venerdì 2 agosto 2019

Antonio Villa - Ma'

Si fermano strategie e speranze.
"Ma', sto qui". (Fino all'ultimo orizzonte
ti tengo la mano che si va gelando,
ti inumidisco le labbra piano).

L’ora è preziosissima.
Sulle cime più alte sale
inesorabile la nebbia
e tace il canto dei colori...

La sofferenza è finita.
Piangerò dopo. Adesso
devo vestirti come facevi
con me quand'ero bimbo.

Una pacata bellezza
spalanca i tuoi occhi di cielo,
li fissa in trasparenza d’estasi.

L’immobilità non m’inganna;
sei rimasta stupore
ai tuoi passi nuovi.

Ti avvii calma e sicura oltre te.
Ti guidano lontano
stelle intramontabili, ma non da me.

Antonio Villa - Incroci

Sulla battigia dei ricordi
cancella tracce la marea montante
dei giorni.
Ti affidi, occhi al vuoto,
al mio passo parkinsoniano.
Andiamo, andiamo, come nuovi
del tempo e del luogo, tu indifferente,
io sorpreso al volo basso
di un uccello che spunta i rami
alti del melo e schizza al cielo.
Non t’interessa, ma sulla siepe il ragno
ha ricamato un fantastico centrino;
sulla panchina giovani in amore
come un tempo noi,
intrecciano sguardi, mani e fantasie.
Certo, neanch'io sono più quello di prima;
le braccia, appendici dello sterzo,
che costrinsero alla strada autobus
e camion ora mi vanno
come un motore sbiellato.

E m’hanno ritirato la patente.

Tu picchi in testa, estranea m’incroci,
giri a vuoto, perdi le chiavi,
dimentichi il fuoco acceso,
il rubinetto aperto... L’Alzheimer avanza,
ti ruba a te stessa
e ti d i s p e r d e nelle nebbie di casa...
Domani, non sai,
domani ci porteranno in quella di riposo
che ha un’edicola col Cristo tra i Ladroni
all’ingresso.
Con l’inchiostro simpatico
risolveremo insieme rebus e cruciverba.
Lascerò qui l’orologio.
Saremo due lancette senza perno
sul quadrante bianco del t e m p o .

mercoledì 3 luglio 2019

Loretta Stingone - Madre terra

Chi potrà sentire ancora la fresca bruma estiva
con lo sguardo all’infinito?

Chi seguirà i passi dei pascoli transumanti
le rondini che tornano al nido

E come loro io.

Chi di noi oggi
stringerà le mani così vicine e grandi
di questa terra sofferente
e le legherà a sé

per rinsaldare un patto di storia e sangue
di aria e vita

E guarderà al domani?

