domenica 29 maggio 2016

Patrizia Braghiroli - Non hai visto ancora niente

Per quante ore avevo dormito?
Girandomi verso il comodino, avevo afferrato il cellulare e visto sul display  una serie di asterischi. Avevo provato a spegnerlo e riaccenderlo, a scuoterlo, ma lo schermo era annerito del tutto. Non intendevo lasciarmi innervosire da quel guasto imprevisto, e avevo deciso che me se ne sarei occupata nel pomeriggio.  
Dagli scuri accostati filtrava un raggio di luce costellato da un pulviscolo dorato in lento movimento. Con un gesto rapido avevo spalancato la finestra e spinto le ante: il mare, intravisto fuggevolmente quando avevo parcheggiato l’automobile e scaricato i bagagli, si allargava a perdita d’occhio nella sua perfezione turchese.                                                                             
Immediatamente l’impulso irrefrenabile di immergermi, galleggiare e diventare una sola cosa con l’acqua, si era impadronito di me.
La valigia aperta stava sul pavimento, accanto al letto. Frugando tra gli abiti, avevo individuato il costume da bagno e un prendisole di lino bianco. Avevo quindi buttato nel borsone un asciugamano, la crema solare, e mi ero affrettata ad uscire incamminandomi verso la spiaggia.
Avevo notato con un certo stupore che in giro non c’era nessuno e non si udiva alcun rumore. Il silenzio era però a tratti interrotto da un suono tintinnante e, seguendo la crescente intensità di quelle note per rintracciarne la provenienza, mi ero trovata di fronte al bungalow della reception. Mentre me ne stavo in attesa davanti al bancone dell’ufficio deserto, il tintinnio era ripreso. Scrutando l’interno, avevo scorto sul fondo della stanza, accanto alla finestra, una sorta di trespolo con appeso un sonaglio a vento, formato da sottili bastoncini metallici. Il suono era ammaliante, quasi ipnotico, e avevo avvertito un forte stordimento che sembrava annullare ogni mia percezione.                                          Riscuotendomi da quello strano torpore, avevo osservato un particolare che suscitava in me perplessità: sulla parete di fronte al bancone era collocato il pannello che conteneva in ordine numerico le chiavi degli alloggi, ma risultava vuoto solo lo spazio occupato da quella del mio monolocale. Eppure ero certa di avere incrociato all’arrivo numerose persone che scaricavano i bagagli. Si dovevano forse riconsegnare le chiavi ad ogni uscita?                 
Lasciando l’ufficio, il mio sguardo aveva ancora vagato a trecentosessanta gradi  in cerca di un essere umano. Congetture assurde stavano prendendo forma nella mia mente, ma avevo deciso di riprendere il percorso verso la spiaggia, cercando di ignorare la sottile inquietudine che si era insinuata in me.   
Dopo aver sceso una gradinata formata da pietroni irregolari, avevo seguito un sentiero tra i pini marittimi, che svettavano imponenti e rassicuranti. Respirando a fondo il profumo di resina mischiato a quello della salsedine, mi ero lasciata pervadere dall’entusiasmo quasi infantile dell’imminente incontro con il mare.
Alla fine del percorso, il mio sguardo aveva abbracciato l’intera estensione della distesa d’acqua: le sfumature di colore, dal verde all’azzurro, si proponevano in una nuova variante dove la linea dell’orizzonte tracciava il confine d’inizio del cielo, perfettamente terso. Avevo accelerato il passo, avvertendo la sabbia morbida sotto i piedi, e mi ero seduta in estatica contemplazione. Poco alla volta il  respiro si era sincronizzato con il ritmo della risacca e la mia mente si era placata. 
Trascorso qualche minuto, un rumore mi aveva fatto trasalire. Avevo voltato la testa, emergendo a fatica da quella dimensione meditativa, e nel mio campo visivo si era materializzato un uomo. Mentre avanzava, avevo notato stretta nella sua mano destra una valigia di cartone: ad ogni movimento urtava la sua gamba, producendo il rumore che aveva attratto la mia attenzione. Giunto ad un passo da me, si era bloccato scrutando a lungo il mare, poi aveva posato la valigia e si era seduto a gambe incrociate.    
Era la prima persona che irrompeva in quella mattina di solitudine misteriosa e compatta, occasione concreta per avviare una conversazione, ma non riuscivo a fare altro che osservare ogni dettaglio del suo aspetto. Indossava un paio di jeans tagliati sopra al ginocchio e una maglietta bianca con la scritta Lifeguard. Poteva avere all’incirca quarant’anni, era molto alto e abbronzato. I capelli neri, mossi dalla brezza leggera, gli sfioravano le spalle, e con un gesto rapido li aveva legati raccogliendoli sulla sommità del capo. Quando si era girato verso di me, avevo incontrato i suoi occhi dal taglio orientale, supponendo per questo che fosse straniero.
<Riesci a sentire le parole del mare?> mi aveva chiesto all’improvviso.
La domanda inattesa, così particolare, mi aveva colta alla sprovvista, tanto che mi ero sentita in imbarazzo, e lo avevo fissato continuando a tacere.
< Eppure so che per te rappresenta qualcosa di speciale. Sei qui per questo motivo in fondo, per consacrare davanti ad esso un nuovo inizio.>
Dopo quelle parole, mi ero sentita disorientata. Annaspavo, cercando nella mia mente appigli razionali che potessero motivare la sua strana affermazione e un approccio tanto insolito.
< Perché mi dici queste cose? Chi sei?> gli avevo domandato cercando di dissimulare il mio disagio.
