Quando
si accorse di essere prossima alla fine, affidò le chiavi di casa alla vicina e
chiese di essere portata in ospedale. Pregò, con insistenza, l’autista
dell’ambulanza di guidare oltre la frontiera. Come ricompensa alla sua
inconcepibile stranezza, gli allungò una ventina di talleri di mancia. Chiuse
gli occhi all’imbrunire, alla vigilia di Pasqua, in una camera della medicina
di Cividale. Ma prima pretese, nonostante la giornata fosse stata fredda e
piovosa, che la finestra della stanza
venisse spalancata. Spiegò, con voce sottile, all’infermiera quella seconda curiosa stravaganza. Era suo
desiderio che gli ultimi aliti di vita si esaurissero con la stessa aria che aveva
respirato, quasi novant’anni avanti, distesa sul ventre sgravato di sua madre.
Così,
Giacomina ridiventò italiana pochi
istanti prima di morire.
Perché
lei era nata italiana, nella sua casa di pietra carsica affacciata sulle balze
scoscese dell’Isonzo, in uno di quei tanti paesi di mezzo o di bordo, che sanno
d’impasto precario di persone e di dialetti e che sfumano, imbrogliano, la fredda
geometria dei confini tracciati dai
cartografi sulle mappe. Fino in fondo, sulla soglia dell’addio, Giacomina volle
ribadire la sua identità, restò fedele alle sue origini. E, nella stessa
maniera, tenne per cinquant’anni, cocciutamente, un tricolore imbandierato all’asta
del parafulmine di casa.
Il
casone Zavart, sulla strada per Volzana,
aveva un piano e una soffitta, un cortile di sassi, i serragli delle bestie e
fienili dai tetti spioventi, filari di schioppettino e pignolo sulla costa, un orto
terrazzato strappato alla boscaglia e una manciata di terra aspra, di roccia dura
inginocchiata ai piedi del monte Colovrat.
Giacomina
era nata sul lettone buono del solaio, sul pagliericcio di foglie di granoturco,
una domenica d’ottobre, gelida di tramontana, tra le braccia incerte di sua
nonna e di una levatrice improvvisata
che aveva fatto esercizio nella stalla delle capre. Suo padre lontano, a
scavare carbone nelle miniere.
Da
quella casa non sarebbe più andata via.
Aveva
appena compiuto sei anni, quando sentì i primi rombi bassi dei cannoni venire dalle montagne e si meravigliò di
vedere colonne di soldati e di muli ansimare sui tornanti e sui sentieri. Alla stregua di una fiaba, le raccontarono della guerra. I buoni
da una parte e gli austriaci dall’altra. Vide i carretti abbrunati dei caduti, le
file dei prigionieri e i lampi minacciosi delle mitragliatrici brillare nel
buio delle trincee sulle vette. Come
tutti i bambini, pianse e si spaventò. Ma i suoi ignorarono ogni invito e non
vollero sfollare dal casone Zavart, benché fossero pericolosamente vicini alla
battaglia. Con fermezza decisero di rimanere, preferendo l’azzardo
all’abbandono, e si trovarono, trascinati dagli eventi, in una terra di mezzo,
costretti tra due fuochi, povere anime di periferia segnate dal destino, in balìa
di un assalto coraggioso o di un ardimento estremo che potesse sovvertire,
favorevolmente, le sorti dello scontro. Ben
presto intuirono i primi cedimenti, i ripiegamenti concitati delle linee. Soffrirono
davanti all’esercito in rotta, braccato, in disfatta. Scoprirono sulle strade e
nelle piazze la pomposità delle uniformi austriache e la regale simmetria dell’aquila
cucita sui vessilli ed impressa sui manifesti ufficiali. Capirono di aver
perduto. Si resero conto di essere diventati estranei a casa propria.
Dopo
Caporetto, il casone Zavart finì sulle carte catastali dell’impero, provincia
impronunciabile del Kustenland.
Giacomina
ebbe in odio quella gente e nella sua fantasia li paragonò ad orchi malvagi,
riservò a loro linguacce e smorfie insolenti, non seppe trattenere grida ed
ingenue animosità contro chi rubava impunemente patate dai campi e galline nei
pollai, dimostrò il suo rancore verso chi si era preso la sua terra e aveva
costretto suo padre a lavorare per loro, stagionale del legname, nei boschi
d’abete della lontana Carinzia. Quando, un anno dopo, tornarono i nostri colori
sulle bandiere e l’elastico del confine recuperò la sua legittima posizione,
Giacomina fece festa alla sua maniera: baci, abbracci e un girotondo nel
cortile di casa. Ritrovarono la libertà, vennero tempi di pace e di miseria.