Valentina Aldrovandi - Quell’estate con Andrea

Avevo conosciuto Andrea davanti alla gelateria di via del corso, mente era in fila con un suo amico attendendo il suo turno con aria svogliata.
Era un ragazzo alto e snello con i capelli neri, quel giorno aveva addosso un paio di bermuda verdi, una t-shirt bianca e un paio di scarpe da ginnastica blu ormai logore dall’usura e dal tempo. Dallo zaino a righe che portava sulle spalle, mezzo aperto, spuntava una cartella azzurra un po’ sgualcita con qualche foglio bianco. Era in quel locale con naturale noncuranza, parlava con il ragazzo al suo fianco mentre guardava i gusti dei gelati, indeciso tra cono o coppetta, scelta che da quando ero bambina mi affliggeva al momento di ordinare dinanzi a ogni gelataio impaziente.
Mi trovavo lì per caso, la scuola era finita da una settimana e mi ero ritrovata delusa davanti al cartellone con i risultati, trovandomi rimandata a settembre in fisica, e sapendo bene che l’avrei pagata cara soprattutto con mio padre, che ci teneva a esibire i risultati scolastici di sua figlia con parenti e amici.
Quell’anno non era andata come si aspettava, e dopo un primo quadrimestre brillante, mi ero arenata su numeri e formule, da sempre il mio tasto dolente, e non ero riuscita a recuperare un quattro di troppo preso in una verifica improbabile in una giornata assolata di inizio primavera.
Mi aspettava un’estate pesante, già lo sapevo. I miei sarebbero partiti con mia sorella a metà luglio per raggiungere la nostra casa in Puglia, mentre io sarei rimasta a Milano a studiare insieme al nostro vicino di casa, un professore universitario in pensione, che si era offerto di darmi ripetizioni in vista dell’esame di riparazione di settembre.
Solo ad agosto inoltrato avrei preso il treno per le mie due settimane di vacanza, una manciata di giorni, troppo poco per staccare la spina dopo mesi faticosi e stanchi.
Quel giorno il sole era alto, ero immersa nei miei pensieri mentre guardavo Andrea con curiosità, cercando di evitare che si accorgesse del mio sguardo insistente. Si era girato proprio mentre ero a una distanza minima da lui, rischiando di venirmi addosso con il gelato.
“Scusami, sono un po’ distratto”. Mi aveva guardato e aveva sorriso, illuminando quella giornata faticosa, iniziata con le grida di mia madre per le mie scorribande della notte precedente, in cui ero rientrata troppo tardi da un incontro con gli amici.
Ero uscita di corsa tirandomi dietro la porta, e mi ero ritrovata a passeggiare fino al Naviglio, cercando proprio quella gelateria affollata per perdermi in mezzo alla gente.
“Anche io oggi sono distratta, non ne vengo fuori”, avevo risposto, rendendomi conto solo dopo di aver allungato un po’ troppo la frase. “Scusa”, avevo aggiunto.
Andrea aveva esitato, poi inaspettatamente mi aveva invitato a sedermi in un tavolino fuori. “Magari hai bisogno di fare una pausa, siediti con noi”.  Il suo amico, sorpreso, aveva occupato il primo tavolino libero, in un delizioso cortile interno, e noi l’avevamo seguito.
Avevo iniziato a raccontare di me, della fine pesante  di quell’anno scolastico, Andrea a sua volta mi aveva parlato dei suoi progetti per l’anno successivo. Era in procinto di partire per un anno a Chicago, avevo sognato l’America attraverso i suoi racconti, stupita della facilità con cui mi lasciavo trasportare, rapita unicamente dalle sue parole.
Ad un certo punto il suo amico ci aveva salutato velocemente, eravamo rimasti soli con un lieve imbarazzo ad accompagnare lo scorrere del tempo.
Era iniziata così con Andrea, un po’ per caso,  da quel giorno le nostre vite si erano intrecciate e l’estate di quell’anno era rimasta sospesa nel tempo, un regalo inaspettato che mi ero presa con urgenza e desiderio.
Quando i miei erano partiti, avevamo preso l’abitudine di vederci tutti i pomeriggi in un locale vicino a casa sua, una libreria caffè con i tavolini per studiare. Io con il mio libro di fisica, lui con la sua ricerca per l’università di Chicago.
Le serate erano nostre, salivamo da lui ad ascoltare la musica e a sentire il profumo della pianta di limoni del suo terrazzo.
Lui metteva i dischi di Cole Porter e si sdraiava sul divano, io mi sedevo per terra e chiudevo gli occhi. La musica mi stordiva e così le sue parole, che mi facevano sentire dentro un racconto degli anni settanta.
“Hai mai visto il mare del Nord?”
“No, non ho fatto molti viaggi”, rispondevo.
“Ti ci porterò un giorno”. Mi parlava come se fossi la sua cosa più bella, apriva i suoi libri di poesie e le leggeva per me. Non le avevo mai amate molto, eppure quella è l’estate in cui ho scoperto Sereni, Seifert, Konstantinos Kavafis, che avrebbero accompagnato da quel momento i miei giorni e le mie notti.
Evitavo di pensare alla sua partenza ormai vicina, mancavano solo poche settimane alla data prevista per il suo volo, il cuore si stringeva all’idea che tutto ciò sarebbe durato solo il tempo di pochi respiri. Centellinavo le ore e i minuti, il profumo dei limoni scandiva i miei giorni e le mie ore.
Mi piaceva il momento in cui correvamo a casa sua. Entravamo in un cortile attraverso un portone verde grande, uno di quelli antichi che sono la mia passione e che amo fotografare da sempre. Sentivo sempre un odore forte provenire dalla portineria, sapeva di peperoni, aglio e carne alla griglia, una miscela che per sempre mi avrebbe parlato di lui e delle nostre corse verso l’ultimo piano di quel palazzo antico.
Andrea mi parlava poco della sua famiglia, sapevo che aveva una sorella più grande di lui, e che o suoi genitori passavano l’estate in una grande casa di famiglia situata nelle campagne toscane, rifugio di amici e parenti che in un modo o nell’altro amavano passare di lì.
