venerdì 28 giugno 2019

Stefano Ficagna - Una leggerezza

L'unica cosa certa, in tutta questa storia, è che mentre lui inizia a disegnare lei non tira neanche un fiato.
Il suo ruolo negli avvenimenti fu accettato con leggerezza, la stessa che ostentavano i sei fazzoletti di lino bianco che stringeva in mano. Una tassa d'entrata inusuale, un vezzo di eleganza di dubbia utilità in luoghi dove ogni movimento costa sudore. Il sole in quel villaggio sembra camminare al tuo fianco, ma il suo abbraccio non è per niente benevolo. Soffoca.
Dei fazzoletti ricamati, a pochi passi dalla giungla, rappresentano una bellezza effimera. Un esotismo al contrario, laddove esotico è qualunque simbolo di lande che forse non vedremo mai.
La regione intera era un miraggio prima che potesse vederla coi suoi occhi. Ciò che gli veniva raccontato di quei luoghi era tanto inverosimile da provocare una reazione consolidata sul suo volto: il sopracciglio sinistro arricciato verso il basso; quello destro, una linea retta verso l'alto, come un accento; la fronte increspata di rughe.
E gli occhi, tanto fissi quanto distanti, persi in chissà quale ragionamento. Partecipare alla spedizione era stata una sfida, ai propri limiti fisici certo ma non di meno a quelli della propria mente.
Voleva vedere, toccare con mano. Come un novello San Tommaso necessitava dei sensi per credere a un mondo diverso da quello in cui era cresciuto. Innumerevoli viaggi non lo avevano abituato alla varietà del creato, perché gli agi della propria ricchezza gli facevano da schermo.
La curiosità di entrare finalmente in contatto con qualcosa di autentico lo spinse ad agire. L'espressione corrucciata, quella distanza fra la linea dello sguardo e l'effettivo orizzonte che i suoi occhi vedevano, furono stigmate che non lo abbandonarono nemmeno in quella terra dove l'impossibile appariva reale.
E a chi gli promise di mostrargli qualcosa di cui non sospettava l'esistenza, un atto al quale nemmeno calpestare quella terra e respirare l'aria pesante e umida lo avevano preparato, egli riservò leggerezza e incredulità in egual misura.

Camminarono a lungo, un piccolo drappello scelto. Eterogeneo e insolito, dagli abiti al colore della pelle finanche all'età. Lui si lasciava guidare, ogni tanto gettava un'occhiata distratta al tributo che andava recando, ma i suoi occhi si fissavano oltre. Incapaci di fissarsi sul presente, cercavano segni di qualcosa di là da venire.
Risposte, a domande nemmeno troppo chiare nella sua testa.
Arrivarono al villaggio successivo accolti da una deferenza eccessiva, solitamente riservata solo a ospiti importanti o temuti. A quale categoria appartenesse il drappello lo testimoniavano piccoli dettagli. Occhi rivolti verso il basso, sorrisi incerti, piccoli tremori delle mani.
Abituati alla crudeltà, gli abitanti del villaggio associano l'uomo bianco alla paura. Il suo arrivo getta sempre un'ombra sugli eventi, e al tramonto la si può vedere che si allunga dai loro piedi, assumendo le più svariate forme. Una nave che solca il mare, un ammasso di catene.
E una montagna di mani tagliate, che hanno smesso per sempre di tremare.
La paura era il minimo comune denominatore che legava i due gruppi, e sfuggivano alle sue grinfie solo i più forti e gli innocenti. O chi, come l'uomo che si avvicinò al capo villaggio, era presente col corpo ma non con lo spirito.
Guardarono la sua ombra, ma il sole era allo zenit ed essa ristagnava neutra sotto di lui. Ci si poteva aspettare qualunque cosa, ma egli recava con sé un dono e per il capo villaggio quello era un buon presagio.
Il dono avanzò. Sembrava leggera quanto il lino di cui erano composti i fazzoletti con cui era stata scambiata, o forse era l'innocenza dei suoi dieci anni a renderla tale. Non tremò di fronte agli uomini a cui veniva ceduta, nemmeno al cospetto di colui che l'aveva comprata.
Ma alla voce di quest'ultimo, alla sua richiesta espressa in una lingua che masticava a malapena, un sospiro le sfuggì dalle labbra.

