Ho
sempre adorato il brusio del caffè che viene su, l’aroma che riempie la stanza.
Mi avvicino al fornello con il cucchiaino, lo giro tintinnando nella moka poi
ne assaggio i bordi amari e bollenti. Il caffè buono si fa in casa, l’ho sempre
pensato e lo credi anche tu. Alzo la caffettiera, lo verso nero e caldo in
bicchieri di vetro. Ogni gesto rompe per un attimo il silenzio, mentre i pensieri
percorrono la cucina e si dissolvono in anelli di fumo. Poso i bicchieri sul tavolo,
tu lo dolcifichi con il fruttosio, io con tre cucchiaini di zucchero, un po’ di
granelli si spargono sulla tela cerata e li raccolgo col dito. Guardo la tua
mano bianca che si avvolge delicatamente al vetro appannato, poi si solleva, ferma.
Mi sorridi. Ti sorrido. Non hai più paura, né fremiti. Sembri un fiume, la
corrente che fluisce e oltrepassa ogni ostacolo. Per un po’ restiamo così,
senza parlare, poi tremi, ma solo per un attimo, ti scosti i capelli e di
sorpresa me lo chiedi:
-
Raccontami quel che non è successo
quel giorno.
Era
da tempo che non riaprivamo quel capitolo sulla nostra mitologia dell’incompiuto.
Volto per un attimo lo sguardo, come se accanto a noi, dietro una parete
trasparente ci fossero altri me e altri te seduti allo stesso tavolo, e poi
noi, ancora noi, moltiplicati più volte, un esercito di ombre, riflesse nello
specchio del tempo. Mi sento un intruso, ma lo sconcerto dura poco. Le figure,
come carte da gioco, tornano a legarsi l’una all’altra e formano di nuovo la
mia e la tua immagine. Ci appartiene anche la vita che non abbiamo vissuto.
-
Ne sei davvero sicuro? – ti chiedo.
-
Sì.
Prendo
un lungo respiro e comincio a raccontare. Non è solo la mia versione dei fatti.
Da qualche parte in qualche luogo tutto questo è veramente avvenuto:
“I treni arrivarono
insieme da città diverse. Le porte si aprirono all’unisono su binari paralleli.
Dopo una pasquetta di pioggia battente, il sole di aprile si rifletteva sulle
banchine che entrambi percorrevamo con la borsa a tracolla raggiungendo
l’uscita. Il punto di incontro era fuori dalla stazione dove, dopo pochi passi
in un atrio anonimo, si scende una scalinata e si spalanca spietata Venezia. Ho
sempre trovato strano che la stazione di un posto dove ti si illumina lo
sguardo prenda il nome da una santa a cui hanno cavato gli occhi, Santa Lucia.
Forse perché quella è l’impressione che ha il viaggiatore prima di ripartire,
come di una cecità improvvisa. Per un attimo pensai che non ti avrei
riconosciuto e ci saremmo confusi tra gli obiettivi sgranati di giapponesi che
seguono un ombrellino e i traghetti che rigano il Canal Grande. Invece eri lì,
in mezzo alla gente, che fumavi nervoso. Era il tempo in cui non ci eravamo mai
visti, ma ci sembrava di conoscerci da sempre. Anche quella fu un’epifania,
dare il volto a una voce, carne alle parole. Dopo un primo tentennamento ci
abbracciammo per sciogliere la tensione. Eravamo due amici che uscivano dal
cerchio magico della comunicazione a distanza scommettendo sulla realtà.
Inutile dire che abbiamo parlato a vuoto i primi minuti, come un motore
ingolfato che cerca di ingranare. Decidemmo di muoverci a piedi, ma prima di
incamminarci abbiamo verificato in tasca di avere i biglietti per il concerto,
perché siamo entrambi ansiosi oltre che ottimi camminatori. Ci siamo
meravigliati dei pochi manifesti appesi in giro con Sinead che indossa un camaglio da combattente rasta. Vent’anni fa
la gente si sarebbe strappata i capelli per sentirla, ora è lei a definirsi la
pazza calva. Intanto abbiamo percorso la Lista di Spagna, traversando il
Cannaregio e continuato per la Strada Nova. Su uno dei tanti ponti ci siamo
fermati ad annusare l’aria che sapeva di sapone e bagnoschiuma proveniente da
un negozio di cosmetici lì vicino. Nei pressi dell’incrocio con il quartiere
ebraico ci siamo seduti al tavolino di un bar che dava sui banchi di frutta e
verdura del mercato. Lì abbiamo ripreso a parlare, questa volta senza incertezze,
come facevamo sempre. Io ti raccontai un’altra volta di come Venezia sia per me
una strana città, il posto dei sogni che non si realizzano, di come da bambino
la immaginavo coi suoi palazzi di cristallo che riflettevano nei canali la luce
dei tramonti. Forse perché l’acqua che la divora non ha la stessa magia dell’acqua
che ho dentro, ti dicevo. Tu mi ascoltavi e poi mi spiegavi che per te era
diverso, che lì ci avevi in parte vissuto ed era un posto pieno di ricordi.
