mercoledì 3 luglio 2019

Andrea Scarscelli - Biscotti e rotaie

Le dita rigide e contratte picchiettano incerte lo schermo. Lo sguardo fissa un punto indefinito sul muro. Periodicamente, inesorabilmente, un leggero tremolio si impossessa delle sue mani. Niente panico: contrae i muscoli, irrigidisce le gambe e respira, adagio. Gli spasmi durano pochi secondi, poi il volto torna disteso, le labbra sorridenti. Abbassa leggermente la testa all'indietro e guarda l'orologio. È in anticipo, come sempre. La macchinetta intanto inizia a ronzare. Scava nella tasca della giacca ed estrare una monetina, lucida e dorata, che inserisce con fatica nella fessura. Riconoscente, l’amico meccanico sputa fuori la sua piccola linguetta di carta. L’annusa. Tobia ama l'odore dell'inchiostro. Claudicante a causa delle sue gambe molli e curve, si trascina fino all'obliteratrice. Ora può partire.
Questa scena, ormai, si ripete da due mesi. Ogni sabato, alle quattro in punto. La prima volta, quando arrivai in stazione e lo trovai lì, intento ad armeggiare con quella macchinetta, credetti che fosse un gioco, che si divertisse a schiacciare i tasti, che non potesse viaggiare da solo. Allora fui tentato di dargli una mano, è impossibile non notare la fatica e l'impegno che gli richiede ogni gesto. Non lo feci. Sarebbe stato inutile, ora lo so. Fare il biglietto è una sua responsabilità: deve, e soprattutto vuole, cavarsela da solo. Sa di essere lento e di aver bisogno di tempo, ma non vuole l’aiuto di nessuno. Tutti coloro che si offrono di dargli una mano, si sentono rispondere un secco ma cordiale: «Accio da olo». Nonostante le sue difficoltà ad articolare le parole nessuno potrebbe fraintendere il senso della frase. In realtà, purtroppo o per fortuna, le proposte di aiuto sono poche e sporadiche. La sua presenza infatti per diverse persone è fonte di imbarazzo. Non sapendo cosa dire, come comportarsi, molti semplicemente lo evitano. Evitano la sala d'aspetto, evitano di avvicinarsi ed evitano di rivolgergli la parola. Discutere con Tobia è complicato, molto spesso parla da solo e sembra infastidirsi se qualcuno si intromette. Anche solamente capire che cosa dice non è semplice. Eppure, pochi gli chiedono di ripetere e quasi tutti fingono di capire: sorridono, annuiscono o rispondono un generico "è vero". Lui sembra non farci caso, forse non se ne accorge o forse fa finta di nulla. Chi può dirlo. Sia come sia, poco importa, a Tobia non interessa fare conversazione, deve prendere il treno e raggiungere suo fratello. Lo va a trovare ogni sabato: mangiano la pizza e poi dormono sul divano letto, vicino al camino. Da un po' di tempo a questa parte suo fratello ha adottato un cane, Sam, un testardo e iperattivo beagle. Tobia lo adora, si adorano. Passano ore intere vicini, l’uno accanto all’altro, in silenzio. Da piccolo era la madre a portarlo dal fratello, in macchina. Ma ora Tobia, come dice lui stesso, “è grande” e può prendere il treno da solo. In fondo si tratta solamente di cinque minuti di viaggio.
Lo osservo in disparte, con attenzione. Quando l'altoparlante annuncia l'arrivo del treno, non appena la campanella inizia a tintinnare, assume sempre un'espressione sbigottita. La paura però dura poco: Tobia si tranquillizza, afferra il suo zainetto con dentro pigiama e spazzolino da denti e si reca al primo binario. Anche io prendo questo treno, secondo vagone. Lui sempre il primo. Rimango qualche istante tra le porte del treno per essere sicuro che non ci siano intoppi, che riesca a salire. Se nessuno lo aiuta, afferra la maniglia con decisione e dopo alcuni tentativi sale. Sempre. Il capotreno ormai lo conosce e lo aspetta. È il primo a cui chiede il biglietto, perché sa che questo gli fa piacere: dopo tutto l'impegno che ci ha messo per farlo! Ogni tanto, il capotreno si ferma anche a chiacchierare, ma con scarsi risultati. Una volta salito sul treno, Tobia vuole solo essere sicuro di scendere alla fermata giusta, poco importa se è subito quella successiva. Meglio non distrarsi. È così concentrato che non si sfila nemmeno la giacca. Lo zaino rimane sempre sulle sue spalle. Gran parte del viaggio Tobia lo passa osservando il paesaggio fuori dal finestrino. Quando il treno inizia a rallentare si alza e si avvia verso le porte di uscita. Aprire le porte degli scompartimenti, tirarle verso di sé, richiede molta energia. Troppa per le sue braccia. Per fortuna, come sempre, sarà il capotreno ad aprirle per lui. Stridendo e dondolando il treno si ferma. Tobia si appoggia al corrimano e scende.
Anche io scendo, gli do un’ultima, rapida occhiata e, non appena sono certo che sia tutto a posto, mi dirigo velocemente verso il sottopassaggio. Una volta fuori dalla stazione, in strada, so di avere abbastanza tempo per passare al supermercato sotto casa e comprare i biscotti al cioccolato.