La sacralità di ciò che sta per accadere è rotta solo da pochi rumori, coltelli che vengono affilati, una matita che corre veloce sul foglio. Per la tribù tutto questo non è una novità, ma sentono che oggi qualcosa di diverso permea l'aria.
Forse lo sente anche la ragazza, legata a un albero e come arresa al suo destino. Gli occhi fissano qualcosa di indefinito, ma quando un uomo le si avvicina con la lama al fianco non riesce a impedirsi di guardare.
Due rapidi tagli al ventre, due strisce rosse che si allargano. Il sangue le cola lungo il corpo, ma il dolore non trova sfogo sulle sue labbra serrate.
Intanto l'uomo bianco osserva, mantenendo quell'espressione incredula sempre fissa sul volto. Distoglie lo sguardo solo per girare un foglio, ricominciare a disegnare, tratteggiare ogni dettaglio di quello strazio.
Gli uomini della tribù continuano ad affilare i coltelli. La cerimonia è solo all'inizio, ma la ragazza non ne vedrà la fine. Ogni minuto che passa gli occhi sono meno lucidi, le gambe meno salde, eppure continua a non emettere un lamento.
Sembra formarsi un legame fra lei e l'uomo che l'ha condannata a quel supplizio. Forse c'è un motivo per tanta crudeltà, e il suo martirio è anche estasi. Cosa vede? È ancora il nostro mondo che osserva?
E lui, quanto è consapevole del suo ruolo negli eventi? La sua leggerezza nel cercare prove di una pratica che non credeva vera gli fa orrore, oppure è insensibile di fronte al male? Quella goccia che scorre veloce dalla sua tempia al mento, spazzata via con un veloce gesto della mano, potrebbe essere sofferenza fisica quanto dell'animo, ma sul volto non appaiono moti di pentimento.
Quando la ragazza muore, lui continua a disegnare. Anche quando iniziano a farla a pezzi la sua matita corre veloce sul foglio, tratteggia una lama calata sul braccio, le viscere calde estratte dal ventre, l'acqua che monda le lame una volta finito il massacro.
Forse è stato davvero un momento sacro. Gli uomini della tribù renderanno onore alla vittima divorandone le carni, e l'uomo bianco potrà convincersi che il suo ruolo nella vicenda era scritto nel libro del destino. Che non esistono martiri senza un carnefice, e per ogni santo ci sono un uomo o una donna che ne hanno permesso l'ascensione, non meno degni di beatitudine.
O forse un demone si è rivelato al mondo, e non si è nemmeno riconosciuto.

(Ispirato alla vera storia del Jameson Affair, vicenda accaduta nel 1886 durante la sanguinosa occupazione del Congo da parte di Re Leopoldo II del Belgio)

Sergio Gallo - La cripta sommersa

Discorso intorno alla fine di due pesci rossi nella cripta della chiesa di San Francesco a Ravenna

- Ma vuoi che mi venga l'esoftalmo? L'idropisia, l'ulcera, la malattia del cotone? - disse Gemella d'un tratto, esasperata. - Che mi uccida a forza di testate contro il muro o per una cronica infiammazione mi metta a nuotare per sempre a sghimbescio o a pancia all'aria? Che per esaurimento mi si sfrangino la pinne, mi crescano i barbigli? - Esichio la guardò in silenzio, con aria interrogativa - Mi farai diventare pazza con le tue questioni e le tue continue lamentele! - aggiunse lei, aumentando il carico se ancora ce ne fosse bisogno.
- Beh ma prima o poi dovremo affrontarla, la fine: basta che l'acqua qui dentro per qualche ragione si prosciughi o drasticamente cambi la temperatura... e noi saremmo fritti! - dopo un po' fece lui. - Beh quando questo accadrà lo affronteremo! Ma fino ad ora la sorgiva si è sempre mantenuta costante - precisò lei - E poi, lo dovresti sapere, i bipedi dalle pinne lunghe, quelli che vivono nel mondo ultracqueo e che ci danno anche il cibo per sopravvivere, ripristineranno la situazione e ci sostituiranno con altri pesci della nostra stessa specie. Altri uguali a noi continueranno quello che abbiamo sempre portato avanti, tramanderanno quello che abbiamo imparato in milioni di anni e quello che abbiamo appreso di questa cripta, nella quale fino a oggi bene o male abbiamo vissuto. Anche loro saranno simili ad antichi zeloti, eredi dei custodi del vescovo Neone, che i bipedi venerano per aver fondato questo luogo sacro. Anche loro saranno “virgulto di sapienza” e orgoglio di tutti i pesci rossi! Quindi basta con questa tua ansia apocalittica! -.
- Ti ricordo cara che i bipedi credono che i pesci rossi non abbiano memoria! - puntualizzò Esichio. - Beh se ci conoscessero meglio cambierebbero idea! - controbatté Gemella.
- Se non vivessimo in questo particolare posto ci ignorerebbero del tutto! - concluse lui. Per un attimo tacquero guardandosi attorno.
Le tessere dei mosaici sul pavimento brillavano di mille riflessi.
Ogni occhio, muovendosi in direzione opposta all'altro, percepiva sfumature di colori diversi; da una parte prevalevano i blu: ceruleo, cobalto, pavone fino alle ombre più scure color blu notte, oltremare, Prussia. Dall'altra i rossi: magenta, scarlatto, vermiglio, cinabro, corallo, cremisi per arrivare a porpora, carminio, granata. Distintamente apparivano le basi delle quattro colonnine in pietra, “neri alberi” che si elevavano a sostenere il soffitto a volte a crociera che essi però potevano solo immaginare. Un cielo di vetusti mattoni. Altri diciotto alberi marmorei più piccoli delimitavano in semicerchio i confini della spaziosa cripta-acquario. Essendo i due pesci uno di fronte all'altra potevano invece sbirciarsi grazie a quello stretto angolo del campo visivo in cui gli occhi monoculari vedono simultaneamente. Non era la vista, però, l'organo di senso con cui di solito si riconoscevano.
Sapevano di essere in una cripta del Decimo secolo, meraviglia della cristianità, sorta sui resti d'una più antica chiesa primitiva e prima ancora forse da un tempio pagano dedito al culto di Nettuno?
Filtrava dalla finestra centrale qualche rasoiata di luce dalle navate della chiesa, un raggio di sole dall'abside un tempo decorato da mosaici raffiguranti gli apostoli Pietro e Paolo, il riflesso notturno d'una stella, d'una candela a rifrangersi sulla superficie smeraldo delle acque sorgive?

