martedì 26 aprile 2016

Nicolina Ros – Solo in mezzo al mare

     La prua della “Santa Cruz” fende la calma delle onde nere dell’oceano. Spira un vento lieve, senza affanni. Lo aspiro a pieni polmoni per ricavarne energia, per familiarizzare con l’odore del mare, così estraneo per me! Odore di salso, odore di pesce.  Dopo una settimana mi sta ancora appiccicato addosso. Lo percepisco tra le trame degli abiti, nei pori della pelle, tra i capelli che quest’aria appena mi scompone, tentando di portarselo via.
     Dietro la nave, sulla scia schiumosa, gioca l’argento che cade dalla luna, si confonde in essa, si dissolve piano, inghiottito in fondo al nero oceano della notte. La terra s’indovina appena dai punti luminosi sempre più piccolini, sempre più incerti.
     La nave, salpata dal porto di Genova, ha come prima tappa Dakar. Appena partito la tentazione di abbandonare l’impegno assunto, scendere e tornarmene a casa è stata violenta. Mi sono sentito in trappola ma oramai non c’era più possibilità di ovviare alla mia indecisione se non buttandomi a mare, ma neppure nuotare so fare bene.
     “Che ci vado a fare io, innamorato della terra mia, in America? Voglio tornare a casa! Indietro, indietro tutta...” ecco la realtà che mi aggredisce. Trascino i piedi lungo la scala che dal finestrone del secondo ponte porta giù al terzo.
     Il terzo ponte è il confino dei poveracci come me che ancora credono, o forse è più giusto dire che confidano nella realizzazione d’un futuro benigno dentro il proprio vivere, per far restare il presente con un palmo di naso. E perché poi non dovrebbe andare così? Intanto è chiaro che si va sotto. Al secondo ponte stanno i benestanti; al primo i ricchi e qui, è altrettanto chiaro che si va su!
     Ci sono otto cuccette nelle nostre camerate: quattro per ogni parete di legno che le separa. Un corridoio centrale tra di esse, giusto lo spazio per mettere giù le gambe. Non ci sono oblò, anche se stiamo sopra il pelo dell’acqua. Siamo gli ultimi a mangiare: prima vengono serviti i signori. Il più delle volte ci viene passato quello che essi avanzano.
     Insomma, tutto normale in terra, in mare...  confido nel cielo.  
    Le giornate sfilano lente rinchiusi come topi, insieme ai topi della stiva. Nelle sere, meravigliose musiche arrivano dai saloni del primo livello, le note solcano la nave, le inseguo. Mi è sempre piaciuta la musica, veramente tanto. Me la cavo anche con qualche passo di danza, imparato a suon di ripetizioni che la bella del paese, elargiva con grande serietà a noi giovanotti duri come i manici delle scope.  
     Di nascosto m’intrufolo nel salone delle feste. Gli addetti se ne accorgono, mi ‘accompagnano’ fuori. Sono feste private alle quali vi possono accedere solo gli invitati.     Nello spazio angusto della cuccetta non riesco a rilassarmi. Il sonno non arriva a dar tregua al mio spirito che fino ad ora nessuno è riuscito a imbrigliare, né a sciogliere gli interrogativi che lo agitano.
     Mi concedo due abbondanti sorsi di grappa, direttamente dalla bottiglia. L’alcool morde la gola, calma l’ansia di piangere e urlare, solo in mezzo al mare, desideroso solo di scivolare nel sonno per dimenticare.