Lui invece preferiva restare a Milano. Diffidava di quell’atmosfera fintamente gioviale che si respirava tra quelle mura, le lunghe discussioni a cena in cui ognuno cercava di convincere gli altri della bontà del proprio pensiero. Cene lente davanti a portate interminabili e infinite bottiglie di vino, che finivano per stordire gli animi e inasprire le dinamiche a volte arrugginite dei commensali.
La madre di Andrea era amareggiata e dispiaciuta circa la scelta del figlio di rimanere in città, e non comprendeva come non amasse quello che per lei era ormai un rifugio sicuro, in cui nascondersi e affondare le delusioni dell’anno trascorso, facendo finta che non fossero mai esistite.
Andrea la accusava per questo, e pensava che gran parte delle incomprensioni tra lei e suo padre fossero una conseguenza di questo atteggiamento, ovvero la scelta di non mettersi in discussione sottraendosi a qualsiasi confronto.
Anche quell’anno, come i precedenti, aveva passato in Toscana solo un week end, ed era subito tornato a Milano per godersi la sua casa vuota e la silenziosa solitudine delle stanze in letargo.
Anche io avevo goduto di quell’immobilità piacevole e irreale, di quei giorni fuori dal tempo che precedevano la sua e la mia partenza, ormai incombenti.
Quel martedì mi ero svegliata di soprassalto, avevo dormito a casa per finire di preparare gli ultimi bagagli, a malincuore avevo lasciato Andrea che finiva un grafico per la sua ricerca. Era tardi ma non avevo voluto farmi accompagnare, lo vedevo intento e non volevo si distraesse dal suo lavoro.
Mi ero addormentata quasi alle tre dopo aver fatto una doccia per far scivolare via la tristezza che stava iniziando a soffocarmi, all’idea dei pochi giorni che mi restavano per stare con Andrea. Per quanto mi sforzassi di rimanere lucida, il pensiero della sua assenza mi atterriva e mi sentivo persa e sola come mai mi era capitato sino a quel momento.
Alle sette avevo iniziato a sentire la pioggia contro la finestra della mia camera, prima gocce leggere, che si erano tramutate in pochi minuti in goccioloni pesanti, colpi rumorosi che rimbombavano sui vetri. Non mi ero più riaddormentata e mi sentivo stanca e sopraffatta dalle emozioni.
Avevo provato a chiamare Andrea ma stranamente non mi aveva risposto. Il suo telefono suonava a vuoto e dopo dieci squilli la voce fredda della segreteria si era unita alla mia delusione. Avevo riprovato e il copione era stato lo stesso.
Con il telefono in mano mi ero alzata e avevo camminato fino al soggiorno, avevo guardato fuori e fissato per qualche minuto il cielo grigio, sfondo dei miei pensieri tristi.
Un operaio aveva gridato qualcosa dal cantiere della casa di fronte in costruzione, un altro era sceso da un ponteggio e per un attimo aveva alzato lo sguardo e mi aveva fatto un cenno.
Non me la sentivo di aspettare ancora, Andrea continuava a non rispondere e non mi davo pace. Mi ero vestita ed ero corsa fuori, correndo sulle scale per fare più in fretta. La casa di Andrea non era distante dallamia, ma quella strada mi era sembrata lunghissima quella mattina. C’erano in giro solo pochi passanti, era troppo presto per una domenica di agosto inoltrato, la città era ancora addormentata, in attesa della scoperta del nuovo giorno.
In dieci minuti ero davanti al portone, impaziente di rivedere Andrea. Mi ero attaccata al citofono a lungo, avevo un presagio triste ma preferivo non abbandonarmi alle mie sensazioni.
Nessuna risposta.
Avevo provato di nuovo, Andrea non rispondeva. Mi ero guardata intorno sperando che uscisse qualcuno, ma tutto sembrava immobile e sospeso. Volevo sentire la sua voce e mi ostinavo a fissare il portone sperando che lui mi si materializzasse davanti, ma tutto taceva.
Dopo una decina di minuti uscì Flavia, l’insegnante che abitava sotto Andrea, alle medie era stata la sua professoressa di italiano, conosceva bene lui e la sua famiglia, da sempre.
La fermai impaziente.
“Buongiorno, posso entrare? Ha visto Andrea per caso?”
“Andrea Benatti?” Mi disse guardandomi con curiosità.
“Si’ lui”, risposi con ansia. “Lo sto cercando ma non risponde”.
“Mi spiace ma Andrea e’ dovuto partire stanotte per la Toscana. E’ venuto a chiedermi le chiavi della macchina”.
“E’ successo qualcosa?”, le chiesi.
Stette in silenzio e non mi rispose.
“Sono preoccupata”, proseguii.
“Mi spiace, sarà un brutto momento, riprova più tardi”, e aggiunse, “ti ho intravista qui in questi mesi, so che frequenti Andrea, ma credo dovrebbe essere lui a raccontarti. Scusami”.
Mi salutó velocemente e sali’ in una cinquecento rossa parcheggiata davanti a casa.
Ho provato invano a contattare Andrea per giorni, quell’estate di dieci anni fa, ore interminabili passate davanti a uno schermo buio, che non si è più illuminato per me. Dopo aver cercato di parlargli senza successo, ho aspettato che mi chiamasse lui prima del ventun agosto, giorno fissato per la sua partenza per gli Stati Uniti. Non mi spiegavo perché avesse interrotto ogni rapporto, improvvisamente, dopo che per due mesi eravamo stati così vicini, uniti, complici, se pur per un tempo così breve.
Non aveva più voluto avermi accanto, ma l’aveva fatto senza una parola che decretasse una rottura e che servisse a me per dare a  tutto quello un senso.
Aveva preferito dileguarsi e partire senza spiegarmi, senza coinvolgermi nell’urgenza di quella notte, senza condividere oltre, lasciando intatti quel frammenti di tempo insieme, come una perla preziosa isolata da tutto il resto.
Avevo sentito con dolore lo scorrere del tempo, fino al momento in cui avevo ripreso le abitudini di sempre, e Andrea si era perso, come il resto di quell’estate, nelle pieghe dei miei giorni.