- Tu devi pensare a vivere meglio che puoi il presente! - proseguì Gemella. - Ti ricordi come eravamo felici quando ci siamo conosciuti la prima volta da piccoli, quanto ci piaceva nuotare una accanto all'altro, esplorare il mondo sommerso? Ti ricordi quando durante il periodo del corteggiamento mi danzavi attorno riempiendomi di attenzioni, di moine, solleticandomi il ventre con i tuoi buffi tubercoli nuziali? -.
- Lo sai che finché le condizioni di temperatura dell'acqua rimarranno queste non ci è consentito procreare! - borbottò mestamente Esichio - Altrimenti sì che ti avrei dato qualche migliaio di avanotti! -
- Ma io non sto parlando di questo - replicò Gemella - sto parlando di come un tempo la nostra vita fosse più spensierata, più tranquilla, meno problematica, meno esasperata. -
- Più nella vita aumentano consapevolezza e complessità, crescono problemi, ansie e preoccupazioni e più si rimpicciolisce il tempo per gioire – osservò Esichio da filosofo consumato e aggiunse: - L'iperuranio della gioia inconsapevole e le infinite coccole dell'infanzia ormai sono una chimera! -
- Ti ricordi le leggende che ci raccontavano su come sono nati i pesci rossi nel Catai? - riprese Gemella - Su come erano stati proibiti i pesci dorati e ciò aveva di fatto aiutato la selezione di quelli più rari color mattone? -
- Vediamo ora con questo tuo pindarico svolazzare del pensiero dove mi vai a parare - sospirò Esichio. E lei: - E ti rammenti di come imperatrici e imperatori bipedi facessero a gara per adornare con i più bei esemplari della nostra specie le vasche dei loro splendidi giardini, i più preziosi vasi di porcellana? Ci adoravano come piccoli dei, eravamo forieri di ricchezze, di bellezza, di fortuna. -
- Sì, però, si facevano anche dei gustosi bocconcini con quei nostri progenitori: morbidi frutti che cascavano in fauci ingorde! - disse Esichio. - È strano come si siano incrociate la storia dei pesci rossi e quella dei bipedi dalle pinne lunghe – constatò poi.
- É la storia dei bipedi a essere affascinante quanto la nostra! - ribatté Gemella. - Pensa solo a tutti quelli di cui abbiamo sentito le voci da qui sotto, a tutti quelli che sono stati sentiti dai nostri predecessori. E a coloro di cui abbiamo solo sentito raccontare: Onorio, Liberio, Orso, Neone. Si dice che un tale, Ostasio da Polenta, seppellito in un sarcofago rosso veronese ma con il volto e le mani di marmo bianco, sia stato il primo bipede ad aver importato qui dall'Oriente i pesci rossi! E quel tale che i bipedi chiamano il Sommo Poeta, su cui arrivano ancora oggi le notizie più disparate: in questi luoghi con i massimi onori ne vennero svolti i funerali e venne seppellito qui nei paraggi. Giungono bipedi da ogni dove per rendere omaggio alla sua tomba! -

