martedì 19 aprile 2016

Stefano Ficagna - Melanoceto

Guardando le luci del quadro comandi N. pensava all’albero di Natale. Non ad uno qualsiasi, bensì quello specifico della casa dei suoi genitori, coi festoni e le piccole luci multicolori a candela, un ricordo d’infanzia sbiadito come una foto ingiallita e che sembrava ben più distante nel tempo di quei vent’anni che erano passati da quando s’era impresso nella sua memoria. Pensava ai regali, al fuoco nel caminetto, ai dissapori fra parenti seppelliti per un pranzo od una cena ma che, come le braci scoppiettanti sotto le ceneri alla fine di una serata invernale, ardevano nascosti sottintendendo ogni gesto di quei rancori illusoriamente accantonati. Illusioni, come quelle con cui N. cercava di riempirsi la testa guardando fuori dalle vetrate e chiedendosi senza uno scopo preciso, a meno che non fosse non averne uno lo scopo, quanto fosse profondo il mare, solo per celare a sé stesso gli abissi della propria inquietudine. Le luci, quelle all’interno e quelle dei fari che scandagliavano le volute di oscurità del fondale marino, erano fonti di distrazione ambigue, capaci di portare la sua mente altrove ed allo stesso tempo focus delle preoccupazioni laceranti del presente, quelle che altri sensi esclusa la vista cercavano di inculcare in un cervello che chiedeva, per pietà, di poter dimenticare.
Ma poteva durare quell’effimera pace, turbata dagli scricchiolii che N. sentiva provenire dallo scafo attorno a sé, sempre più forti man mano che il tempo passava? Gli occhi potevano far finta di non vedere, ma l’olfatto acuto portava intatto e nauseante l’olezzo di sudore ed urina che emanava dal grosso compagno di bordo (Oscar? Miguel? Non ricordava), riportandogli alla mente la sua postura scomposta, rattrappito e con la frangia nerissima ed ingellata che gli copriva maldestramente un occhio, posa con la quale aveva posto fine alla macabra danza di morte che il cuore, cedendo, lo aveva costretto a rappresentare per quello sparuto pubblico di una sola persona.
Perlomeno questo odore non farà in tempo a peggiorare, pensò N. in un fugace momento di lucidità. La putrefazione, quando arriverà alle sue espressioni peggiori, non mi troverà più testimone del disfacimento. Asfissia e pressione, ecco i due fantasmi che aleggiavano sull’unico occupante ancora in vita del piccolo scafo adagiato nelle profondità dei mari del sud, privo di un tesoro leggendario al suo interno tale da giustificarne la presenza imperitura nella memoria collettiva, se non per i secoli a venire almeno per qualche mese o settimana. N. si era fatto tentare, in un impeto di spirito avventuroso a lui così poco congeniale, dalla proposta di un tour operator locale riguardante l’esplorazione dei fondali marini in acque già famose per battaglie piratesche, tesori perduti e sparizioni misteriose. Troppo timido per lasciarsi andare alle tentazioni del turismo sessuale, troppo vecchio (o almeno, poco oltre la soglia dei trenta, così si sentiva) per sprecare le sue giornate con un cocktail in mano avviluppato dal ritmo della musica caraibica, troppo delicato d’epidermide per fidarsi ad affrontare il sole impietoso sulle bianche spiagge affollate di turisti, il richiamo delle profondità marine era suonato come un ultimo appello per quel lato inquieto del suo carattere che lo aveva spinto, solitario, a partire per la sua prima, vera vacanza. L’esplorazione dei fondali era un’ancora salda a cui poteva aggrapparsi per giustificare almeno momentaneamente quella meta scelta d’impulso ed allontanare i rimorsi, un ormeggio privo, nonostante la scalcinata aria di pressapochismo ispirata dai componenti della “società” a cui si stava affidando, di quell’aura di destino manifesto che, come una vera ancora, aveva finito invece per trascinarlo a fondo.
Erano partiti intorno a metà mattina, lui ed Oscar o Miguel, adagiati in mare a bordo di una capsula obsoleta a forma di pesce da un argano arrugginito, anch’esso memore di tempi migliori. Mentre la sua guida, ciarliera ed affabile nel suo inglese comunque stentato, gli mostrava pesci e coralli che mal giustificavano l’esborso, la capsula si inabissava sempre più, spinta a velocità risibili  da motori la cui scarsa potenza non lasciava presagire esplorazioni troppo approfondite. Fu mentre adocchiava annoiato e deluso fuori da un oblò, masticando amaro la pillola al sapore di fregatura che i tre ispanici gli avevano somministrato, che avvenne l’incidente. N. udì uno schianto, poi un fioco lamento che giungeva dall’esterno, ben presto coperto dalle urla in spagnolo della sua guida. Mentre, dimentico dei comandi, Oscar (o Miguel) si faceva incessantemente il segno della croce con una mano e teneva con l’altra la catenina d’oro che gli pendeva dal collo baciandone, con minime soste per farfugliare le parole di una preghiera, l’effigie seminascosta lì attaccata, il suo corpo ingombrante fu scosso improvvisamente da movimenti convulsi, un braccio ora intento solamente ad artigliarsi il petto, fino a terminare sul pavimento, immobile ma ancora in grado, forse, di chiedersi prima di spirare a cosa fossero valse quelle incessanti preghiere e tutta quella oceanica fede. E mentre questo caotico succedersi di eventi si compiva N. rimaneva immobile a fissare l’ispanico sacramentare, danzare ed infine spegnersi, muovendosi per accertarsi dell’inevitabile conclusione solo a giochi fatti, come uno spettatore esterno a cui era mancata la prontezza di rendersi protagonista ed a cui era stata negata, oltretutto, la soddisfazione di vedere la mistriosa causa di tutto quel frenetico e mortale agitarsi.
