Lesse l'intero racconto tenendo il fiato sospeso. Adorava
leggere, anzi divorare,
quel genere di racconti
con grande avidità. Parola per
parola ne assaporava sillabe e immagini, dava libero sfogo alla propria immaginazione, ai propri fantasmi. Forse c'era
qualcosa di morboso nella
sua passione
per i racconti del mistero. La sua libreria traboccava di romanzi di Maupassaunt,
Hoffmann, Poe e molti altri. Quella notte aveva appena terminato di leggere Berenice. E aveva ancora
i brividi. Guardato
l'orologio ripose il libro sul comodino, spense la luce e si addormentò.
Sognò di
essere ancora in Inghilterra, dove era andata in vacanza due
anni prima. Sognò la pioggia umida bagnarle i
capelli e la nebbia
offuscarle la vista. Camminava per una strada deserta e
silenziosa. Era da sola ma aveva l' impressione che qualcuno la stesse osservando.
Spiando. Accelerò il passo ma le sue gambe erano affaticate, la pesantezza tipica dei sogni la
avvolgeva, come quando si vorrebbe gridare, ma la voce rimane strozzata in gola. Apparve una vecchia chiesa, prese la
decisione di entrare nonostante l'aspetto poco
rassicurante. Tipico dei sogni. O degli incubi . Lungo il perimetro
della navata centrale erano disposte sei
tavole, tre per lato, ognuna delle quali coperta
da un candido lenzuolo. L'aria era stagnante
e pervasa da un pungente odore d'incenso. Pensò che qualcuno la stesse aspettando. Pensò che quel macabro scenario fosse stato preparato per lei sola. A un tratto da sotto le lenzuola presero corpo delle figure solide,
probabilmente umane. Vide le lenzuola chiazzarsi di rosso. Di sangue.
Adesso sei corpi distesi erano coperti da lenzuola madide di sangue ma
non era possibile
vederne i lineamenti, né costatare
se fossero vivi o morti.
Di fronte l'altare vi era
un'altra tavola.
L'unica vuota. Ebbe l' impulso inspiegabile di sdraiarvisi sopra. Capì che era per lei. Si ricoprì con il lenzuolo e attese al buio. Dalla candida trama intravide la sagoma oscura di un monaco che, uno per uno, scopriva i sei corpi. Avrebbe
voluto alzarsi per vedere di chi fossero, ma sentiva che solo restando coperta era al sicuro. La sua momentanea quiete fu interrotta
da una gelida dolorosa
morsa che le afferrò il polso. Il monaco indossava un guanto
ricoperto di spilli. Sentì che si
conficcavano nella carne. I suoi
sensi erano congelati così come i
suoi pensieri, provava un dolore acuto e non riusciva a divincolarsi.
Si svegliò.
Aveva sete e non ricordava il sogno.
Aveva sete. Si alzò per prendere dell'acqua. I suoi piedi scalzi scivolarono su qualcosa di viscido e caldo. Sangue. Inizialmente non capì che quel sangue fosse suo.
Proveniva dalla sua bocca. Sgorgava caldo,
scendeva sul mento e sul collo, colava per le braccia fino al
pavimento. Fece per correre in bagno a vomitare ma il passaggio era ostruito da una sagoma nera. Il monaco del sogno. Anche lui aveva del sangue sul volto, ma era secco.
Aveva gli occhi infossati, la pelle diafana e le sorrideva. Con i suoi denti.
Si svegliò. Aveva avuto
un sogno nel sogno. Due incubi al prezzo
di uno, pensò. Si tastò la
bocca, i denti c'erano tutti. Aveva sete ma non si
mosse, era troppo stanca e impaurita. Berenice, pensò prima di addormentarsi
di nuovo.
La mattina dopo si svegliò di buon
umore. Aveva dimenticato l' incubo notturno, solo una sensazione di
lieve fastidio
s'impossessava di lei ogni tanto, ma non dava
alcun peso alla cosa. l
sogni si dimenticano durante il giorno, si abbandonano come insistenti logore amanti, la luce del sole scaccia demoni
e fantasmi della mente. Quando calano le tenebre, questi riaffiorano dall' inconscio. Maledettamente reali. Andò in ufficio, dove l'aspettava una riunione col suo capo e altri disegnatori. Illustrava favole per bambini. Una disegnatrice di fate e folletti con la passione per la letteratura dell 'orrore. Potrebbe
apparire strano ma non è forse durante l'infanzia
che abbiamo più paura dei mostri?