Andrea Scarscelli - Biscotti e rotaie

Le dita rigide e contratte picchiettano incerte lo schermo. Lo sguardo fissa un punto indefinito sul muro. Periodicamente, inesorabilmente, un leggero tremolio si impossessa delle sue mani. Niente panico: contrae i muscoli, irrigidisce le gambe e respira, adagio. Gli spasmi durano pochi secondi, poi il volto torna disteso, le labbra sorridenti. Abbassa leggermente la testa all'indietro e guarda l'orologio. È in anticipo, come sempre. La macchinetta intanto inizia a ronzare. Scava nella tasca della giacca ed estrare una monetina, lucida e dorata, che inserisce con fatica nella fessura. Riconoscente, l’amico meccanico sputa fuori la sua piccola linguetta di carta. L’annusa. Tobia ama l'odore dell'inchiostro. Claudicante a causa delle sue gambe molli e curve, si trascina fino all'obliteratrice. Ora può partire.
Questa scena, ormai, si ripete da due mesi. Ogni sabato, alle quattro in punto. La prima volta, quando arrivai in stazione e lo trovai lì, intento ad armeggiare con quella macchinetta, credetti che fosse un gioco, che si divertisse a schiacciare i tasti, che non potesse viaggiare da solo. Allora fui tentato di dargli una mano, è impossibile non notare la fatica e l'impegno che gli richiede ogni gesto. Non lo feci. Sarebbe stato inutile, ora lo so. Fare il biglietto è una sua responsabilità: deve, e soprattutto vuole, cavarsela da solo. Sa di essere lento e di aver bisogno di tempo, ma non vuole l’aiuto di nessuno. Tutti coloro che si offrono di dargli una mano, si sentono rispondere un secco ma cordiale: «Accio da olo». Nonostante le sue difficoltà ad articolare le parole nessuno potrebbe fraintendere il senso della frase. In realtà, purtroppo o per fortuna, le proposte di aiuto sono poche e sporadiche. La sua presenza infatti per diverse persone è fonte di imbarazzo. Non sapendo cosa dire, come comportarsi, molti semplicemente lo evitano. Evitano la sala d'aspetto, evitano di avvicinarsi ed evitano di rivolgergli la parola. Discutere con Tobia è complicato, molto spesso parla da solo e sembra infastidirsi se qualcuno si intromette. Anche solamente capire che cosa dice non è semplice. Eppure, pochi gli chiedono di ripetere e quasi tutti fingono di capire: sorridono, annuiscono o rispondono un generico "è vero". Lui sembra non farci caso, forse non se ne accorge o forse fa finta di nulla. Chi può dirlo. Sia come sia, poco importa, a Tobia non interessa fare conversazione, deve prendere il treno e raggiungere suo fratello. Lo va a trovare ogni sabato: mangiano la pizza e poi dormono sul divano letto, vicino al camino. Da un po' di tempo a questa parte suo fratello ha adottato un cane, Sam, un testardo e iperattivo beagle. Tobia lo adora, si adorano. Passano ore intere vicini, l’uno accanto all’altro, in silenzio. Da piccolo era la madre a portarlo dal fratello, in macchina. Ma ora Tobia, come dice lui stesso, “è grande” e può prendere il treno da solo. In fondo si tratta solamente di cinque minuti di viaggio.
Lo osservo in disparte, con attenzione. Quando l'altoparlante annuncia l'arrivo del treno, non appena la campanella inizia a tintinnare, assume sempre un'espressione sbigottita. La paura però dura poco: Tobia si tranquillizza, afferra il suo zainetto con dentro pigiama e spazzolino da denti e si reca al primo binario. Anche io prendo questo treno, secondo vagone. Lui sempre il primo. Rimango qualche istante tra le porte del treno per essere sicuro che non ci siano intoppi, che riesca a salire. Se nessuno lo aiuta, afferra la maniglia con decisione e dopo alcuni tentativi sale. Sempre. Il capotreno ormai lo conosce e lo aspetta. È il primo a cui chiede il biglietto, perché sa che questo gli fa piacere: dopo tutto l'impegno che ci ha messo per farlo! Ogni tanto, il capotreno si ferma anche a chiacchierare, ma con scarsi risultati. Una volta salito sul treno, Tobia vuole solo essere sicuro di scendere alla fermata giusta, poco importa se è subito quella successiva. Meglio non distrarsi. È così concentrato che non si sfila nemmeno la giacca. Lo zaino rimane sempre sulle sue spalle. Gran parte del viaggio Tobia lo passa osservando il paesaggio fuori dal finestrino. Quando il treno inizia a rallentare si alza e si avvia verso le porte di uscita. Aprire le porte degli scompartimenti, tirarle verso di sé, richiede molta energia. Troppa per le sue braccia. Per fortuna, come sempre, sarà il capotreno ad aprirle per lui. Stridendo e dondolando il treno si ferma. Tobia si appoggia al corrimano e scende.
Anche io scendo, gli do un’ultima, rapida occhiata e, non appena sono certo che sia tutto a posto, mi dirigo velocemente verso il sottopassaggio. Una volta fuori dalla stazione, in strada, so di avere abbastanza tempo per passare al supermercato sotto casa e comprare i biscotti al cioccolato.

