sabato 27 maggio 2017

Mara Vignati - La costruzione di un amore

Un flash illuminò d'improvviso l'ufficio al settantaseiesimo piano dell'edificio che ospitava lo IHED, l'International Human Engineering Department. Quel segnale luminoso, lanciato per avvertire dell'atterraggio dell'ennesimo drone-taxi comandato tramite satellite, durò solo pochi secondi e poi sparì. Scienziati e ingegneri, come se nulla fosse, continuavano la loro attività di ricerca, insensibili a quel lampo di luce che, solo per un breve istante, aveva rischiarato il cielo di Neo Urbs, ormai perennemente nascosto dietro a un sipario nero di nebbia e smog. Deucalion, come tutti i suoi colleghi ai piani inferiori, proseguiva imperterrito il suo lavoro, chino sulla sua creazione. In virtù dell'importantissimo progetto che gli era stato affidato era riuscito a ottenere l'utilizzo del laboratorio all'ultimo piano del grattacielo del Dipartimento, il più ambito perché, grazie alla sua smisurata altezza, era in grado di offrire una luce naturale che, a mezzogiorno, quasi bastava per poter lavorare senza dover ricorrere all'illuminazione elettrica.


Di fronte a lui, seduta sul tavolo da lavoro sotto la fredda luce al neon, si poteva distinguere la sagoma di una donna. Dall'estremità inferiore del tavolo spuntavano i suoi bianchi piedi lasciati cadere a penzoloni, nudi. Le sue caviglie, sottili e ossute, quasi sfioravano con una noncuranza lasciva l'interno dei polpacci di Deucalion. I suoi capelli corti, a caschetto, di un lucente color ebano, lasciavano scoperto il lungo e sinuoso collo e le spalle minute.
“Sono così piccole... così delicate” disse Deucalion a voce bassa, mentre passava con le sue mani proprio su quelle spalle e poi, lentamente, scendeva, indugiando nell'incavo del gomito, sui polsi fragili, fino ad arrivare alle sue docili mani. Le fissò a lungo, quasi contemplandole, accarezzando con un tocco impercettibile ogni singolo dito della mano destra della silenziosa fanciulla, come se ne stesse controllando la forma perfetta. Si soffermava su ogni falange, ogni nocca, ogni unghia. Ne ammirava la forma ovale e la lucentezza e le accostava alle sue labbra, come per assaporarle piuttosto che baciarle. La donna si lasciava toccare, silenziosa e immobile; l'altra mano abbandonata stancamente sul suo stesso grembo.
“Mi stringeresti la mano?” chiese l'uomo con tono di preghiera mentre alzava il suo sguardo, solo il suo sguardo, per affondarlo negli occhi neri di lei, che lo fissarono a loro volta senza far trasparire alcuna emozione. “Ma certo, che sciocco...” continuò Deucalion, mentre le dita della donna, fredde, rimanevano inerti tra le sue “Ancora non puoi farlo... ancora non sei completa”. Lo sguardo della donna rimase spento, muto.
“La mia Galatea...” disse, sospirando. Posò la mano destra della donna accanto all'altra e si voltò, pronto a riprendere il lavoro da dove lo aveva interrotto. Aveva iniziato il Progetto Pygmalion ormai quasi tre anni prima con un team di scienziati che avevano curato assieme a lui le fasi iniziali del lavoro. Galatea era il primo esperimento dello IHED e tutto, fino ad allora, era andato per il verso giusto: rimaneva, ormai, da completare solo la fase finale del progetto, della quale Deucalion era l'unico responsabile, essendo l'unico membro del gruppo di lavoro esperto di Ingegneria Antropomeccanica. Lavorava senza sosta da mesi e la sua opera era finalmente quasi completa. Le parti meccaniche erano già state collaudate e il sistema di impulsi elettrico-nervosi era già installato: doveva solo essere tutto collegato e avviato e lei... si sarebbe animata.
Eppure c'era qualcosa che ancora le mancava.
Deucalion conosceva alla perfezione tutto di lei: aveva passato ore e ore a crearla. Il Dipartimento non gli aveva permesso di utilizzare come modello il calco di una donna realmente esistente, ma gli aveva fornito un elenco ben preciso di tutte le qualità ideali da riprodurre: le misure, l'altezza, il peso, il colore della pelle, dei capelli, degli occhi... E così, quando guardava i suoi fianchi, Deucalion si ricordava la fatica che aveva fatto nel dare loro la giusta forma armoniosa, quando guardava il suo viso, si rammentava la difficoltà che gli era costata lavorare al suo naso e alle sue guance, e quando guardava il suo seno non riusciva a credere che quella perfezione potesse essere stata creata da lui.
