Guardò
fuori dalla finestra. Splendeva il sole, il
cielo era azzurro e sereno,
piccole nuvole danzavano lentamente. Guardò le case che circondavano il cortile, che la ghermivano come un
uccellino sotto l'ala di un feroce falco. Guardò i panni stesi sotto il sole della
primavera, poteva sentire l'odore di pulito che emanavano anche
a distanza. Poteva
immaginarlo e immaginarne
la consistenza, poteva
sfiorare con le dita la
materna sicurezza di una
tovaglia bianca su una tavola ricca di vivande. Immaginava le macchie di olio, le briciole
di vita, gli schizzi di quotidianità. Un bambino aveva
dimenticato il triciclo all'angolo di un balcone, forse era andato a giocare, forse era diventato troppo grande per quel piccolo mezzo. Magari era cresciuto ed era andato via, in
cerca di lavoro o di chissà cosa. Cosa si cerca quando si fugge via, ammesso che si cerchi qualcosa? Lei cosa aveva cercato?
Sugo della domenica e detersivo.
Il cortile era ordinato e pulito, le foglie sradicate erano state spazzate, le automobili erano disposte esattamente
all'interno del perimetro prestabilito. Eppure la vista di quel
cortiletto le dava una nausea fastidiosa. Cristiano le aveva detto che magari, vista
la poca distanza che
separava fra loro i balconi, avrebbe potuto scorgere
un tranquillo pensionato che faceva la moglie a pezzettini,
curvo su un sacco nero
ne nascondeva i resti e poi usciva a prendere il caffè. Oppure, senza farsi
scoprire, avrebbe potuto spiare la signora del quarto piano dare un bacio furtivo al proprio amante, accompagnarlo alla porta col trucco che si scioglieva assieme al cuore. Insomma potevano fare gli allegri
guardoni e spiare quell'umanità inconsapevole,
sporca e pulita, cogliere
istantanee di vita altrui.
Probabilmente
Cristiano cercava di farla ridere, ma spesso il
risultato non era quello sperato.
Lei
guardava il triciclo abbandonato, le sembrava un
orribile sacrilegio il fatto che fosse stato abbandonato così. Non si abbandonano le cose care, pensava, non si scappa via.
Lei era scappata, per salvarsi, come pensava
sempre per giustificarsi con se stessa. Per imparare a guidare la macchina nel traffico o per sbattere
per strada contro
passanti distratti e sconosciuti. Aveva portato via con sé vestiti, libri e dischi. Aveva
appeso stampe e quadri seguendo una scoraggiante disposizione
mancante di coerenza e simmetria
tali da apparire persino
studiata. Aveva messo le sue piante in
vasi nuovi, più grandi. Crescevano rigogliose
anche sotto un sole diverso. Aveva fatto
attenzione a non danneggiarne le radici. Sbocciavano bellissimi fiori colorati che oltraggiavano la
vista con i
loro lussureggianti colori, ne contava di nuovi ogni mattina. Le sue piante avevano messo nuove radici, più
forti e si erano adattate. Le sue piante si prendevano gioco di lei.
Aveva portato con sé effetti personali utili e inutili, tuttavia rimaneva il sospetto di
aver dimenticato qualcosa. Se stessa, come le suggeriva opportunamente Cristiano.
"Il dentifricio." rispondeva lei.
Preparava
la cena tenendo la finestra chiusa, il
circondario non avrebbe potuto godere
delle deliziose esalazioni provenienti
dalla sua cucina. A stento lei salutava in ascensore,
figurarsi.
"La cena
è talmente buona che vuoi rimanga su tende e divani
per sempre?"
Con un sorrisetto sarcastico
Cristiano le porse una rosa. Gialla, come
piacevano a lei. Rose macchiate di sole. Aveva degli scatoloni in mano, disse
che dopo cena li
avrebbe sistemati,
contenevano libri di poesie che aveva
letto da ragazzo, glieli
aveva spediti la madre. Perché loro due non facevano mai
ritorno al paese di provenienza. Nell'eventualità avrebbero potuto prendere fuoco, iniziare a parlare lingue estinte al
contrario, insomma potevano
accadere eventi inaspettati e spiacevolissimi. Questo era quello che lei
credeva.
Non tornavano
nemmeno per aver voglia di riandarsene.
"Sto
dimenticandomi me stessa."
aveva esordito mentre lui
assaggiava il sugo.
"L'importante
è che non dimentichi di
mettere lo zucchero nella salsa." Rispose lui ingoiando pensieroso. Lui era così incredibilmente
razionale, un vergine ascendente sagittario con i fiocchi,
docente di storia al liceo, con la sua giacca di velluto marrone e la sigaretta
tra le dita. Anche lei teneva una sigaretta tra le sottili dita, ma
non era una donna razionale.
"Potresti appendere la patente sopra il comodino, così ogni mattina ricorderesti
chi sei, comunque non guidi, almeno ne fai un uso proficuo. Certo se poi dimentichi i tuoi dati anagrafici anche durante il giorno occorre trovare un'altra
soluzione . . . ". Lui
era anche così incredibilmente
irritante.
"Cristiano" lo interruppe lei "Potrei
aver messo il cianuro nella salsa."
"Leggevi
queste poesie quando andavi al liceo?"
Cristiano
riponeva in ordine alfabetico i
volumi negli scaffali
già stracolmi.
"Si e poi uscivo nel cuore della notte
e cantavo serenate di fortuna sotto le finestre delle mie amanti. Erano
bionde e gentili."
"Io
non sono gentile?"
''Tu sei
gentile solo quando sei felice."