     «Perché non parti anche tu con mio fratello? Avresti lavoro assicurato, pagato in dollari!» aveva detto Remigio alla partenza di fra’ Feliciano, per il collegio dei francescani di Padova, aperto da due anni a Florida in Uruguay.
    «Hanno bisogno di un giovane volonteroso e sano,  che prepari blocchi per ampliarlo e accudisca alle mucche» aveva aggiunto.
    A ventisette anni, che posso dire della mia situazione occupazionale ed economica: catastrofica? Non posso vantare un mestiere vero e proprio. Fino ad ora mi sono arrangiato a fare un po’ di tutto contentandomi di sbarcare il lunario.
     Fra’ Feliciano è convincente e la sua proposta mi stuzzica. Poi la allontano, non voglio lasciarmi coinvolgere.
Non ho un lavoro fisso, dignitoso. Questa la nuda e cruda verità, che la proposta evidenzia.
     “Parto! Al diavolo i ripensamenti!” concludo e l’attimo successivo mi coglie il panico...
     “No, non parto! Non ce la farò mai a stare senza Anna!”
     Mi sveglio in un bagno di sudore. Invano tento di riemergere dal vortice nauseante nel quale mi dibatto. A fatica butto lo sguardo intorno. Non sono il solo in tale guaio. Qualcuno vomita anche l’anima. Qualcun altro prega. C’è chi si tiene la testa stretta tra le mani a limitare il movimento che i flutti impazziti imprimono alla nave. Chi ha le dita ficcate nelle orecchie nel tentativo di allontanare lo sconquasso al quale le sottopongono. Un conato violento mi assale, rivoltando lo stomaco tra fitte più maligne di un’ulcera perforante. Con un lamento impotente ricado all’indietro.
Che mi venga un colpo a me e a chi mi ha convinto a partire! 
     In quel marasma ricerco in fondo agli occhi serrati il volto di Anna, davanti alla corriera. Lo sguardo umido di lacrime, cancellate dalla piccola mano prima che il loro rotolare per le guance, le palesasse. Finalmente il mare si placa, con esso anche l’infame malessere e seppur spossato, il cielo tornato limpido un po’ di fiducia, devo dire che me la ridona. Quando è così ci è concesso di uscire fuori coperta, stando separati dai signori del primo ponte, si capisce!
     Abbiamo superato lo stretto di Gibilterra e fatto l’unico scalo a Dakar.
    Poi l’Atlantico, l’oceano.
     È l’ultima settimana di un viaggio che mi pare eterno. Non vedo l’ora di sentire la terra salda sotto i piedi. Non avrei mai potuto campare facendo il marinaio io! Sono agitato, senza far niente tutto il giorno, la mente si lascia ingarbugliare dai pensieri, pur che cerco di nutrirli di speranza.
     Penso a cosa troverò al collegio, mi adatterò? Come farò a vivere sradicato dalle mie abitudini, dalla mia terra, dai miei amici, da Anna?...
     Ecco che già mi serpeggia uno strano malessere che seppure mi pare presto definire nostalgia, gli assomiglia molto e sporca la speranza. Per credere nelle mie potenzialità e, per tutte le intenzioni che ho nel cuore..., in fondo non è che starò via per sempre!
     Già me lo sono prefissato prima di partire, che cioè se non va, tornerò indietro.
    
     Com’è nero l’oceano di notte... è nero anche quando il cielo è un luccicar di stelle, che sembra ricamato come gli abiti da sera delle signore. Mi spaventa.
È lo spuntar del giorno, davanti al finestrone del secondo piano della Santa Cruz, aspetto...
     Aspetto che proprio laddove l’acqua si mistura al cielo rendendo l’orizzonte incerto, il sole venga su a indorarlo. Quale sorpresa mi coglie al focalizzare corpi enormi, flessuosi. Corpi lucidi e potenti che saltano a fianco della nave, come ad accompagnarla nell’andare: un branco di delfini!
     Il movimento? Danza. Il canto? Musica. Si rincorrono, si alternano in balzi poderosi e agili che sfiniscono nel riflesso del sole provocando spruzzi alti, iridescenti. Riemergono e, in una serie ininterrotta di sequenze danno vita ad un gioco suggestivo.
     Agito le mani a salutarli:
     «Siete belli!» urlo estasiato. E... ho la convinzione che lo apprezzino, che mi odano, che mi capiscano poiché mi concedono il bis. Poi s’inabissano. Ogni mattina, fino all’arrivo a destinazione, corro su per incontrarli. Pare che seguano la nave, che aspettino quell’ora incantata per esibirsi. Ed ecco che addirittura li riconosco: qualcuno per il suono che esprime nel canto, qualcun altro per il salto nel quale si produce. 
     Siamo in prossimità del porto di Montevideo, l’alba sbiadisce le stelle. Salgo, a salutarli. Voglio ringraziarli per avermi donato attimi di pace con le loro danze, le loro grida che paiono canti...
     «Basta poesie! È ora di affrontare la realtà!» mi ammonisco. Ci sono due fraticelli ad attendermi allo sbarco, avvolti in sai neri.  Sono venuti a prendermi con un camioncino sgangherato. Con gesti veloci tra lo strusciare delle lunghe vesti, caricano il mio baule. Io, le due valigie. Non ho modo di spaziare lo sguardo sul paesaggio. Loro zitti, io zitto.
     Arriviamo al collegio, che è buio pesto.
     Il Superiore mi riceve. Mi assegna una cameretta provvisoria, mi mette in mano un crocifisso:  «Che il Signore ti benedica, ne avrai bisogno! Da domani puoi cominciare a fare il tuo lavoro» dice. Eppure non so perché, nella sua voce c’è una vena come dire? Sibillina!  Forse sono solo stanco, nonché deluso e affamato. 
     “Che ti aspettavi?” mi chiedo d’istinto: “Che ti ricevessero con una tavola imbandita? Sarai l’uomo di fatica per il collegio è giusto che da subito tu ti metta in riga, che capisca bene quale sarà il tuo ruolo.
     Nel silenzio tiro fuori dalla tasca, la foto della nave comprata a memoria della traversata oceanica.  Seduto sul letto scrivo un po’ davanti e un po’ dietro: 
     “27 Agosto 1950. La ‘Santa Cruz’, questa nave vecchia mi ha portato in Uruguay. Un mese di viaggio. W DIO”.
     Così cominciò la mia storia di bastonate, catene e dolore, prima riconquistare, dopo 57 anni, la gioia di tornare al mio paese!     

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