Ma la parte che preferiva in assoluto erano le sue mani: piccole e delicate, erano l'unico pezzo sul quale, forse per errore o per dimenticanza, non aveva ricevuto indicazioni particolari da parte della Direzione e, paradossalmente, era quello per il quale aveva speso più tempo e fatica. Le aveva studiate a lungo, le aveva immaginate, progettate, e poi le aveva costruite in modo tale che si armonizzassero perfettamente con le sue. Le mani di Galatea lo tormentavano: erano la prima cosa che guardava di lei quando, ogni mattina, arrivava al laboratorio, e certe volte, durante il resto del giorno, senza nemmeno accorgersene, si trovava incantato a fissarle per interi minuti. Mentre terminava le sue rifiniture degli altri pezzi, con la coda dell'occhio le controllava, come se si aspettasse da un momento all'altro che prendessero vita. Erano troppo perfette, troppo vere per essere sempre così immobili. Le sue mani non smettevano di assillarlo nemmeno la notte; le immaginava tiepide e setose intrecciate alle sue, le sognava mentre, delicate e al contempo voluttuose, gli esploravano il petto, gli accarezzavano i capelli, lo stringevano. 
L'aveva immaginata viva così tante volte che ora che il Progetto era concluso non riusciva a decidersi ad animarla. Si trovava a tergiversare con i superiori per rimandare i tempi di consegna, a inventare contrattempi, a trattenersi sempre di più in laboratorio per stare con lei. Era la sua creatura e l'amava, l'amava davvero, come non aveva mai amato nessuna donna vera. Le riponeva le ciocche di capelli dietro alle orecchie e immergeva il suo naso tra quella scura, morbida nuvola, cercandone il profumo. Le accarezzava il volto e passava le dita sulle sue labbra, per imprimersi nella sua mente la consistenza, il colore, la forma, e non poteva fare a meno di chiedersi se quel bocciolo di silicone avesse un suo peculiare sapore, o se tra i suoi candidi denti, fosse racchiusa una risata particolare. Affondava avidamente le dita nelle nude cosce e si stupiva della loro elasticità. E quando le sfiorava il bianco seno, la sola cosa di cui si meravigliava era che il suo petto non si alzasse e abbassasse ritmicamente e che, al suo interno, non vi fosse racchiuso un cuore tonante.
Quanto sudore speso per assemblarla, quanta fatica! E lei era sua, la sua Galatea.
Era pronta, ma per lui non era ancora completa. L'ultimo pezzo era di fronte a lui, che aspettava solo di essere inserito. Un pezzo del tutto superfluo, che non era stato nemmeno richiesto dalla Direzione, ma che Daucalion aveva insistito a produrre: il suo cuore. Deucalion era lì, immobile, eppure in fermento, e teneva nel suo palmo il cuore di Galatea, e immaginava come sarebbe stato quando lei glielo avrebbe donato.
Quanto della sua vita era stata assorbita dalla non vita di Galatea! Quanta dedizione, quanto amore le aveva dedicato!
L'aveva desiderata, progettata, programmata, assemblata. Galatea era la sua Eva, e lui aveva ormai terminato la sua Creazione, aveva concluso la costruzione del suo primo... amore.
E ora era lì, pronto a inserire l'ultimo ingranaggio, e a vedere finalmente riaffiorare la vita dalle profondità dei suoi occhi neri. Ma come lo avrebbe guardato? Avrebbe riconosciuto il suo padre, il suo Creatore? E sarebbe riuscita ad amarlo, molto più di un padre? Avrebbe mai provato gli stessi sentimenti che provava lui, gli stessi desideri?
E se la sua costruzione fosse stata vana, laboriosa e fragile come un altare di sabbia in riva al mare? Se invece gli occhi di Galatea fossero rimasti neri, profondi pozzi vuoti, mai in grado di ricambiare il suo sguardo, come avrebbe potuto sopportarlo?
E se dopo tanto amore lei fosse stata finalmente viva e libera, libera perfino... di non amarlo?
Un drone lucente e accecante illuminò d'improvviso i pensieri di Deucalion. Un solo, brevissimo istante di luce, e poi di nuovo il solito cielo nero, nero e vuoto e spento e soffocante e opprimente e claustrofobico come gli occhi profondi di Galatea. 
E così Deucalion posò nuovamente nel suo contenitore il cuore di Galatea e lo distrusse, poi si voltò verso di lei e fece altrettanto. La ridusse letteralmente a pezzi, strappandole le piccole orecchie, e i suoi morbidi fianchi, e il suo seno perfetto, e le sue gambe bianche e i suoi neri occhi profondi.

I colleghi lo trovarono ancora stordito, la mattina seguente, tra i resti del corpo di Galatea, dopo essersi insospettiti per non averlo visto convalidare il suo pass di lavoro. Tra le sue mani stringeva ancora la mano destra della donna, piccola, delicata, fredda e inerte, che combaciava perfettamente con sua.





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