Quella notte andò a
dormire presto. Sognò
ancora una volta il monaco nero. Lo sognò per altre quattro notti. Non riposava bene,
aveva paura, era pallida e i suoi occhi erano cerchiati
di nero. La quinta notte chiese a un'amica di restare a
dormire da lei. Forse così
si sarebbe sentita più sicura. Effettivamente riuscì a prendere sonno
con facilità. Fece tuttavia lo stesso
sogno. Eppure stavolta
c'era qualcosa di diverso.
Meccanicamente si muoveva per raggiungere la tavola di
fronte l'altare, dove
si rintanava prima di essere puntualmente afferrata dagli artigli. del monaco. La trovò già occupata, un settimo corpo più minuto degli altri era adagiato e coperto da un lenzuolo bianco.
Vide il lenzuolo macchiarsi
in prossimità di quello che avrebbe dovuto essere il viso. Pensò che forse stavolta si stesse guardando da fuori,
sicuramente sotto quel lenzuolo c'era lei. Tremante scostò il lenzuolo, immaginando che avrebbe trovato
il suo volto orrendamente sfigurato. Si svegliò prima
di accertarsene.
La
stanza era avvolta nel silenzio. Decise di
svegliare l'amica che dormiva accanto a lei per raccontarle la variante del sogno. Parlarne a caldo poteva
aiutarle a esorcizzare la paura. La chiamò ma l'amica non rispondeva, doveva dormire profondamente. Indispettita, la voltò. Inorridì. C'era sangue ovunque ma vedeva nitidamente la bocca sdentata dalla quale colava ancora sangue
scuro.
Erano
passate cinque settimane. Aveva smesso di sognare il monaco oscuro. Ma non di temerlo.
Ormai sognava solo l'amica morta.
Le avevano detto che
il decesso era avvenuto per arresto cardiaco,
non per emorragia. Nessuno trovò i denti. Nessuno li cercò. Si trasferì da un collega col quale aveva una relazione. Era l'unico
che le era stato accanto,
che non sospettava fosse stata lei a sfigurare il cadavere dell'amica, che la
cullava quando la notte si svegliava
urlando e piangendo.
Una sera
decise di mettere in ordine la casa. Stancarsi durante il giorno era l'unico modo per prendere sonno la
notte e dato che non lavorava più, non c'erano molte occasioni per occupare
mente e corpo. Non leggeva più. Le parole le sfuggivano, i suoi occhi scorrevano su sequenze di caratteri che le apparivano
incomprensibili segni grafici danzanti e beffardi. Sistemando la libreria di Ivan, questo era il nome dell'unica persona che
al momento non la riteneva pazza,
scorse dei libri che conosceva bene. Poe, Maupassaunt, Gautier. Non sapeva che Ivan amasse questo genere di letteratura. Immediatamente ripose i libri che stava spolverando e nella fretta uno le cadde di mano. Si
trattava della raccolta di racconti di Edgar Allan Poe. Notò che vi era un segnalibro. Si chiese quale potesse essere il racconto
preferito dal suo uomo.
Raccolse il libro. Quello che vide per poco non le fece perdere i sensi. Incastonato al segnalibro di pelle vi era un dente umano.
Piangendo si
diresse verso l'ingresso. Non volle
fermarsi nemmeno a
prendere le sue cose. Non volle controllare che vi fossero indizi o prove.
Era certa che Ivan si fosse introdotto nel suo appartamento, avesse strappato i denti
all'amica che dormiva accanto a lei quella notte, cinque settimane prima. Non
si soffermò a chiedersi
perché quell'uomo avesse compiuto
un gesto tanto ripugnante, come avesse fatto a introdursi nell'appartamento e poi a fuggire, dal
momento che la porta era sempre stata chiusa dall' interno. In quelle angoscianti sere lei aveva
preso dei tranquillanti, con
ogni probabilità non aveva
sentito alcun rumore, aveva continuato a dormire mentre un maniaco compiva l'orrendo gesto, accanto
a lei. Tutto era chiaro adesso, doveva solo dirlo alla polizia. Ivan era
l'unico che non la considerava una pazza perché
era stato lui a commettere l'omicidio. Lei non aveva mai creduto che la morte fosse avvenuta prima della mutilazione.