Non
bastò, per tirare avanti, la poca, avara terra degli Zavart. Il nonno consumò i suoi giorni in un
sanatorio sulle Giulie e il padre di Giacomina divise gli anni tra il lavoro di
muratore e le campagne del grano e del riso nelle pianure. Tanti se ne andarono
per sempre, cercando fortuna altrove, e bastimenti carichi di sventurati, con
le valige semivuote di cartone, partirono da Trieste per le Americhe.
Ma
loro rimasero e senza che se ne accorgessero si trovarono davanti agli occhi
un’altra guerra.
Gli sacrificarono
la giovane vita dell’alpino scelto Bruno, fratello di Giacomina, che non
rientrò dalle steppe del fronte orientale, disperso nel fango e nella neve.
Furono
traditi ancora una volta, anzi doppiamente traditi, perché, negli accordi
sporchi delle rese e degli armistizi, i grandi si spartirono certi territori. Non
cedettero, come pegno per l’onta di una sconfitta disonorevole, Venezia o
Milano, ma lasciarono agli slavi una fetta d’Italia sull’Isonzo e quel fiume,
da allora, si chiamò Soca e il casone Zavart finì, ancora una volta, dall’altra
parte.
I
potenti pizzicarono l’elastico ballerino di quella frontiera, fregandosene
della gente che ci viveva da generazioni, e come in un gioco, sciocco e senza
cuore, lo stirarono verso il basso. Giacomina e i suoi pagarono un prezzo
troppo alto per colpe altrui e sentirono sulle spalle il peso mortale della
diversità e l’amaro sapore della nostalgia e dell’abbandono.
Ci
furono antipatiche pressioni sugli italiani rimasti, certe odiose forzature,
confiscarono case e terreni, svuotarono paesi. Vennero, di notte, con i camion
mimetici della milizia e, con brutalità,
portarono intere famiglie al confine, li costrinsero a salire su malinconici treni senza ritorno, per un
esodo calcolato e crudele. Si dimenticarono del piccolo e modesto casone
Zavart, isolato e fuori mano, e delle tre donne che l’abitavano. Misteriosamente,
il padre di Giacomina, non tornò da una stagione di fatica e fece perdere le
sue tracce. Si scusò, due anni dopo la sua scomparsa, con cinque righe stentate
stese da qualcuno, perché lui non sapeva né scrivere né fare di conto.
Spiegò
di aver scelto di vivere con un'altra donna, conosciuta in un bar, e con viltà,
chiese comprensione, infilando, ingenuamente, denari senza peso nella busta
della lettera. Giacomina, con quei soldi, si comprò un pettine e una spazzola
per il bucato.
Giurò,
sulla Vergine, che non avrebbe mai preso marito e sua madre si convinse presto
dell’accaduto, perchè le povere donne di confine hanno sempre uomini lontani e,
da subito, si abituano, nell'ombra, ad essere sole e nell’ombra piangono
rassegnate, soffocano nel buio le loro delusioni, sanno e in silenzio
dimenticano.
Giacomina
rimase italiana nell’anima e non recise mai le sue radici.
La
radio e la televisione, sintonizzate sul giusto canale, per sentirle vicine al
cuore, e i giornali da leggere per non scordarsi la lingua, la cucina della
tradizione da difendere come le processioni di maggio e le feste da osservare;
i ricordi, quelli belli, da conservare come preziosi e l’album delle fotografie
da sfogliare con calma, quando fuori c’è neve, per ridare vita alla memoria. Giacomina
ebbe il tempo di diventare anche slovena. Lo fece al solito modo, trascurando quella
minuzia.
Restò
sola, nella sua casa sull’Isonzo, con
tre gatti e una cagnetta affettuosa. Chi passa adesso, da quelle parti, scorge
il cortile di sassi invaso dai rovi, i serragli senza bestie e i fienili sfiancati, il vigneto incolto, l’orto
soffocato dalla boscaglia e, attorno, terra aspra, di roccia dura lasciata alla
macchia ruvida della montagna.
Ma
sull’asta del parafulmine del casone Zavart, vede sventolare, ancora, uno
straccio di tricolore.
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