A un tratto furono interrotti da un susseguirsi di vibrazioni. Da una moltitudine di voci che giungevano nitide, dato il più veloce propagarsi dei suoni nell'acqua. Poi sequenze di lampi colpirono la superficie delle acque soprastanti. Non li potevano vedere bene ma sapevano che un nuovo gruppo di giovani bipedi si era avvicinato e cominciava a guardare incuriosito nelle aperture della cripta: avrebbero ammirato gli splendidi mosaici bizantini del pavimento? Tradotto le epigrafi musive in greco e latino? No di certo! In men che non si dica s'apprestavano a tempestare i pesci con flash di telefonini e macchine fotografiche digitali! Altrettanto facevano i bipedi più grandi. Pareva non avessero mai visto dei pesci rossi nuotare in una cripta.
- Vai a far lezione a dei celenterati senza spina dorsale, che non rispettano nemmeno le altre forme viventi, non conoscono la storia e approfittano d'una gita scolastica solo per divertirsi e far casino, invece che per imparare! - sbottò a un certo punto Esichio, rassegnato.
- Ma santa merenda! Guarda anche il lato positivo! Senza la presenza delle scolaresche e dei turisti che passano di qui, noi saremmo costretti a vivere nel buio per quasi tutto il tempo, incapaci di distinguere il dì dalla notte e forse anche incapaci di vedere! - gli rispose Gemella.
- Quelli sono lampi di luce premonitori, che ci avvertono della fine! - disse Esichio - Le acque presto saliranno corrompendosi di melme e di fanghi e poi saremo risucchiati in un gorgo che ci ucciderà - e la compagna prontamente: - Ma prima ci spunteranno le ali tra le pinne dorsali, le branchie si muteranno in sacchi d'aria e come pesci rondine voleremo via nel mondo là fuori! -.
- Cribbiolina, manco fossimo degli angeli! Certo che ne hai di fantasia! - rispose lui. - Sognare aguzza la mente! - disse lei - E poi senza la speranza di un futuro come si fa a vivere serenamente il presente? Guarda che quei lampi che vediamo potrebbero benissimo essere i nostri illustri antenati che, trasformati in luce, vengono a rassicurarci! -
- Oppure ci avvertono che ci resta poco tempo! Difatti io mi sento già peggio - replicò Esichio - anche le mie squame non sono più rosso mattone come una volta e macchie olivastre cominciano a spuntarmi un po' ovunque! -
- È solo un po' di stress dovuto all'abbassamento della temperatura, vedrai che passerà - cercò di rincuorarlo Gemella - sono fasi transitorie come la rubedo e l'albedo alchemiche e se, per mentale nigredo, non ti si annerirà il cuore diventando duro come ossidiana, sono convinta che tutto si sistemerà per il meglio e che, seppur in cattività, vivremo una lunga vita, più longevi dei nostri coetanei selvatici! -.
- Siamo creature fragili in un mondo mutevole e spietato - ribatté Esichio - Non siamo fatti per durare! Non lasceremo alcuna traccia di noi, mica siamo le balene o i delfinidi del Pliocene... Un dì o l'altro ci adageremo sul fondo e in men che non si dica, se qualcuno degli altri non si ciberà prima dei nostri resti, imputridiremo e svaniremo sfaldandoci nell'acqua. Solo se uno strato di ceneri, di argilla o di sabbia ci coprirà, forse rimarrà tra qualche millennio il nostro scheletrino tra le pagine di pietra d'un bel fossile. Amen.-
D'accordo - replicò Gemella con decisione - ma fino a quel momento saremo insieme, ci sosterremo a vicenda badando uno all'altra, testimoni d'un piccolo miracolo vivente e circondati da un grande mistero che non siamo in grado di decifrare. Il nostro amore ci accompagnerà fino alla fine, sigillando le nostre brevi vite: siano due, dieci o venti anni! Saremo uniti per le code per sempre come i Pesci dell'antica costellazione! -
- Speriamo che invecchiando questo legame non si trasformi in un rapporto malsano, in un corto circuito ossessivo che a poco a poco ci soffochi, togliendoci tutto l'ossigeno! - interruppe preoccupato Esichio. Ma Gemella continuò come se nulla fosse: - E poi qualcuno di quei bipedi lassù, vedrai imparerà la lezione. Imparerà la storia, il rispetto per la natura e per le altre creature. Proprio come San Francesco, il bipede da cui questo luogo prende nome.
- Non dobbiamo rassegnarci agli angusti spazi di questa vita, Esichio, dobbiamo credere al perpetuarsi della Storia, all'incredibile ricchezza delle possibilità. Sorridere di quello che abbiamo (ndr. ma i pesci rossi sorridono? Sì, le loro anime sorridono!) e cercare di fare del nostro meglio per vivere il tempo che ci rimane.
- I bipedi non si dimenticheranno di noi, anzi è probabile che resteremo anche dopo che loro si saranno estinti. Non possono fare a meno di noi, come degli alberi, delle api, delle zanzare e dei vermi di cui ci nutriamo e di tutte le creature di questo mondo, sia quello subacqueo che quello ultracqueo.
- Siamo il riflesso della loro anima. Noi non possiamo sopravvivere per molto al di fuori dell'acqua, ma anche la loro anima, che credono erroneamente immortale, non può sopravvivere al di fuori del loro corpo. In fondo, come noi, sono imprigionati da ciò che del mondo filtrano coi loro sensi limitati. Ma senza i pesci rossi la specie dei bipedi non sarebbe neanche esistita!
- E poi nascono da uova fecondate dallo sperma proprio come noi e durante il periodo fetale, come pesci, vivono in una cavità uterina piena di liquido! Noi siamo i primi pilastri della loro Sapienza, a patto che la coltivino e la mantengano, siamo scintille viventi nei loro tempi oscuri. Noi c'eravamo quando la verga di Mosè fece scaturire l'acqua dalla pietra di Horeb. Siamo stati i progenitori dei loro progenitori, il loro cibo e il loro spirito. Abbiamo seguito i loro fasti e le loro cadute, così come seguiamo l'innalzamento e l'abbassamento delle acque. Siamo i loro pesci angeli custodi. -
Dopo tutto questo sproloquiare Esichio s'era tranquillizzato e aveva ritrovato un po' della sua ironia e del suo buonumore. Ora scherzava con gli altri pesci maschi e si vantava dell'intelligenza della sua amata consorte, come un paguro che fa bello sfoggio dell'anemone sulla sua conchiglia. Quello era il lato del suo carattere che era piaciuto fin da subito a Gemella. Lei sapeva che nonostante certi difetti, certe difficoltà, in caso di necessità l'avrebbe difesa e come un pesce siamese si sarebbe battuto per lei, fino alla morte. E tanto le bastava. Aleggiava sospesa nella corrente leggera come una medusa, come un pesce palla sospeso tra i coralli.