Non appena esco dal negozio, lo vedo camminare lungo il viale alberato. Dopo una ventina di passi, di solito si ferma per qualche tempo. Deve riprendere fiato, le sue gambe non sono fatte per camminare a lungo. La sua forza di volontà, invece, lo porterebbe anche in cima a una montagna. Riparte.
Arrivo davanti al portone di casa. Inserisco la chiave nella toppa ed entro. Il cane mi corre incontro, festoso. Scodinzola energico e cerca di leccarmi le mani. Devo sbrigarmi. Mi dirigo in camera da letto e poso la giacca sull'attaccapanni. Indosso la tuta, inforco le pantofole e lancio i biscotti nella dispensa. Ho giusto il tempo di buttarmi sul divano, accendere la televisione e fingermi mezzo addormentato prima che suoni il campanello.
Raggiungo la porta e recito la mia commedia:
«Chi è?» Come se non lo sapessi.
Non esita nemmeno un secondo e risponde felice: «Io!»
Apro la porta e lo abbraccio.
«Già qui? Sei in anticipo, sei venuto in macchina?» Dico, ridendo.
Sorride, ma non mi guarda. Tobia non guarda nessuno negli occhi. Quando rivolge la parola a qualcuno i suoi occhi sembrano cercare qualcosa, in altro, sopra la testa del suo interlocutore.
«Non ho paente!» Mi risponde, ironico ma deciso. E lentamente entra in casa.
Sam appena lo vede gli salta addosso, abbaiando di felicità. È un cane un po' irruento, per poco non lo fa cadere, ma Tobia non si spaventa, si appoggia al muro e faticosamente fa scivolare lo zaino a terra. Lo afferro prima che cada e gli sfilo delicatamente la giacca.
Piano piano, Tobia si accovaccia fino a sedersi a terra. So quanta fatica gli costi questa semplice azione, ho provato a dirgli che non è obbligato a farlo, se gli fanno male le gambe. Ovviamente non vuol sentire ragioni poiché, come mi ripete spesso: “i piccoli vanno abbracciati”. E in fin dei conti, credo abbia ragione lui: con i piccoli, sono i grandi a doversi abbassare.
Terminate le feste e gli abbracci, lo aiuto ad alzarsi e ci dirigiamo in cucina.
«Guarda cosa c'è nella dispensa!?»
 Apre lo sportello del mobiletto di legno e inizia a ridere.
«I biscotti!» Esclamo io.
«Scotti!» Ripete.
Lo faccio accomodare sulla sua sedia speciale, una sorta di grosso seggiolone con delle bretelle che gli impediscono di cadere in avanti. So che non gli piace, che vorrebbe una sedia normale. E so anche che, probabilmente, non cadrebbe. Però nostra madre si sente più tranquilla a saperlo ancorato là sopra.
Una volta imbrigliato, poggio il pacco di biscotti sul tavolo e scaldo due tazze di latte nel microonde. Sam intanto entra in cucina trotterellando, con in bocca la sua palla blu. Si avvicina alla sedia-seggiolone, la poggia sulle ginocchia di Tobia e attende il lancio. Per le dita di Tobia però, afferrare la palla è un’operazione tutt’altro che semplice e tanto meno veloce. Per fortuna Sam non ha fretta e lo aspetta seduto, fermo e scodinzolante. Chiunque altro avrebbe dovuto inseguire quel cane per tutta la casa prima di riuscire a prendergli quella piccola sfera blu. Ma non Tobia, perché Tobia guarda Sam dritto negli occhi. Lui sì.
Dopo alcuni tentativi, Tobia finalmente artiglia la palla. La solleva sopra la testa, spezza il polso e sferra un formidabile lancio che arriva quasi in corridoio. Sam sfreccia sul pavimento, slittando sulle piastrelle di marmo. A volte ho l'impressione che faccia intenzionalmente il giro più lungo per raggiungere la palla, o che finga di non vederla, per farlo divertire di più. Che animale straordinario, ha molto da insegnare. Soprattutto a me. Già, perché Sam si fida di Tobia, lo tratta come tutti gli altri, solo con un po' più di tatto e delicatezza. Sembra essere in grado di capire quando è necessario limitare l'irruenza ed essere più docile. Non l'ho mai dovuto riprendere o sgridare, ha sempre saputo, perfettamente, in ogni circostanza, che cosa fare e cosa evitare. Io invece, dopo quasi vent'anni, non so ancora come comportarmi. Talvolta non riesco a distinguere il sottile confine tra amore e apprensione. Forse sono la stessa cosa. Amare, in fondo, vuol dire proteggere. E questo è quello che cerco di fare, è il motivo che mi spinge ogni sabato ad andare alla stazione per tenerlo d'occhio. Arrivo circa mezz’ora prima di lui, mi siedo e aspetto. Appena noto l’auto di mia madre mi nascondo. In questi mesi Tobia non mi ha mai visto, oppure ha sempre fatto finta di nulla. In questi mesi non gli è mai successo niente, è sempre andato tutto bene: non ha mai sbagliato binario, non è mai caduto a terra, non lo hanno mai derubato e non ha mai rischiato di finire sotto a un treno. In questi mesi ho capito che è perfettamente in grado di fare questo piccolo-grande viaggio. Certo, gli occorre più tempo per fare il biglietto come per salire sul treno, però riesce a fare tutto, con i suoi tempi e i suoi modi, ma ce la fa.
Sono io che, invece, non ce la faccio, che sono costretto ogni settimana a fare la solita, identica, sceneggiata. Non è una questione di tempo perso, intendiamoci, il fatto è che a volte mi sento in colpa. Come se lo stessi ingannando. Per lui è molto importante credere che io nutra abbastanza fiducia per farlo viaggiare da solo. Ha dovuto lottare molto come me, e soprattutto con nostra madre, per ottenere questa libertà. Ha anche imparato a usare il cellulare, mi chiama spesso. Insomma, Tobia è pronto, sono io a non esserlo.
Il fatto è che questi anni insieme non sono stati una passeggiata. Spesso è andato in crisi per delle cose così banali. Almeno ai miei occhi. Il bicchiere riempito troppo, il fatto che due o più alimenti si toccassero nel piatto, il colore delle maglie che indossava. Tutto ciò che esula dalla sua routine è una potenziale fonte di stress e paura. Anche questo piccolo, insulso viaggio di cinque minuti potrebbe scatenare una delle sue violente crisi. Finora non è mai successo, ma potrebbe. Il solo pensiero non mi fa dormire la notte. Ogni sabato mattina mi riprometto di non andare in stazione, di non spiarlo, di rispettare la sua indipendenza. Poi, inesorabilmente, la paura prende in sopravvento e corro a fare il biglietto. Ogni volta ripeto a me stesso: “questa è l'ultima”.
Il timer del forno a microonde suona. Il latte è pronto. Tiro fuori le tazze e afferro due cucchiaini. Gli faccio aprire il pacco di biscotti, ne va matto. Può sembrare una stupidaggine ma, vista la ridotta mobilità delle sue mani, anche i gesti più semplici come aprire un barattolo o premere un interruttore, possono diventare imprese molto impegnative. Che sia merito suo o di chi ha ideato la confezione, sta di fatto che questo pacco, questi biscotti, per Tobia non hanno segreti. Verso un cucchiaino di zucchero nella sua tazza e gliela poggio davanti. Il cucchiaio arancione, il suo preferito, è avvolto nella sua accartocciata mano destra. Nella sinistra, saldamente pinzato tra l'indice e il medio, il primo biscotto sta per essere inzuppato.
Lo osservo con affetto mentre sorseggio il mio latte. È felice, lo vedo. E anche io lo sono. In questi momenti mi sembra che tutto vada bene, che il peggio sia passato, che le cose non possano che migliorare. “Andrà bene, andrà tutto bene” mi ripeto.
Questa volta è stata davvero l'ultima, promesso.

