mercoledì 3 giugno 2015

Andrea Boschiazzo - Amore e bagnarole

L’ho vista un pomeriggio, si lasciava andare anche lei sull’acqua, su di una barchetta sgangherata stile la mia, mentre io mi riparavo dalla pioggia accostato su una sponda del fiume, sotto una roccia. È venuta lì anche lei, senza dire nulla e facendo solo un sorriso. Io sono timido, così per un po’ non ho detto nulla, ma mi facevo le miei idee su quanto somigliasse al mio quel suo modo abbandonato di viaggiare, vagabondando sull’acqua, e anche lei, mi pareva, senza nulla da cercare né trovare, o qualcosa verso cui puntare.
Abbiamo rotto il silenzio con una stupidata qualunque, forse con la scusa della pioggia, o qualcosa del genere. Poi siamo ripartiti per lo stesso viaggio, anche se, sinceramente, nessuno dei due sapeva bene dove. Ci siamo raccontati per quello che eravamo, fin da subito con quella stupenda e un po’ scioccante sensazione di potersi dire tutto con estrema sincerità, passando tantissimo tempo insieme, specialmente la sera, quando, già dalle prime volte, sentivamo il bisogno di sporgerci, ognuno dalla propria barca, per baciarci, talvolta intensamente, talvolta per scambiarci appena il sapore delle bocche. Fin dalla prima sera in cui le ho toccato il corpo, e mi ricordo perfettamente d’aver iniziato dalle spalle, per farle scivolare lungo le braccia il vestito estivo che indossava, non ho mai dovuto pensare a nulla sul come fare e fin dove osare, né sperimentare o cercare di capire verso quali parti del corpo, sfiorate, accarezzate, o strette, spostare le mie mani, e se appoggiare il palmo o stuzzicarla con le dite, semplicemente perché quello era il momento giusto di mischiare odori e sudori. Ci siamo esplosi addosso, senza cautela, e me ne sono irrimediabilmente innamorato.
Alla fine non le ho mai chiesto perché fosse lì anche lei, e perché, dopo tutte quelle ore trascorse assieme, lei se ne tornava sempre a dormire sulla sua barca, salutandomi con un bel sorriso, è vero, ma come se qualcosa tra di noi mancasse. Parlavamo di un sacco di cose e presto mi sono reso conto che faticava ad accettare quella condizione di incertezza, e che non si stava lasciando trasportare tranquillamente, come me, per rifiatare dopo un periodo storto, ma che era più un andare alla deriva il suo, piena d’attesa per qualcosa di diverso. Solo in quei nostri momenti, lei si scioglieva da tutte le ansie, e stavamo bene.
Nessuno dei due ha mai remato per scappare via e non farsi prendere, ma siamo solo scivolati sull’acqua, anche se sempre con quella specie di maledetta distanza di sicurezza. Sta sera ceno con lei, magari è l’ultimo atto, mi ripetevo ormai alla fine di ogni giornata. O magari scoperemo tutta la notte e ci ameremo tantissimo, fino a domani mattina, quando tutto tornerà come è sempre stato, nell’amore e nella vita, cioè precario.
E infatti, un giorno l’ho persa di vista, semplicemente. Forse mi ha fregato di notte e si è appartata in qualche insenatura, da sola e senza dire nulla, lasciando che proseguissi nel solito, lento scorrere notturno, che aveva come attracco il mattino seguente, in cui il primo a svegliarsi, avrebbe aspettato il saluto dell’altro; oppure ha trovato una vela per salpare, o magari l’aveva già, e quella notte ha semplicemente deciso di usarla; o forse la corrente è cambiata, differente per me e per lei. Può essere che abbia gettato l’ancora mentre io dormivo, appoggiandola dolcemente sul pelo dell’acqua. Me la immagino con quelle sue piccole mani, fare tutto con leggerezza, senza il minimo rumore per non svegliarmi. Faceva ogni cosa con una delicatezza ineguagliabile, come se sfiorasse gli oggetti, invece che tenerli in mano per appoggiarli o spostarli; e io restavo incantato nel guardarla sistemare le sue cose.
Non ho dovuto strapparla ad un uomo, convincerla di essere io quello giusto, ma ho provato ad alleggerirla dalla sua insoddisfazione, dalla spasmodica e delirante ricerca, se perseguita troppo a fondo, del ‘chi sono? Perché sono qui? E quali sono il mio ruolo e la mia strada?’. Ci vogliono i nervi saldi per indagare alle profondità degli abissi, e reggere poi il colpo se non si trovano risposte o ci si convince di non essere sulla via giusta per trovarle. Da parte mia, ho soltanto provato a farle accettare il fatto che sia ingiusto e inutile esigere da se stessi tutte quelle cose, soprattutto d’un fiato, e tutte assieme, ma non ce l’ho fatta. Non siamo mai riusciti ad amarci sulla stessa barca, ma ci siamo sempre seguiti a vicenda, scivolando assieme per tanto tempo, e non saprei nemmeno dire quanto; ogni tanto tenendoci per mano, sporgendoci e baciandoci, ma ognuno sempre dalla sua imbarcazione poco stabile. E mi son chiesto milioni di volte, durante quelle giornate in cui al massimo ci scambiavamo sorrisi, se ne valesse la pena di soffrire così, per me e per lei. Mi sono risposto di si, che ne è sempre valsa la pena aspettare di poterci ritrovare in qualche angolo meraviglioso e fare un altro di quei bagni insieme. Comunque, so che in ogni caso non si volterà mai a guardare se ci sono, o per vedere se non sono ancora troppo lontano per gridarmi qualcosa o farmi un qualsiasi cenno, e rimangiarsi la decisone presa. È questa risolutezza che mi sta uccidendo, in questa leggera navigazione, sdraiato e senza interesse a stabilire una rotta. Con tutto me stesso mi sto sforzando di guardare avanti, nonostante questo dolore che mi monta addosso, sentendo come un intruglio di stati d’animo bollire nello stomaco, e poi salire, salire ancora fino a non so esattamente dove, forse in testa, in faccia, in gola, ovunque da quelle parti, incontrandosi con, boh, non ne so un cazzo della genesi delle lacrime, esplodendo letteralmente in un pianto che mi annega la vista. Quattro o cinque gocce, grandi e piene come noci, colano pesanti sulle guance; e non ci posso credere che non ci sia davvero più alla portata della mia vista, ed è come se soffocassi, nonostante questo lontanissimo orizzonte, spalancato e sdraiato tranquillo davanti a me, appena illuminato dall’alba che sale. Ancora una volta, ho capito che è dalla sofferenza che provi che ti rendi conto di quanto hai amato. Perché sono sicuro d’aver amato, e posso dire che entrambi avevamo capito di quale pasta fosse fatta quel nostro amore. È stato intensissimo. Ma non è andata, e non so davvero perché. Cerco di distendere il viso, per recuperare un sorriso, uno solo, tra tutti quelli che lasciamo sparsi in un presente felice che se ne è appena andato, e ritrovandolo in mezzo a questa ingorda carrellata di bellissimi momenti passati con lei; ma ho gli occhi gonfi, e niente è così nitido da poter essere inchiodato definitivamente nella memoria.
Sento le lacrime spezzarsi sulle mie guance, ormai secche, asciugate dal vento. No, non ne descriverò la bellezza, perché la felicità non è un problema da risolvere e di cui raccontare qualcosa. L’ultima cosa che mi resta da dire, è che avremmo potuto sorridere di più assieme. Ma che importa?

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