Hanno due caratteri diversi, Esichio e Gemella, ma si completano in una singolare dicotomia; pare di vederli, compunti, far uscire le loro testoline dall'acqua per ascoltare le parole dei santi: quelle di Francesco, il rivoluzionario che parlava a tutte le creature o quelle di Antonio,  orfano di uomini in ascolto, come possiamo ammirare nel celebre dipinto del Veronese.
Sentirsi la reincarnazione di Cupido e di Venere che si trasformarono in pesci per sfuggire al mostro Tifone. Sentirsi i teneri amanti nella bolla del Giardino delle delizie di Bosch. E continuare a raccontarsi vicende favoleggianti di vite precedenti, di vite fantastiche: di quando erano uccelli alla ricerca del Simurgh, farfalle dai mille colori, laboriose formiche, astuti ramarri a caccia negli intricati labirinti del sottobosco.
Cosa determinerà la fine della Storia? Un'implacabile, irrevocabile sequenza di eventi. Un catastrofico balletto. Una folle danza macabra. Si estingueranno prima gli uomini o i ciprinidi? Dare una risposta, impossibile: come risolvere il paradosso cretese del mentitore o quello ebraico della contrazione.

Biagio Nasti - La costellazione di nei

Quel che stringiamo nelle mani
è quel sentimento retrò,
passato ma vivo
di un giorno chiamato ieri.
Un termine obliquo,
ideato da sillabe delicate
che battono sulla lingua
un concetto detto per caso.
Siamo il risultato di verbi andati,
l’unione inconsapevole
di quell’armonia indicata
da una costellazione di nei.
L’insieme di punti fissi,
immobili come sassi
e decifrati singolarmente
come i grani di un rosario.
Ora si urla al presente la rabbia,
mentre indifesi e distratti
bisbigliavamo al futuro
la voglia di essere qualcuno.
Eppure non siamo eroi,
o forse lo siamo,
noi due che affrontiamo la vita
confrontandoci di schiena.

giovedì 27 giugno 2019

Domenico Priano - Sul sentiero

Il sentiero era un lungo filo d’erba
cresciuto a fior di labbra sul crinale
dove spiccava fitto il paradosso:
Neve d’agosto e rondini a Natale.
Noi ci andavamo
mano nella mano
un fiore in bocca e l’animo contento
e un brivido che dà la pelledoca,
a ogni strappo impercettibile
di vento.
Ora quel sentiero è abbandonato
povero e acerbo e vuoto
oltremisura.
E al posto dei tuoi passi e le tue impronte,
la trasparenza folle.
E la paura.