Marcello Ranieri - Due fratelli

Salì a Cadorna e venne a sedersi di fronte a me nell'unico posto libero, non mi aveva proprio visto. Viveva in via Tovaglie, sapevo, a un passo da casa nostra, ma non ci vedevamo da anni. Lo fissai, non mi aveva ancora notato. Portava i capelli molto corti, ed era invecchiato. Dovevo avere un'espressione tesa perché il cuore mi batteva forte per lo sconcerto. Fra tutte le cose che potevano passarmi per la testa in quel momento, mi tornò in mente, non so perché, un pomeriggio che avevamo trascorso da bambini a casa di una famiglia di amici dei nostri nonni. Doveva essere piena estate, anche se a giocare all'aperto non soffrivamo il caldo, mi sembra. Io avrò avuto sette anni, andavo già a scuola, lui cinque. Ricordo bene i nostri nonni chiacchierare sotto la veranda con i padroni di casa, mentre noi eravamo liberi di girare nell'aia e nei campi lì attorno, nessuno ci faceva caso. Non so chi fossero quelle persone che eravamo andati a trovare, evidentemente delle vecchie conoscenze a cui nonno o nonna avevano deciso di fare un'improvvisata senza neanche telefonare prima per vedere se li avrebbero trovati a casa, non ci erano abituati, il tempo era la loro ricchezza. Mentre ci riposavamo seduti a terra sotto l'ombra di un albero che, poco distante dalla casa e dalle rimesse dei trattori, era l'unico in mezzo a un campo di grano appena mietuto, riarso dal sole, mi urlò “Guarda! Il maggiolino!”. Ne aveva visto uno accanto al suo braccio, sul tronco a cui ci eravamo appoggiati tutti e due con la schiena. Mi voltai e mi misi in ginocchio per guardarlo di fronte. Fece anche lui così. In città non li avevamo mai visti, ma nelle lunghe estati con i nonni ci avevano abituato a lasciarli andare, erano insetti buoni. Sapevo che era innocuo e gli misi un dito davanti, mentre avanzava sulla corteccia del tronco. Ci salì e me lo trovai sull'unghia. Iniziò a procedere. Paolo dopo l'ammirazione iniziale per il mio atto audace ebbe un sussulto “Ti pizzica il dito!”. Gli risposi “Non fanno niente”. Veramente, ero emozionato nel vedere per la prima volta così da vicino quell'insetto bellissimo, di un rosso lucido come appena verniciato e coi tondini neri invece opachi, e, a sentirmelo camminare sulla pelle, un po' di timore che nonostante quello che dicessero nonno e nonna un potere urticante o in qualche modo nocivo potesse averlo, mi venne, ma durò poco: aveva già aperto le due metà della sua corazza sotto le quali spuntarono due ali inaspettate, scure ma trasparenti, con cui spiccò un volo quasi inverosimile per tornare a posizionarsi sul tronco dove l'avevo prelevato. Eravamo meravigliati, ma anche un po' piccati da quella dichiarazione d'indipendenza. Paolo si mise in piedi e si avvicinò di più al tronco per prendere anche lui il maggiolino sulla mano. Glielo lasciai fare, ma quando se lo trovò sulla mano la scrollò per farlo volare via, con lo sguardo spaventato. Il maggiolino cadde per un tratto nell'aria, ma riuscì a prendere il volo prima di arrivare a terra e a tornare dov'era. “Ma che fai!” lo richiamai, “Si fa male!”. E lui quasi si mise a piangere. “Guarda come si fa” dissi e provai a riprenderlo, ma ora il maggiolino sembrava sospettoso, come se non volesse più fidarsi delle nostre dita. Mi balenò un'idea e dissi a Paolo “Vieni”. Mi seguiva sempre volentieri e preferii averlo con me piuttosto che lasciarlo solo a provare di catturare l'insetto con il rischio di nuocergli. Corsi nell'aia alla macchina di nonno, di cui conoscevo ogni segreto, per essermici annoiato dentro centinaia di volte. Aprii lo sportello e sentii che nonno dalla sua seggiola all'ombra mi chiedeva che cosa cercassi. Gli rispose Paolo, “Abbiamo trovato il maggiolino!”. Lo redarguii con lo sguardo, gli adulti ripresero a chiacchierare, mi fu facile prendere la scatola dei fiammiferi dal cruscotto e nascondermela in tasca. Paolo non capiva, ma stette in silenzio e mi seguì di nuovo fino all'albero. Il maggiolino era lì, sul tronco e dissi “Lo portiamo a casa”. Era una di quelle scatole con il cassetto scorrevole, lo aprii e la affidai a Paolo. Dentro erano rimasti pochi fiammiferi, Paolo rimase a guardarli, mentre io mi avvicinavo e appoggiavo di nuovo la mano sul tronco, vicino all'insetto, aspettando che mi salisse sulle dita. Lo fece, dopo un po', come se avesse ritrovato la fiducia e mi avvicinai la mano agli occhi per guardarlo meglio. Le zampe erano altrettanto interessanti del resto, avevano la forma perfetta per aggrapparsi a tutto. Piano piano avvicinai la mano alla scatolina e Paolo me la mise attaccata per facilitarmi il compito. Trepidavamo al pensiero che riprendesse il volo, ma il maggiolino non lo fece. Nel camminarmi sulla mano, solleticandomene il dorso, fu facile farlo cadere nel cassettino tra i fiammiferi. Rimase rovesciato sulla schiena con le zampe all'aria agitandole e Paolo diede una piccola scossa alla scatola; brontolai, ma il maggiolino era di nuovo in piedi, come desideravamo. “Chiudi!” quasi gridai, e Paolo ci provò, ma non era capace. Gli presi la scatola e lo feci io. Dopo un attimo la avvicinai a lui di nuovo e ne aprii uno spiraglio, guardando dentro anch'io, di traverso, per evitare che il maggiolino ne approfittasse per volare via. Era lì, e non sembrava affatto volersene andare. Restava fermo sui pochi fiammiferi e pareva aver trovato pace. Richiusi e tenni la scatola in piano, dicendo a Paolo di seguirmi. Tornammo alla macchina, parcheggiata all'ombra, e una volta entrato a sedere Paolo mi guardò riaprire un attimo la scatolina per assicurarmi che il maggiolino ci fosse, e poi richiuderla subito, prima di rimetterla al suo posto nel cruscotto. Feci finta di nulla per un po', poi scesi e Paolo mi seguì di nuovo fino a un punto dell'aia dove ci si poteva sedere. Gli adulti, distanti, stavolta non ci avevano notato, presi dalla conversazione. Paolo mi chiese dove avremmo tenuto il maggiolino, nella nostra cameretta. Gli risposi che potevamo fargli una casa con il cartone, prendendo la scatola delle scarpe. Parlammo un po' di come si poteva costruire la casetta e poi ci mettemmo a giocare a rincorrerci. Per un po' ci dimenticammo tutto, ma poi l'emozione della novità ci riportò sull'argomento. A lungo quel pomeriggio giocammo così, alternando i momenti di corsa o di nascondino a quelli passati a chiacchierare di quello che avremmo fatto con il maggiolino. Una volta Paolo si nascose nella macchina e quando lo trovai rannicchiato sul tappetino del passeggero, proprio vicino allo sportello del cruscotto, mi venne voglia di guardare, ma corsi a fare tana e poi vidi che nostro nonno era venuto a controllare che tutto fosse a posto. Ci fermammo con lui e temetti che Paolo si lasciasse sfuggire il nostro segreto, ma andò tutto bene. Nonno ci disse di non combinare guai, poco convinto che non gli stessimo nascondendo qualcosa e tornò all'ombra a chiacchierare, in piedi, come per accomiatarsi, ma senza prendere la decisione. Avemmo tutto il tempo di giocare ancora e, quando fu il momento di andare, i signori che ci avevano ospitati ci invitarono a tornare a trovarli. Andando a casa, sul sedile di dietro non stavamo nella pelle per la voglia di raccontare tutto a nonna e nonno che ci chiedevano se ci eravamo divertiti, ma ci scambiavamo sguardi complici in silenzio. Una volta arrivati, presi per mano Paolo e lo tirai con me giù dalla macchina per andare un po' a giocare, mentre i nostri nonni aprivano la porta e si accingevano ai preparativi per la cena. Dopo un po', furtivamente, dissi a Paolo che dovevamo andare a prendere il nostro maggiolino. Nonno aveva acceso la televisione e fu facile aprire la macchina nell'aia di casa senza che nessuno ci badasse. Presi con delicatezza la scatolina, richiusi lo sportello e andammo nella nostra cameretta. Preparai la scatola di scarpe e Paolo mi chiese “Che cosa gli mettiamo da mangiare?”. “L'insalata” risposi, rimandando a dopo. Tutto era pronto, eravamo emozionatissimi. Aprii con cautela il cassetto solo un po', per guardare dentro. Non si vedeva nient'altro che le capocchie azzurre dei fiammiferi e piano piano aprii un po' di più, finché il cassetto scorse tutto. Il maggiolino non si vedeva. Appoggiai la scatoletta sul letto e iniziai a togliere i pochi fiammiferi, temendo di trovarci sotto l'insetto schiacciato. Paolo mi osservava, interrogativo. Quando appoggiai gli ultimi sul letto e vidi che il maggiolino proprio non c'era più, diedi un colpo con la mano sulla coperta per il nervoso e i fiammiferi saltarono cadendo in parte sul pavimento. “Dove l'hai messo?” gridai a Paolo. Ma lui mi disse che non aveva toccato niente, e si mise a piangere. Arrivò mia nonna, che mi sgridò e mi ordinò di raccogliere subito i fiammiferi e di rimettere la scatola a posto. Volle sapere perché avevamo litigato e si mise a consolare il piccolo, portandolo con sé in cucina. Rimasi solo, meditando una vendetta che le patate fritte a cena mi avrebbero fatto dimenticare.
Ora eravamo su un tram, alla fine di un giorno lavorativo. Pioveva, Paolo era seduto di fronte a me ma non mi aveva ancora visto. Rimase assorto in chissà quali pensieri per tutto il tragitto, mentre io lo guardavo senza sapere come comportarmi. Quando alla fine si accorse di me ebbe un moto negli occhi, qualcosa che durò un attimo e fu indecifrabile. Non posso dire se assieme alla sorpresa abbia provato la gioia istintiva di rivedere suo fratello dopo tanto tempo, ma sia riuscito a soffocarla un istante dopo nell'orgoglio, oppure se gli sia tornata la rabbia per gli episodi che attorno ai trent'anni ci avevano allontanato e che dopo un accesso d'ira sia riuscito a contenersi per non darmi la soddisfazione di mostrarsi ancora ferito. Immediatamente si ricompose e, girandosi da un'altra parte, si preparò per scendere alla fermata. Eravamo così vicini.

