispondo con tono secco udendo la voce di Graziella. Sono uscita dalla riunione sotto lo sguardo del primario e dovrò scusarmi. Neppure un ciao le ho detto e mi pento subito. L’ansia che lei possa star male, che questo bambino tanto desiderato possa sparire, condiziona il nostro rapporto. Eppure all’inizio c’eravamo solo noi e il nostro amore. Mi era piaciuta immediatamente, quel giorno, alla manifestazione. Mi aveva conquistato la sua innocenza, come si era affidata, lasciata andare nella stretta della mia mano. Ancora oggi percepisco il contatto tra i nostri palmi: aderivano perfettamente come se avessero capito di aver trovato la pace. Quando torno dal turno di notte la osservo dormire. A causa della gravidanza ha sempre caldo, spesso ha la schiena scoperta e m’incanto a guardarla: così perfetta con il reticolo delle ossa delineate, un ricamo sotto la pelle. Vorrei avere un palmo così grande da contenerla tutta, per proteggerla meglio. Per non svegliarla, m’incollo piano al suo corpo e appoggio la mano sulla pancia per sentire i movimenti del bambino. Provo lo stesso intenso sentimento del giorno in cui ci siamo conosciute, avevo un unico pensiero: “É la madre dei miei figli”.
Scorro svogliata i settimanali posati sul tavolino nella sala d’attesa del laboratorio per gli esami di routine. Cerco di leggere con attenzione un articolo ma non riesco a concentrarmi. Spesso divago, un pensiero porta verso un altro opposto e va sempre più lontano, senza che riesca a focalizzare un argomento e approfondirlo, forse a causa del mio stato oppure è solo un alibi per non preoccuparmi. Dovrei, come ripete Franca, lasciare andare la mente dove vuole, alla fine ti porta sempre alla meta. La vecchietta di fronte a me non smette di guardarmi e sorridere, mi adeguo e subito chiede: «Lei non ha paura? Io non sopporto la vista del sangue».  «No, io no» replico, pensando di aver esaurito l’argomento. Lei prosegue imperterrita e racconta tutti gli acciacchi dell’età avanzata e del figlio che non vede mai, però ha due cagnolini e risolve tutta la Settimana Enigmistica.
Mi appare il viso di Sandro.
Noi volevamo convivere, amarci e avere un figlio. Ci eravamo rivolte all’associazione Arcilesbiche per avere informazioni: tutte portavano all’estero. Non ne eravamo convinte e, contro il parere unanime delle altre, pensavamo che ci volesse un padre per nostro figlio. Chi avrebbe potuto essere il candidato ideale se non Sandro? Gli volevamo bene entrambe: un ragazzo generoso, onesto, tollerante, un buon amico. Era un maniaco della Settimana Enigmistica e questa passione, quasi una fissazione, la riversava anche nell’abitazione, arredata in bianco e nero, geometrica.
«Risolvi questo enigma: come fanno due donne che si amano e che vogliono un figlio a trovare un papà che sia affidabile, disponibile e caro amico?» La domanda a Sandro era stata posta senza tanti preamboli. Ma proprio nel momento in cui lui aveva assentito, ci eravamo guardate e non c’era stato nemmeno bisogno di parlare: troppe incognite anche con lui. Franca era sbottata in una risata liberatoria: «Grazie Sandro! Sei un vero amico ma abbiamo bisogno di pensarci ancora. Se decideremo, tu sarai il primo della lista».
Ida, la vecchietta, si è accorta che non la sto ascoltando e si avvicina; prende la mia mano e chiede se va tutto bene, dice che sono pallida. Sarà la potenza del contatto, degli occhi azzurri velati dalla cataratta e del fatto che è un’estranea, sarà tutto questo… che mi fa sciogliere in un racconto particolareggiato ma sconnesso della mia vita attuale e delle prospettive future?
Chiede sbigottita: «Ma Sandro è il padre e Franca la prima moglie?» Vengo salvata dalla chiamata dell’infermiera.

Questo ragazzo, che ho sedato per l’intervento al femore fratturato, ha gli occhi verde muschio come Graziella. Chissà se Marco, nostro figlio, li avrà uguali? Sono occhi che chiedono, che pretendono risposte, che mi penetrano e che dicono di più della sua bocca. In questi mesi di gravidanza l’ho vista combattere con le sue paure, le stesse di ogni donna incinta, appesantite dalla nostra situazione. Sembra lontano il giorno in cui abbiamo detto ai suoi genitori che ci amavamo. Il padre era sbigottito, senza parole; la madre si era irrigidita e aveva saputo solo dire: «É peccato, non si può, la religione lo vieta» Il tono non permetteva repliche.
Graziella era così ferita che per giorni non aveva voluto parlarne. Si era immersa nel suo lavoro con la scusa di una consegna urgente delle illustrazioni per l’ultimo libro di fiabe. Reagisce sempre chiudendosi quando ha un problema; e io a dirle:” Vedrai passerà, hanno bisogno di tempo. Ricordati quanto ne è servito a noi per accettare di essere omosessuali. Non interrompere i contatti, tu continua a chiamarli, ti vogliono bene e un giorno supereranno tutto questo”.
Invece sono anni che i miei lo sanno. L’ho dichiarato in adolescenza e, a parte qualche tentativo di mia madre per farmi cambiare idea, se ne sono fatti una ragione in fretta. Li ha aiutati anche Wanda, mia sorella, che ha sfornato tre splendidi bambini in pochi anni. Mi ha fatto tenerezza mio padre, quella volta che guardandomi giocare con i nipotini, ha esclamato con tristezza: «Saresti una splendida madre!».
«Ma lo sarò, papà! Voglio dei figli e con la fecondazione sarà possibile anche per me!» ho ribattuto con sicumera. Mi hanno visto felice con Graziella e sono stati sereni fino alla nostra decisione di intraprendere il percorso della fecondazione eterologa.
L’intervento è andato bene, il ragazzo riprenderà judo senza problemi. Per oggi ho finito, fumo una sigaretta per smorzare la tensione, riempio qualche scartoffia e me ne vado a casa.