Alberto Salvalaio - Petardo

Sapore di birra a buon mercato
di capodanni del passato
di aspettative mancate
che rinascevano uguali il giorno dopo.

Strofino forte la faccia
per farne uscire una nuova
Alleno i muscoli in un sorriso
Concimo un sapere trascurato
Fai la vita da sposa
col lavoro assicurato.

Ho letto circa venti libri
da quando ho smesso di parlarti
Tutto quel rumore improvviso
sparisce veloce
come un petardo.

Alberto Salvalaio - Andiamo altrove

Santa fame che mi liberi dall’esilio.
E il peccato delle domeniche col sole.
Non ho radici, come le tue.
Tu che cerchi vita nuova alla fine di ogni estate.

Ti ho regalato un rospo sorridendo,
hai risposto con disgusto.
Ero sincero. Fino a qualche minuto fa.

Tengo le scarpe, che magari esco.
Dormo e fumo come un pazzo.
Quel che avanza è una mappa spiegazzata.
E un po' di tosse la mattina.

Il solaio è pieno di desideri.
La cantina allagata da lacrime vecchie.
Andiamo altrove.

venerdì 14 giugno 2019

Marco Maresca - Una storia vera di nichilismo e odonomastica

Laggiù in fondo una volta era tutta campagna, ed ora c’è un condominio con le puttane cinesi.
A grandi linee il succo è questo, però mi piacerebbe spiegarvi meglio il contesto.
A metà degli anni ottanta i miei genitori lavoravano entrambi tutto il giorno, e ad andare all’asilo piangevo. Così passavo tanto tempo dai miei nonni. Nelle mie perlustrazioni pomeridiane mi spingevo fino ad un piccolo campo da calcio situato poco dopo la loro casa. Non si poteva andare oltre, perché a parte un paio di villette non c’era niente.
Negli anni novanta il campetto sparì. Al suo posto sorse un condominio in cui i miei nonni andarono ad abitare. E da lì a pochi anni ci fu un’ulteriore novità: continuando a camminare si poteva andare ancora più avanti! Infatti nel frattempo era stato emanato il nuovo il piano regolatore, che dava il permesso di costruire in quella zona, poiché al Comune erano pervenuti degli studi abbastanza credibili secondo i quali c’era la possibilità che a breve la popolazione cittadina aumentasse del quaranta percento, cosa che effettivamente accadde.
A dire il vero, i rapporti di causa ed effetto di quanto ho appena enunciato potrebbero essere invertiti. Fatto sta che i costruttori di case in quel periodo si arricchirono, e non poco.
L’odonomastica è il dare nomi alle vie, e in quel periodo c’era bisogno di nomi, e tanti. I morti celebri erano divisivi, perché ognuno tendeva a darne una lettura politica. Così furono i bambini delle elementari a scegliere i nomi delle nuove strade, ma io ero già grande all’epoca, quindi non ho potuto compiere questo esercizio di democrazia partecipativa.
In buona sostanza, ad una nuova strada fu dato il nome di una valuta monetaria che avrebbe dovuto unificarci tutti quanti come fosse una bandiera. La storia recente mostra che non è andata proprio così, ma non mi son mai piaciuti i riferimenti all’attualità: le storie devono avere valenza universale. Quindi la chiudo qui, ma ne approfitto per rilevare una certa ironia in una via col nome di moneta in cui è sorto un condominio con le puttane.
Una volta i condomini erano un mondo in miniatura, una comunità in cui tutti si conoscevano e si aiutavano tra di loro. Tanti esseri umani, così vicini l’uno all’altro. Come potevano non organizzarsi per ricavare il meglio da una simile modalità di vita? Eppure, nei palazzi nuovi non accade questo. Molti usano l’appartamento solo per dormirci la notte, altri invece nel cuore della notte si svegliano per andare a lavorare. I più giovani nemmeno si accorgono di tutto ciò, in quanto immersi nel sentimento del proprio tempo, che non prevede più l’uscita da casa. Ormai non capita sovente di incontrare il proprio vicino di casa e di salutarlo lungo le scale.
Tagliando corto: c’era un appartamento pieno di donne cinesi dedite alla vendita di servizi nell’ambito del benessere, ma nessuno lo sapeva. Evidentemente si erano insediate contestualmente alla costruzione del palazzo e non erano mai uscite di lì, ed esercitavano la propria professione con estrema discrezione, oppure avevano dei vicini sordi. Solo i veterani del sesso a pagamento sapevano di questo appartamento pieno di prostitute, in quanto l’informazione era veicolata tramite canali non ufficiali. In breve tempo, quindi, si era formato un viavai di maschietti (prevalentemente pensionati) che suonavano il citofono, salivano le scale in silenzio, facevano quello che dovevano fare e se ne andavano com’erano venuti.