Correndo verso la porta sbatté
e cadde a terra. Si scheggiò un dente. Il dolore era sordo e devastante. Provò a rialzarsi, doveva rialzarsi. Intorno a lei era tutto chiazzato di bianco. Faceva
difficoltà a mettere a fuoco e i fiotti di sangue che si riversavano in
gola erano aspri e
stomachevoli. Mentre si aggrappava a fatica alla maniglia
di una porta, vide Ivan seduto sulla poltrona del salotto. Sobbalzò
perché credeva di essere sola.
Aveva gli occhi chiusi e
il capo reclinato da una parte, come se si fosse addormentato. Però sorrideva, come se
fosse sveglio. Doveva
aver capito che il suo segreto era stato scoperto. Sorrideva
perché adesso avrebbe ucciso anche lei. Le
avrebbe strappato i denti, uno per uno.
"Beatrice, rifletti" si disse
tirandosi su. "Forse lui non ha capito che ho trovato il dente, forse
posso ancora fuggire". Ma il suo
pianto dirotto la tradiva. Con lo sguardo calibrò la distanza tra lei e la porta, poteva ancora scappare
senza essere afferrata. Ma perché Ivan
non apriva gli occhi? Lo guardò
per un secondo
che fu sufficiente a notare che il sorriso di Ivan non era un sorriso. Era una smorfia. La bocca era semiaperta. La sua espressione suggeriva dolore e sorpresa. Soprattutto
quella bocca aveva qualcosa di spaventosamente sinistro. Beatrice la
studiò avvicinandosi di qualche
passo. Un fiotto di sangue uscì di colpo dalle labbra dischiuse di Ivan.
Cominciò
a piangere più forte. I singhiozzi le scuotevano il petto, il viso le era diventato una maschera di lacrime, muco e saliva. Ogni rumore le appariva attutito e amplificato al medesimo tempo. I sordi singhiozzi sbattevano contro le pareti dell'appartamento desolato, rimbalzavano nelle sue orecchie stordendola. Doveva chiamare la polizia, doveva controllare che Ivan fosse vivo, doveva
fuggire. Corse a cercare la borsa, doveva trovare il
cellulare e chiamare
aiuto. Invece andò in cucina. Come nel sogno di tanti mesi prima le sue gambe la conducevano
nell' unico posto dove non desiderava andare.
Avanzava lentamente, col volto impietrito, come quando si dirigeva verso l'altare della chiesa del suo
sogno. Con ineluttabile sottomissione. Aprì un cassetto e impugnò un coltello.
Ivan era morto. La testa era riversa, il mento insanguinato. Lei gli accarezzò
i capelli biondi e gli
diede un bacio sulla fronte. Andò in bagno. Il lavandino era sporco
di sangue. Perché?
Anche gli asciugamani Io erano. La sua borsa era abbandonata per terra. C'erano un flacone di sonniferi vuoto e un mantello nero poco più in là. Delle grandi pinze erano poggiate sull'orlo della vasca da bagno. Beatrice
ricordò. Fotogrammi confusi le
confondevano la mente. Poteva
sentire ancora il silenzio squarciato da un urlo sommesso. Poteva vedere
gli occhi supplicanti.
Poteva sentire il rumore agghiacciante di schegge e l'odore
del sangue. Ripercorse con minuzia
ogni istante. Adesso i ricordi erano meno confusi. Più chiari. Più reali. Fu nuovamente investita dall' inerzia dolce
dei suoi sogni. Ancora
una volta non era lei a comandare i propri gesti. Si guardò allo specchio. Inaspettatamente sorrise e una fila
di denti piccoli, bianchi e perfetti
si affacciò tra
le sue labbra pallide. Berenice, pensò ancora una volta osservando quel sorriso non ancora perfetto. Afferrò la pinza, imbrattandosi le mani di sangue. La avvicinò
alla bocca. Doveva fermarsi, prima di farlo ancora. Doveva pagare per quello che aveva fatto.
Nessun commento:
Posta un commento