Un rombo lontano e una scia bianca nel cielo azzurro mi ricordano i viaggi a Valencia.
In aereo sedevo sempre vicino al finestrino così potevo voltare il capo per guardare le nuvole; era il trucco che usavo per riflettere. Ogni volta decollavamo con un carico immenso di speranze e per scaramanzia non parlavamo delle paure che c’erano e chiedevano di essere ascoltate. Avevo telefonato a mio padre prima di partire ed era stato premuroso, però non avevo voluto parlare con mamma per difendermi dalla sua negatività. Da qualche mese avevamo riallacciato dei rapporti civili, sembrava essersi un poco ammorbidita, ma quando avevo fatto un accenno alla fecondazione si era subito alterata. Forse se potesse abbracciare un nipotino in carne ossa le cose cambierebbero.
L’avevo salutato con affetto e prima di chiudere, in un soffio, aveva detto: «Graziella, mi manchi!» «Anche tu, papà». 
L’Instituto Valenciano de Infertilidad, all’avanguardia nell’inseminazione intrauterina, non era ancora riuscito a ottenere l’esito sperato per noi. Quella volta, la quarta, il Professor Piňeiro ci aveva rassicurate e, come sempre, noi ci eravamo aggrappate alle sue parole. Persino Franca, di solito molto razionale, pendeva dalle sue labbra. Mentre attraversavamo in taxi la città, osservavo scorrere veloci i palazzi ai lati della Avenida del Mestre Rodrigo. Notavo colori e contorni così vividi e splendenti da farmi socchiudere gli occhi nonostante gli occhiali scuri: forse erano un presagio della luce che ci attendeva alla fine dell’ennesima sessione di cura. Lo stress accumulato durante i tentativi andati a vuoto e la delusione che era seguita ogni volta, ci avevano destabilizzato, e quindi avevamo deciso che sarebbe stata l’ultima chance che davamo alla nostra possibilità di essere madri. Proprio per questo ci eravamo concesse due giorni supplementari per visitare la città e la spiaggia incontaminata di El Saler. Dopo la mia dimissione, sotto il sole, con l’azzurro del mare davanti e la sabbia dorata a scaldare le reni, ci eravamo impigrite insieme. Mi sentivo tranquilla. Lo sapevo già dentro di me che sarei stata madre, ma non osavo lasciarmi andare a quella sensazione, crederci e dirlo a lei: le speranze sono fragili, se pronunciate si possono disperdere oppure pesare come granito.
Semisdraiata con le spalle appoggiate alla duna, ascoltavo la musica e le voci che si rincorrevano spezzate da cascate di risa di ragazze che, sulla battigia, ballavano inseguendo un ritmo, sole nel proprio movimento. Niente ci disturbava, stavamo bene insieme. La risacca monotona delle onde accompagnava i battiti dei nostri cuori. Guardavo Graziella appoggiata al mio petto quando un borborigmo della mia pancia ci ha fatto ridere. Alle orecchie portava pendenti con pietre azzurre che rimandavano bagliori di sole. Le ho accarezzato il volto. Un dolore acuto, improvviso, mi ha invaso. Niente sarebbe nato da me, solo gorgoglii, suoni cupi, echi di vuoto. Niente sarebbe passato al bambino, mai avrei visto un pezzetto di me in lui. Aveva ragione mia madre che, alla notizia che Graziella avrebbe concepito con ovuli e utero, mi aveva guardato inorridita dicendo: «E tu non conti niente? Che parte avrai tu allora?»  
Non riuscivo a parlare. Oppressa da un senso d’inutilità ho emesso solo un tremolio gutturale, quasi un lamento: «Graziella…»  Non è servito altro. Mi ha maternamente avvolto nelle sue braccia e mi sono sentita al sicuro con lei.

Mentre preparo la cena, preparo me stessa per Franca.
Lei sta attraversando un periodo d’incertezza e solo io posso rassicurarla. Non ha alcuna importanza l’aspetto che avrà Marco. Quello che farà la differenza sarà come noi lo ameremo e lo sosterremo. Non è necessario avere un padre per crescere bene e tanti l’hanno imparato dalla vita. L’affetto va al di là dei geni e del sesso. Noi cresceremo un bambino che imparerà ad amare e a farsi amare, saremo genitori imperfetti come gli altri, ora madre, ora padre.
Stasera avrei voluto festeggiare con una cenetta fatta da me, ma devo arrendermi alla mia incompetenza: la prepareremo insieme.
Noi due unite siamo forti, possiamo sfidare il mondo intero. Abbiamo tanto amore da dare che, anche gli altri, quelli che ci disprezzano o forse temono, dovranno rendersene conto.

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