venerdì 28 giugno 2019

Stefano Ficagna - Una leggerezza

L'unica cosa certa, in tutta questa storia, è che mentre lui inizia a disegnare lei non tira neanche un fiato.
Il suo ruolo negli avvenimenti fu accettato con leggerezza, la stessa che ostentavano i sei fazzoletti di lino bianco che stringeva in mano. Una tassa d'entrata inusuale, un vezzo di eleganza di dubbia utilità in luoghi dove ogni movimento costa sudore. Il sole in quel villaggio sembra camminare al tuo fianco, ma il suo abbraccio non è per niente benevolo. Soffoca.
Dei fazzoletti ricamati, a pochi passi dalla giungla, rappresentano una bellezza effimera. Un esotismo al contrario, laddove esotico è qualunque simbolo di lande che forse non vedremo mai.
La regione intera era un miraggio prima che potesse vederla coi suoi occhi. Ciò che gli veniva raccontato di quei luoghi era tanto inverosimile da provocare una reazione consolidata sul suo volto: il sopracciglio sinistro arricciato verso il basso; quello destro, una linea retta verso l'alto, come un accento; la fronte increspata di rughe.
E gli occhi, tanto fissi quanto distanti, persi in chissà quale ragionamento. Partecipare alla spedizione era stata una sfida, ai propri limiti fisici certo ma non di meno a quelli della propria mente.
Voleva vedere, toccare con mano. Come un novello San Tommaso necessitava dei sensi per credere a un mondo diverso da quello in cui era cresciuto. Innumerevoli viaggi non lo avevano abituato alla varietà del creato, perché gli agi della propria ricchezza gli facevano da schermo.
La curiosità di entrare finalmente in contatto con qualcosa di autentico lo spinse ad agire. L'espressione corrucciata, quella distanza fra la linea dello sguardo e l'effettivo orizzonte che i suoi occhi vedevano, furono stigmate che non lo abbandonarono nemmeno in quella terra dove l'impossibile appariva reale.
E a chi gli promise di mostrargli qualcosa di cui non sospettava l'esistenza, un atto al quale nemmeno calpestare quella terra e respirare l'aria pesante e umida lo avevano preparato, egli riservò leggerezza e incredulità in egual misura.

