Il primo albero fu un pioppo. Lo incontravo da bambino quando dalla camera guardavo il treno che passava in lontananza: una littorina marrone che fischiava in corsa su un ponte. La sua chioma tonda, più vicina a me che al treno, per un gioco di prospettiva lo faceva tremare mentre filava in velocità tra le foglie.
A volte sogno di tornare in quella casa. Suono al campanello conosciuto con un nome non più mio, chiedo permesso al nuovo proprietario, mi riaffaccio ancora a quel balcone e con un tuffo al cuore lo rivedo, col fogliame fremente e chiassoso, come volesse salutarmi.
Ci sono sguardi che ci crescono a fianco e ci appartengono. Fanno compagnia per anni, senza che abbiamo il garbo di accorgercene.
Il secondo albero fu un tiglio. Gigante. Ci eravamo trasferiti dal paese alla città. Ora stavamo in un grande palazzo, dalle larghe vedute, le vette alte in lontananza e le torri, le cupole, i campanili. Per non essere da meno decise di levare il fusto più in alto di ogni sguardo, gareggiando con il settimo piano dove stavo. Dovette sembrare a qualcuno una grave impudenza e la scortesia meritava un castigo.
Fu così che saggiai l’esperienza del taglio: si accanirono su quel tronco arrogante come Nostro Signore sulla torre di Babele. Non rimase che un ceppo monco come il moccolo di una candela. Faceva pena guardarlo in quell’umiltà obbligata, un ribelle piegato dalle frustrate. Ma come il mutilato crede di provare ancora dolore all’arto ormai amputato, anche a noi, guardando dove c’era prima la chioma, pareva di non poter andare oltre con lo sguardo, come se fosse ancora lì, persistente. La sindrome della fronda fantasma.
Il terzo albero fu un bosco, anzi un groviglio di robinie. Stava in fondo alla strada dove abito, un vicolo cieco. Creando un varco tra l’intrico di rovi si sbucava davvero, come Alice, in un altro mondo. L’argine della roggia si allargava su zone fiorite e incolte, con crochi e narcisi, orti abusivi e alberi da frutto. Ne andavo così fiero da chiamarlo giardino segreto e ci passavo ore in compagnia dei miei gatti e anatre, cince, fringuelli e altri animali.
Arrivarono tempeste di vento e un’acacia commise il reato di cadere, fortunatamente senza causare danni a cose o a persone. Un effetto lo produsse però nell’animo di quei residenti che non si erano mai accorti di quella macchia che incorniciava di verde il parabrezza durante i loro posteggi serali. Iniziò a serpeggiare un dapprima comprensibile e poi esasperato senso di insicurezza. D’altronde la natura se non suscita indifferenza, o smuove cuori avidi, o semplicemente fa paura. Si richiese a gran voce l’abbattimento, definendolo con pudore “sfoltimento”. Nel dubbio fu raso al suolo tutto, ogni albero, cespuglio o arbusto. Fu spianato anche l’argine perché non l’avesse vinta baldanzosa l’erba o, per carità, qualche fiore. Lasciarono però i resti, rami e sterpi caduti, a futura memoria. La sicurezza imperava.
Non potei assistere alla presunta potatura per cui quello che dico l’ho potuto soltanto immaginare, ricostruendo la scena a ritroso con ciò che era rimasto, riavvolgendo il nastro. Lo stesso giorno bruciava Notre Dame e le coincidenze sono, in qualche modo, vere.
Iniziarono dall’albero più alto (e perciò temuto), con l’inquietante nome di gaggìa. Lo schianto fu breve come si addice ad un legno leggero. La guglia verde parve dondolare piegandosi riverente al cielo. Cadendo mosse le chiome scosse da seimila sonagli bianchi di profumo (invisibili volute di incenso). Sembrò un inciampo, come se l’arroganza di quel moto incauto trovasse un impaccio di radici sollevate. Cadere è un po’ volare, l’istante in cui si cede pare di stendere ali verdi, i rami planano e salutano la mano rozza che li taglia. Dall’alto il nido delle gazze si staccò e cadde un po’ più distante dall’albero. Non è certo se abbia protetto a sufficienza quelle uova, le sue tre reliquie preziose.
Andò così, forse, ma il risultato invece è certo. Tornato a casa alzai lo sguardo verso ciò che avevo perduto.
La vista era nuda, violata, assente. Sentii un vuoto dentro, poi vergogna e senso di colpa. Tutto nasceva da una legittima e civile istanza di sicurezza. Ma la desolazione di quell’educata prudenza lasciava gli stessi segni di una violenza carnale.
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