Intanto io mangiavo brioche, tu bevevi birra e fumavi. Ogni tanto ti guardavi
le mani macchiate di nicotina che tremavano ad ogni agitazione del cuore. Il
concerto si teneva al teatro della Fenice, un posto che io non ero mai riuscito
a trovare, come se si incenerisse ogni volta che lo cercavo e poi si
rigenerasse dopo il mio passaggio. Tu eri tranquillo perché sapevi come
arrivarci. La sera ci trovò lì a chiacchierare senza che ci fossimo preoccupati
di fare i turisti, così dovemmo raggiungere il teatro di corsa temendo di fare
tardi. Appena entrati ci sembrò di fare un tuffo nel settecento veneziano tra
stucchi, decorazioni barocche, l’odore di legno laccato e il velluto rosso. Sul
soffitto tra voli di angeli un enorme lampadario incombeva sulla platea. Noi stavamo in alto su un
palchetto laterale ma che sembrava sporgersi come un petalo da una corolla
d’oro e affacciarsi direttamente sul palcoscenico. Eravamo così vicini a lei da
farci pensare che avrebbe cantato solo per noi. Il concerto iniziò con song to
the siren, gli strumenti che sembravano accordarsi armoniosamente con il rumore
del mare. La sua voce non aveva il virtuosismo celestiale di Elizabeth Fraser,
ma l’esperienza del dolore e i sogni infranti di Tim Buckley. Lei un po’
imbolsita, a piedi scalzi, ma la stessa grinta di una volta. Tra i brani
dell’ultimo disco e alcuni classici si inanellavano ricordi, io aspettavo la strappalacrime
nothing compares to you (che arrivò in versione acustica), tu l’epica Troy con
le sue fenici, rinascite e ritorni (che io ascoltai osservando le magnifiche
variazioni di espressione che ti attraversavano il volto). Ma fu un’altra
canzone a toglierci il fiato. Pochi accordi di chitarra, organo Hammond,
pianoforte e quell’inizio: “Ciao, tu non mi conosci…”. Per un attimo abbiamo
galleggiato tra vecchi rosari della nonna e frammenti strappati di fotografie,
tutto ha cominciato a fluttuare. Mentre cantava, lei, la “pazza rasata”,
Giovanna d’Arco di una serata unica, ritrovava sul suo sguardo l’incanto del
cerbiatto e immagini del passato viaggiavano sospese alle sue spalle. Credo che
tutti noi in quel teatro abbiamo per un attimo ritrovato e sentito pulsare la dura
sensazione di sentirsi un rifiuto gettato in un angolo, incompresi, incatenati
ai nostri errori. Sapevo senza guardarti che anche tu stavi piangendo, in uno
spazio raccolto di solitudine irraggiungibile, come una domanda d’amore
irrisolta, perché solo “se amo qualcuno, potrei perderlo”. La via di uscita a
quel dolore insopportabile è nelle parole cantate che danno anche il titolo al
brano: “reason with me”, fermati a parlarne con me. Dio solo sa quanti ponti
abbiamo costruito attraverso la pianura con telefonate interminabili a cercare
di sciogliere nodi, parlare di noi, ridere. Forse avevamo capito tutto senza
saperlo, che di fronte al baratro c’è bisogno di un complice, qualcuno che ti
ascolti e sia testimone della tua voglia di ricominciare e risorgere”.
A
questo punto mi fermo, tu non mi hai mai interrotto. Voglio capire se è una
narrazione condivisa o se è solo una delle mie innumerevoli visioni. Poi mi
rendo conto che non è così importante, perché mi basta guardarti per ricordarmi
di quando avevamo paura e ci ripetevamo “Avanti!” come un mantra di coraggio e di speranza, di come siamo
risorti mille volte come fenici dalle fiamme e abbiamo svolto mille storie, matasse
annodate di tribolazione, a volte intrecciate le une a quelle dell’altro, a
volte no. Non tutte appartengono a entrambi, ma tutte ce le siamo raccontate,
persino quelle che non sono mai avvenute. La nostra amicizia è cresciuta al
telefono. E anche quando abbiamo solo sognato, o siamo tornati da quei sentieri
di vento che portano ovunque e in nessun luogo, ci siamo seduti da qualche
parte, in qualunque posto, a qualunque ora e abbiamo fatto l’unica cosa che
siamo davvero capaci di fare: ci siamo fermati a parlare.
(Il
racconto è stato terminato 35 ore prima del concerto di Sinead ‘O Connor al
Gran Teatro della Fenice di Venezia del 2 aprile 2013. Niente di ciò che vi è
descritto è mai avvenuto. Finora).
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