Camminarono a lungo, un piccolo drappello scelto. Eterogeneo e insolito, dagli abiti al colore della pelle finanche all'età. Lui si lasciava guidare, ogni tanto gettava un'occhiata distratta al tributo che andava recando, ma i suoi occhi si fissavano oltre. Incapaci di fissarsi sul presente, cercavano segni di qualcosa di là da venire.
Risposte, a domande nemmeno troppo chiare nella sua testa.
Arrivarono al villaggio successivo accolti da una deferenza eccessiva, solitamente riservata solo a ospiti importanti o temuti. A quale categoria appartenesse il drappello lo testimoniavano piccoli dettagli. Occhi rivolti verso il basso, sorrisi incerti, piccoli tremori delle mani.
Abituati alla crudeltà, gli abitanti del villaggio associano l'uomo bianco alla paura. Il suo arrivo getta sempre un'ombra sugli eventi, e al tramonto la si può vedere che si allunga dai loro piedi, assumendo le più svariate forme. Una nave che solca il mare, un ammasso di catene.
E una montagna di mani tagliate, che hanno smesso per sempre di tremare.
La paura era il minimo comune denominatore che legava i due gruppi, e sfuggivano alle sue grinfie solo i più forti e gli innocenti. O chi, come l'uomo che si avvicinò al capo villaggio, era presente col corpo ma non con lo spirito.
Guardarono la sua ombra, ma il sole era allo zenit ed essa ristagnava neutra sotto di lui. Ci si poteva aspettare qualunque cosa, ma egli recava con sé un dono e per il capo villaggio quello era un buon presagio.
Il dono avanzò. Sembrava leggera quanto il lino di cui erano composti i fazzoletti con cui era stata scambiata, o forse era l'innocenza dei suoi dieci anni a renderla tale. Non tremò di fronte agli uomini a cui veniva ceduta, nemmeno al cospetto di colui che l'aveva comprata.
Ma alla voce di quest'ultimo, alla sua richiesta espressa in una lingua che masticava a malapena, un sospiro le sfuggì dalle labbra.

La sacralità di ciò che sta per accadere è rotta solo da pochi rumori, coltelli che vengono affilati, una matita che corre veloce sul foglio. Per la tribù tutto questo non è una novità, ma sentono che oggi qualcosa di diverso permea l'aria.
Forse lo sente anche la ragazza, legata a un albero e come arresa al suo destino. Gli occhi fissano qualcosa di indefinito, ma quando un uomo le si avvicina con la lama al fianco non riesce a impedirsi di guardare.
Due rapidi tagli al ventre, due strisce rosse che si allargano. Il sangue le cola lungo il corpo, ma il dolore non trova sfogo sulle sue labbra serrate.
Intanto l'uomo bianco osserva, mantenendo quell'espressione incredula sempre fissa sul volto. Distoglie lo sguardo solo per girare un foglio, ricominciare a disegnare, tratteggiare ogni dettaglio di quello strazio.
Gli uomini della tribù continuano ad affilare i coltelli. La cerimonia è solo all'inizio, ma la ragazza non ne vedrà la fine. Ogni minuto che passa gli occhi sono meno lucidi, le gambe meno salde, eppure continua a non emettere un lamento.
Sembra formarsi un legame fra lei e l'uomo che l'ha condannata a quel supplizio. Forse c'è un motivo per tanta crudeltà, e il suo martirio è anche estasi. Cosa vede? È ancora il nostro mondo che osserva?
E lui, quanto è consapevole del suo ruolo negli eventi? La sua leggerezza nel cercare prove di una pratica che non credeva vera gli fa orrore, oppure è insensibile di fronte al male? Quella goccia che scorre veloce dalla sua tempia al mento, spazzata via con un veloce gesto della mano, potrebbe essere sofferenza fisica quanto dell'animo, ma sul volto non appaiono moti di pentimento.
Quando la ragazza muore, lui continua a disegnare. Anche quando iniziano a farla a pezzi la sua matita corre veloce sul foglio, tratteggia una lama calata sul braccio, le viscere calde estratte dal ventre, l'acqua che monda le lame una volta finito il massacro.
Forse è stato davvero un momento sacro. Gli uomini della tribù renderanno onore alla vittima divorandone le carni, e l'uomo bianco potrà convincersi che il suo ruolo nella vicenda era scritto nel libro del destino. Che non esistono martiri senza un carnefice, e per ogni santo ci sono un uomo o una donna che ne hanno permesso l'ascensione, non meno degni di beatitudine.
O forse un demone si è rivelato al mondo, e non si è nemmeno riconosciuto.

(Ispirato alla vera storia del Jameson Affair, vicenda accaduta nel 1886 durante la sanguinosa occupazione del Congo da parte di Re Leopoldo II del Belgio)