Ordinavano
e catalogavano come due generali che preparano un esercito alla
guerra, metodici e ordinati, perché Cristiano voleva così. Tanti anni fa non possedevano scaffali, non possedevano nemmeno una casa
di loro proprietà, bevevano cioccolate calde e caffè cornetti
in bar con le vetrate sporche. Cristiano
aveva i capelli lunghi, era
meno pignolo e meticoloso, le dava piccoli baci
vicino i lobi delle orecchie. Le aveva promesso che sarebbero andati via da quel cemento che ti consuma e ti logora, che non ti offre
alcuna possibilità per il futuro e che sarebbero stati felici. La promessa si rivelò
vera solo in parte.
"Perché insegni storia se ti piaceva tanto la poesia? Anche la tua tesi era su un poeta, chi era, Saba? Perché non sono felice?" chiese tutto d'un fiato e mantenendo
inalterato il tono di voce.
Cristiano
aveva capito da un po' di tempo che
le mancava qualcosa. Avevano un bell'appartamento,
non grandissimo ma grazioso, l'aveva arredato lei, avevano un'automobile per non sentirsi poveri ma
erano restii a utilizzarla,
avevano un frigorifero pieno
e si trovavano nella parte del mondo giusta. Ma non erano a . casa. Quella mattina era morto
un suo collega, aveva
trentasette anni, un grande neo sul collo e aveva lasciato il gas aperto dai fornelli. Era sbadato. Ed era infelice. Si era trasferito in città molti anni prima,
quand'era uno studente; Cristiano condivideva con lui il vizio del fumo e la passione per la musica jazz. La cosa l'aveva reso molto triste ma non era
riuscito a parlarne con la sua donna.
"Pasolini non va dopo Sylvia Plath." Lei stava riponendo i libri alla rinfusa.
"Ma
Pasolini non lo leggi mai… " Cristiano la fissò. Perché avrebbe dovuto
guastare quel piccolo sorriso biondo infantile con i propri
tristi pensieri?
"Potrei ricominciare a leggerlo da stasera" annunciò.
Sfogliando le pagine consumate ritrovò asterischi e sottolineature, ritrovò
i suoi vent'anni e il piccolo paese da cui provenivano, nel quale non facevano
ritorno da molti anni ormai. Forse anche lui aveva dimenticato il dentifricio e doveva andarlo
a prendere.
Purtroppo
nessun vicino aveva atteggiamenti omicidi
sospetti su cui fantasticare e la signora del quarto piano
sembrava fedele al marito.
"Ricordi
le sere d'estate, le
birre tracannate sulle panchine in
piazzetta, i discorsi sulla politica..."
"No,
ma ricordo la piccola
bruna che ti mangiava con gli
occhi mentre facevi discordi da Che
Guevara..."
Cristiano sapeva che in realtà anche lei ricordava, lo capiva da come fissava le maledette piante. Lei non aveva dimenticato le proprie radici, anzi era proprio dal suo cuore che partivano, per questo le faceva male.
"Insegno
storia perché era l'unica cattedra a disposizione e perché la storia è più clemente. Un susseguirsi di vinti e vincitori, evoluzione ed involuzione. La poesia, invece,
ti fa fare i conti con i tuoi fantasmi, ti smaschera."
"Fammi vedere" incalzò lei.
Cristiano sorrise. Uscì dalla camera e tornò poco dopo con un taccuino in mano.
"Era nello scatolone" disse
e, dopo averlo aperto, cominciò a leggere:
Ed io
non ricordo più chi sono.
Allora di
morire un poco
mi dispiace.
Di morire
mi pare troppo ingiusto.
Anche
se non ricordo più
chi sono.
"Sandro Penna?" chiese lei.
Cristiano annuì. Lui ricordava perfettamente chi era. Era un ventenne con degli ideali, non possedeva una macchina perché non poteva permettersela ed era innamorato di una ragazza magra e dal
volto imbronciato, Viola.
"Viola" le disse "stamattina un mio collega si è tolto la vita. Non si sa perché l'abbia fatto. Questa cosa mi ha fatto parecchia impressione."
Lei si alzò e andò immediatamente ad abbracciarlo. Lui si lasciò cullare, poggiandole il capo sul petto. Era da mesi che non si
stringevano così, l'uno all'altra.
"Ricordi
la villa dove ci siamo
dati il primo bacio, quindici anni fa?
Ricordi le rose gialle tutto intorno? Ricordi?"
Lei non disse nulla. Ne sentiva l'odore di quelle rose bagnate di sole.
La
signora del quarto piano versava del vino rosso in un calice di vetro. Forse
aveva davvero un
amante. Forse dovevano tornare a casa, forse la panchina sulla quale si
erano scambiati il primo bacio era ancora lì.
"Solo
per qualche giorno" disse lei. Cristiano mosse il capo su e giù annuendo,
ancora tra le sue braccia, pensando che quelle esili braccia bianche erano la sua casa, ovunque si fosse
trovato. Ora, assieme, erano abbastanza forti da far ritorno. O troppo fragili.
"Dovrai
trovare qualcuno che badi alle
piante..." le suggerì.
Viola
pensò alle radici che tengono in vita le piante, succhiano il nutrimento della terra e alla terra sono ancorate.
Anche loro avevano delle
radici, ancorate a chilometri di distanza e inaspettatamente forti.
Sentiva il peso di quella fuga,
di quell'abbandono, come se a essere stata abbandonata
fosse stata lei stessa.
"Andiamo
per restare o per riandarcene?" le chiese Cristiano.
Ma lei non era una pianta, aveva radici ma voleva essere libera di andare.
"Andiamo"
rispose semplicemente.
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