Ad un vecchietto, che chiameremo Gianni, era giunta la notizia delle puttane cinesi, ma l’informatore non gli aveva detto a quale campanello suonare. Giunto alla pulsantiera, Gianni non si era fatto ottenebrare dalla libido, ma aveva fatto un ragionamento logico: c’era un solo nome non italiano, e doveva essere per forza quello giusto. Infatti, dopo qualche secondo di attesa, il portone si aprì. Gianni entrò nel pianerottolo e con movimenti circospetti cercò di leggere i nomi sui campanelli posti di fianco alle porte d’accesso ai singoli appartamenti. Dovette accendere la luce ed inforcare gli occhiali, perché l’età non giocava a suo favore, ma più o meno stava proseguendo nella sua ricerca della giusta porta a cui bussare. Di base c’era un buon ragionamento: prendere  l’ascensore, selezionare un piano, scrutare il pianerottolo alla ricerca del nome straniero. Ripetendo queste azioni un paio di volte, finalmente Gianni trovò quello che aveva identificato come appartamento delle puttane cinesi. Era particolarmente compiaciuto del fatto che tutto fosse andato liscio e questa sensazione, frammista all’eccitazione per un atto proibito, gli fece recuperare un vigore che sembrava perduto da tempo. Così, mentre suonava il campanello col nome straniero, sentì che non aveva molto tempo: doveva iniziare a sbottonarsi i calzoni.
L’esotico proprietario di casa lo chiameremo Mark, poiché è semplicemente il mio nome tradotto in albanese, così non scontenterò nessuno. Dunque: una trentina di secondi dopo aver udito il suono del campanello, Mark aprì la porta e sgranò gli occhi. Era convinto di trovare davanti a sé suo cugino, venuto per aiutarlo con un trasporto di mobili, invece davanti a lui c’era un attempato signore con un paio di capelli attaccati alla testa, un paio di occhiali dalle lenti spesse come fondi di bottiglia, e soprattutto un paio di calzoni sbottonati dai quali sembrava sporgere qualcosa.
“Buonasera, sono venuto per… Ehm… Le signorine”, esordì educatamente Gianni.
Mark aveva una bottiglia di birra in mano, e poiché nell’altra stanza c’erano la moglie e la figlia, tale contenitore non gli sembrava un’arma abbastanza potente per difendere ciò a cui teneva di più al mondo. Ma, per evitare spiacevoli complicazioni, per adesso bisognava rimanere calmi e limitarsi ad usare le parole.
“Che cazzo vuoi”, pronunciò quindi Mark a denti stretti. Senza punto interrogativo, perché era un’affermazione.
“Eh, le signorine! Mi hanno detto che si trovano qui. Posso entrare?”, chiese Gianni, che pensava che l’atteggiamento scontroso di Mark fosse parte del gioco. Secondo lui era tutto normale, erano scene che aveva già visto nei film. Non era particolarmente preoccupato: al massimo l’albanese gli avrebbe chiesto una parola d’ordine, o qualcosa del genere.
“Allora. Prima di tutto: il cazzo lo metti nei pantaloni”, gli intimò Mark.
Gianni obbedì. Era ancora convinto di stare recitando abilmente la propria parte.
I calzoni ora erano abbottonati ma la rigidità perdurava, quindi i due si trovavano in una condizione di stallo: Mark impugnava saldamente una bottiglia che era pronto a scagliare contro le pudenda del vecchio, e quest’ultimo, senza troppo rendersene conto, aveva ancora il pennacchio puntato verso Mark, benché trattenuto dal cavallo dei pantaloni. Era una situazione senza uscita, a meno che uno dei due facesse qualcosa. I film americani insegnano che in questi casi ha la meglio chi fa una mossa inaspettata. Fu così che Mark, sempre guardando Gianni fisso negli occhi e mantenendo protesa la bottiglia avanti a sé, iniziò a indietreggiare fino a chiudere la porta.
Gianni credette di aver ricevuto in questo modo la conferma di essere nel giusto: di lì a poco la porta si sarebbe aperta e l’albanese l’avrebbe lasciato entrare. Una volta varcato l’uscio, ci sarebbero state le tanto rinomate puttane cinesi ad aspettarlo, e con loro niente sarebbe potuto andare storto.