Tanto non fu subitanea la presa di coscienza di ciò che si stava svolgendo di fronte ai suoi occhi quanto non lo fu, inevitabilmente, l’accettazione dell’accaduto. Steso a terra, ancora in cerca dell’alito vitale che naso e bocca del cadaverico compagno sembravano ostinarsi a nascondere, N. pensò irrazionalmente di essere al centro di una candid camera di dubbio gusto. Mentre la capsula proseguiva il suo viaggio senza guida lungo il solo asse verticale, i motori morti per avaria od errore umano, lui continuava a mostrare un insistito diniego verso quanto la realtà si ostinava a propinare ai suoi sensi scombussolati, trincerandosi dietro fantasiose speranze e pensieri distanti. Era un atteggiamento studiato, pianificato ed elaborato sempre meglio con gli anni, fin da quando un amico in cerca di aiuto non lo aveva fatto sprofondare, testimone diretto e partecipe, nei meandri della dipendenza da alcool: ne erano usciti vincitori, lui soccorritore e l’altro soccorso, ma per tutto quel problematico periodo N. aveva sempre sperato di esser vittima di uno scherzo, di potersi fare una risata di quelle pene improvvisamente esorcizzate anche se a scapito dell’amor proprio, così incline a non farci accettare beffe alle nostre spalle. Il traumatico adagiarsi della capsula abbandonata a sé stessa sul fondale coincise con l’ultimo sussulto che la sua mente ebbe riguardo la propria sorte, ovvero un affannoso esame del quadro comandi alla ricerca di un modo per mandare un SOS, per risparmiare energia, per avere più tempo ed ossigeno: ma scervellarsi invano fra bottoni e levette, terrorizzato all’idea di fare la mossa sbagliata in una partita a scacchi che metteva in palio la sua sopravivenza, non lo portò ad altro che all’estraniazione da quanto lo circondava.
Ritornato conscio grazie al suo naso ed alle tutt’altro che piacevoli elucubrazioni riguardanti la putrefazione, N. non poteva comunque far altro che piangersi addosso od agire, ed una vita intera passata a sfuggire ad ogni responsabilità lo avevano addestrato solo alla prima opzione. Si ricordò di un libro, letto anni prima, in cui uno dei protagonisti veniva paragonato a quei pesci abissali che, abituati a pressioni fortissime e costanti, non potevano ormai vivere prive di esse. Cosa ci faccio io qui, si chiese tristemente, così lontano dal mio habitat naturale, senza poter fuggire o chiedere aiuto? La possibilità di accorciare una vita comunque segnata da un destino apparentemente ineluttabile era un’eventualità capace di bloccarlo, e la vergogna per questa sua mancanza d’iniziativa  spegneva sul nascere ogni speranza di una salvezza esterna, che fosse per miracolo divino od intervento umano, quasi che la sua mente girasse in loop attorno alla frase “non meriti di vivere”. Solo un pensiero, pian piano, riuscì a rasserenarlo: la consapevolezza che, una volta morto, avrebbe trovato quella pace che anelava, giacché non credeva all’inferno, men che meno ad uno che puniva oltremodo gli accidiosi come lui. Aggrappandosi a quel pensiero, come prima si era affidato ad immagini e ricordi lontani da quell’abisso per estraniarsi, riuscì a trovare una parvenza di serenità, ad accettare mollemente il suo destino arrivando persino a giustificare le proprie mancanze in virtù di una predestinazione, un movente superiore che lo aveva portato lì, in quel momento, a morire solo. Tanto anelava ormai la pace dei sensi che si spinse ad invidiare il cadavere lì vicino, che lo aveva lasciato indietro arrivando prima di lui alla meta come tanti altri avevano fatto in tutti quegli ambiti dove N. si era ritrovato a lottare per un po’ di considerazione: amore, sport, lavoro, hobby, non aveva fatto altro che arrendersi alla sua inadeguatezza in ogni campo...ora, perlomeno, non sarebbe più stato costretto a competere, a giocare il proprio ruolo in una battaglia eterna con l’ego che vive in ognuno di noi.
Fu proprio in quel momento, mentre un sorriso stanco si faceva strada sulle sue labbra, che si avvide di alcune luci in movimento.
Non era forse normale attendersi, anche da operatori così palesemente improvvisati, un minimo di sicurezza? Una spia rossa, lampeggiante alla sinistra del quadro comandi, era un segno che N. non era riuscito a decifrare e che indicava come qualcuno lassù, se non proprio lo amava, perlomeno aveva interesse a portarlo a casa sano e salvo e ad evitare beghe legali. Con gli occhi sgranati vide un uomo con una pesante tuta da palombaro fissare un grosso cavo alla sua capsula e, dopo interminabili minuti, sentì questa muoversi nuovamente, trascinata verso la vita ora che di quella vita non sapeva più che farsene. Si accorse di aver voluto farla finita da anni ma senza il coraggio necessario ad agire, ed ora che poteva abbandonarsi alla morte senza dover fare niente lo trascinavano a forza fuori dal baratro.

Ora che la pressione calava si sentiva veramente schiacciare; poteva di nuovo respirare a pieni polmoni, eppure si sentiva soffocare; non era più prigioniero, e sentiva invece stringerglisi attorno le strette sbarre della sua supposta libertà: poiché sapeva che si sarebbe invischiato nuovamente in mille cose da fare proprio ora che s’era votato anima e corpo al semplice aspettare, all’immobilità che era insita nella sua natura. Guardò da un oblò le oscurità marine che scomparivano, invidiando al mare la profondità che lui non aveva. 

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