Invece di rispondere, lo sconosciuto aveva cominciato ad armeggiare con i ganci della valigia e, dopo averla aperta, ne aveva estratto un voluminoso album da disegno, alcune matite e dei sassi bianchi. Quindi aveva sollevato l’album mostrandomi la copertina. Al centro c’era una scritta: La  Storia.
<Sfoglialo > mi aveva detto porgendomelo.
Con l’album posato sulle gambe, avevo cominciato a girare le pagine. Mi ero subito soffermata ad ammirare il primo disegno, una gigantesca conchiglia a forma di spirale che occupava tutto il foglio. Mentre ne percorrevo affascinata il perimetro con il dito, lui mi aveva sorriso.
<Bella, vero? È un’ammonite, un mollusco estinto milioni di anni fa.
Possiamo dire che tutto il mondo allora era energia dirompente in costante evoluzione, una sorta di armonia pura non ancora contaminata dalle azioni dell’uomo. Per questo viva, piena di potere e magia.>
Ascoltando le sue parole, mi ero chiesta se fosse un pazzo, oppure un artista dai pensieri molto eccentrici.
<Sei un illustratore?> avevo chiesto.
<Più che altro osservo l’esistenza e ne fisso alcuni particolari salienti. E’ il mio compito.>
C’era qualcosa in lui che mi spiazzava, perciò avevo preferito tornare a sfogliare le pagine concentrandomi sulle immagini, che sembravano seguire un ordine  cronologico in cui avevo iniziato ad orientarmi. I disegni, tutti rigorosamente in bianco e nero, ritraevano scene che risultavano accomunate dal medesimo filo conduttore. C’erano schiavi frustati durante la costruzione di una piramide, soldati romani riversi su un campo di battaglia, cavalieri medievali che si protendevano con le spade sguainate nell’atto di attaccare: potevo riconoscere il susseguirsi delle varie epoche storiche esaminando le fogge degli abiti e delle armature. Ma in una successiva immagine avevo scorto un ammasso di corpi nudi dentro ad una fossa, perciò mi ero girata verso di lui con aria interrogativa.
<Ebrei trucidati ad Auschwitz> aveva risposto in tono severo. <Guarda questa adesso.>
C’erano uomini e donne, addossati ad un muro ricoperto di graffiti, che tentavano di arrampicarsi aiutandosi l’un l’altro. Alcuni brandivano martelli o picconi, e lo stavano demolendo.
<Muro di Berlino, forse?> avevo azzardato.
<Sì, brava. L’uomo divide, uccide. Mi chiedo perché la pace e la libertà debbano passare attraverso l’esperienza della guerra e della violenza per essere apprezzate. Confini da difendere, religioni per esercitare il potere sugli altri. Dio ha molti nomi, ma  una sola essenza, e non ha nulla a che vedere con la soppressione della vita.>
<E questa?> gli avevo chiesto indicando un altro disegno in cui c’erano corpi accatastati in uno spazio angusto.
<Cadaveri nella stiva di un barcone recuperato al largo di Lampedusa, uno dei tanti. Questa è La storia. Ma anche tu sei La storia, con le tue scelte, le tue azioni. Che bilancio puoi fare della tua esistenza?>
Avevo abbassato il capo, avvertendo un’ inquietudine crescente e il forte impulso di fuggire.
<Aspetta> mi aveva detto scegliendo uno dei sassi bianchi che aveva tolto dalla  valigia. <Prendilo, è per te> e me lo aveva appoggiato sul palmo. Quindi si era allungato verso l’album e, sfogliandolo velocemente, mi aveva indicato l’ultima immagine: c’era una donna seduta sulla sabbia, con un braccio teso verso il mare e un sasso bianco posato sul palmo. Con stupore avevo riconosciuto le mie sembianze e mi ero sentita sconcertata, incapace di comprendere cosa stesse accadendo.
<Ecco, adesso chiudi gli occhi. Puoi sentire l’anima della terra pulsare dentro la pietra? È una parte dell’energia dell’universo. Anche tu le appartieni, ed ora puoi ricongiungerti ad essa.>
<Cosa sta succedendo?> avevo gridato con la voce incrinata lasciando cadere il sasso.
<Alzati> mi aveva ordinato tendendomi la mano.
Stringendola con titubanza, mi ero messa in piedi e avevo iniziato a camminare con lui sulla spiaggia per un lungo tratto, piangendo sommessamente.
<Ora voltati, guarda a terra> aveva detto.
Girandomi avevo scrutato la sabbia, e mi ero accorta che i nostri piedi non avevano lasciato alcuna impronta.
<E questo cosa significa? Sto sognando, vero?> avevo chiesto allarmata, continuando ad osservare con stupore l’assenza di tracce sulla battigia.
<Bentornata a casa> aveva risposto. <Prima sognavi, dormivi. Ora sei sveglia.>  Poi, trascinandomi verso il mare, si era fermato un istante mettendosi dietro le mie spalle, e mi aveva coperto gli occhi con le mani.
<Non hai visto ancora niente> mi aveva sussurrato. <Ma ti stupirai, e sarà bellissimo. Tutto comincia adesso.>   
Asciugandomi le lacrime, mi ero lasciata condurre fra le onde. Quando l’acqua stava per sommergermi, avevo lasciato la sua mano, e mi ero abbandonata all’abbraccio del mare cominciando a galleggiare. Mentre il sole, come un diamante abbacinante incastonato nell’azzurro, pervadeva il mio sguardo, mi ero sentiva di nuovo afferrare la mano. Facendo ruotare il mio corpo, avevo infilato la testa sott’acqua e ci eravamo inabissati.
Guizzando velocissimi in quella dimensione liquida, avevo sentito la nostra essenza fondersi. Tutto era moto incessante, tra meraviglie acquatiche e respiri di corallo. E noi soltanto anime blu, in una discesa senza limiti, verso il fondo che non avremmo mai incontrato. Perché l’infinito abita chi lo cerca.

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