Infatti la porta si aprì. Ne uscì Mark, stavolta brandendo un’arma più appropriata: un coltello a serramanico. “Vai via, stronzo! Ti ammazzo!”, gli urlava, mentre il vecchio chiamava a sé tutte le energie salvaguardate nei suoi primi ottant’anni, e nel saltare giù dalle scale non sentiva nemmeno più l’artrite. Il cazzo, nel frattempo, gli si sgonfiava, perché il sangue in quel momento era maggiormente necessario altrove. Il sistema cardiocircolatorio doveva irrorare come si deve la muscolatura delle gambe, perché Gianni aveva assoluta necessità di percorrere in tempi rapidi quella quarantina di metri che lo separavano dalla sua automobile. E doveva sperare di trovare immediatamente le chiavi nelle tasche. E che la sua Nissan Micra venticinquenne partisse al primo colpo. E di non incorrere in uno sbalzo di pressione o in qualche altro scherzo della vecchiaia nel frattempo. Insomma, c’erano tante variabili da considerare, e Mark sopraggiungeva urlante, col suo coltello ben stretto in pugno. Se solo il povero Gianni non avesse dato retta alle recensioni entusiastiche da turisti sessuali dei suoi compagni di bocciofila!
La Nissan Micra infine partì. Non al primo colpo, ma partì. Ma Mark, in realtà, aveva dato a Gianni tutto il tempo necessario a raggiungere la macchina in tranquillità. Non voleva veramente accoltellare il vecchio. Era soltanto molto spaventato. Pianse, infatti, per la prima volta nella sua vita. E nel cortiletto del palazzo lo raggiunsero presto la moglie, la figlia, e pure il cugino, giunto nel frattempo. Mark strinse al petto la figlioletta, poi le prese la testolina tra le mani e guardando la bimba negli occhi si ricordò i motivi per cui ogni mattina si alzava dal letto e andava a lavorare. Sua figlia era la sua vita, ed era fiero di averla difesa da un vecchio depravato. Poi si rivolse al cugino e gli spiegò che quella sera non si sarebbero occupati di alcun trasporto di mobili, perché c’era da chiamare le forze dell’ordine e denunciare quanto successo.
Nel giro di cinque minuti arrivò una coppia di carabinieri, che parlavano in napoletano come i loro analoghi dei Simpson, però erano abbastanza svegli. Diedero una rapida lettura ai nomi sulla pulsantiera del citofono. Esclusero i nomi di alcune persone notoriamente perbene, e suonarono ad uno ad uno tutti gli altri campanelli, tranne quello di Mark, per ovvi motivi. Annotarono i nomi di chi aveva risposto. Entrarono nel palazzo ed ottennero facilmente accesso ad ognuno dei cinque appartamenti su cui ricadevano sospetti. Quattro non erano interessanti, in uno invece trovarono un’elegante signora italiana che sorseggiava amabilmente un tè in salotto insieme a due sorridenti donne orientali pesantemente truccate. L’appartamento presentava pareti di colori discutibili e complementi d’arredo stravaganti. Era chiaramente una casa di appuntamenti, ma i due carabinieri cosa potevano farci? La faccenda si esauriva chiedendo alle tre donne di mostrare la regolarità dei propri documenti. Da lì in poi c’era un problema di competenze. Se l’attività fosse lecita o meno, non stava all’Arma dei Carabinieri stabilirlo, ma eventualmente alla Guardia di Finanza. Determinare se l’appartamento fosse occupato legittimamente era invece una cosa da Polizia Locale. L’unico reato sul quale avrebbero potuto forse indagare era lo sfruttamento della prostituzione, ma non era elegante dare della maîtresse ad una distinta signora di mezza età, e in più le due cinesi non sembravano sfruttate. Quindi i carabinieri accettarono una tazza di tè e se ne andarono ripromettendosi di tornare ad investigare ulteriormente in tempi futuri, cosa che non avvenne in quanto la cittadina era in espansione e c’erano sempre più manigoldi da arrestare.
E questa, in sostanza, è la storia del condominio con le puttane cinesi. Però vorrei ricavarne una morale, anche se so che non va più di moda.
A teatro, è regola che tutti gli oggetti in scena vadano in qualche modo utilizzati durante lo spettacolo. E così, se dai ad una via il nome di una moneta, è lecito aspettarti che in quella stessa via sorga un condominio con le prostitute.
I nomi dei morti creano divisioni, è vero, perché si tende ad associarli alla politica. Però io avrei delle idee. Ci sono i letterati e gli scienziati. O, se vogliamo aderire alla cultura popolare, nel novecento ci son stati tanti cantanti celebri. Per me va bene chiunque, da John Lennon a Janis Joplin. Siamo in Italia, vanno bene anche Luigi Tenco o Mia Martini. Chissà mai che in una via intitolata ad un personaggio di questi un giorno si generi qualcosa di bello in un mondo così vicino al nulla.