Non appena esco dal negozio, lo vedo camminare lungo il viale alberato. Dopo una ventina di passi, di solito si ferma per qualche tempo. Deve riprendere fiato, le sue gambe non sono fatte per camminare a lungo. La sua forza di volontà, invece, lo porterebbe anche in cima a una montagna. Riparte.
Arrivo davanti al portone di casa. Inserisco la chiave nella toppa ed entro. Il cane mi corre incontro, festoso. Scodinzola energico e cerca di leccarmi le mani. Devo sbrigarmi. Mi dirigo in camera da letto e poso la giacca sull'attaccapanni. Indosso la tuta, inforco le pantofole e lancio i biscotti nella dispensa. Ho giusto il tempo di buttarmi sul divano, accendere la televisione e fingermi mezzo addormentato prima che suoni il campanello.
Raggiungo la porta e recito la mia commedia:
«Chi è?» Come se non lo sapessi.
Non esita nemmeno un secondo e risponde felice: «Io!»
Apro la porta e lo abbraccio.
«Già qui? Sei in anticipo, sei venuto in macchina?» Dico, ridendo.
Sorride, ma non mi guarda. Tobia non guarda nessuno negli occhi. Quando rivolge la parola a qualcuno i suoi occhi sembrano cercare qualcosa, in altro, sopra la testa del suo interlocutore.
«Non ho paente!» Mi risponde, ironico ma deciso. E lentamente entra in casa.
Sam appena lo vede gli salta addosso, abbaiando di felicità. È un cane un po' irruento, per poco non lo fa cadere, ma Tobia non si spaventa, si appoggia al muro e faticosamente fa scivolare lo zaino a terra. Lo afferro prima che cada e gli sfilo delicatamente la giacca.
Piano piano, Tobia si accovaccia fino a sedersi a terra. So quanta fatica gli costi questa semplice azione, ho provato a dirgli che non è obbligato a farlo, se gli fanno male le gambe. Ovviamente non vuol sentire ragioni poiché, come mi ripete spesso: “i piccoli vanno abbracciati”. E in fin dei conti, credo abbia ragione lui: con i piccoli, sono i grandi a doversi abbassare.
Terminate le feste e gli abbracci, lo aiuto ad alzarsi e ci dirigiamo in cucina.
«Guarda cosa c'è nella dispensa!?»
 Apre lo sportello del mobiletto di legno e inizia a ridere.
«I biscotti!» Esclamo io.
«Scotti!» Ripete.
Lo faccio accomodare sulla sua sedia speciale, una sorta di grosso seggiolone con delle bretelle che gli impediscono di cadere in avanti. So che non gli piace, che vorrebbe una sedia normale. E so anche che, probabilmente, non cadrebbe. Però nostra madre si sente più tranquilla a saperlo ancorato là sopra.
Una volta imbrigliato, poggio il pacco di biscotti sul tavolo e scaldo due tazze di latte nel microonde. Sam intanto entra in cucina trotterellando, con in bocca la sua palla blu. Si avvicina alla sedia-seggiolone, la poggia sulle ginocchia di Tobia e attende il lancio. Per le dita di Tobia però, afferrare la palla è un’operazione tutt’altro che semplice e tanto meno veloce. Per fortuna Sam non ha fretta e lo aspetta seduto, fermo e scodinzolante. Chiunque altro avrebbe dovuto inseguire quel cane per tutta la casa prima di riuscire a prendergli quella piccola sfera blu. Ma non Tobia, perché Tobia guarda Sam dritto negli occhi. Lui sì.
Dopo alcuni tentativi, Tobia finalmente artiglia la palla. La solleva sopra la testa, spezza il polso e sferra un formidabile lancio che arriva quasi in corridoio. Sam sfreccia sul pavimento, slittando sulle piastrelle di marmo. A volte ho l'impressione che faccia intenzionalmente il giro più lungo per raggiungere la palla, o che finga di non vederla, per farlo divertire di più. Che animale straordinario, ha molto da insegnare. Soprattutto a me. Già, perché Sam si fida di Tobia, lo tratta come tutti gli altri, solo con un po' più di tatto e delicatezza. Sembra essere in grado di capire quando è necessario limitare l'irruenza ed essere più docile. Non l'ho mai dovuto riprendere o sgridare, ha sempre saputo, perfettamente, in ogni circostanza, che cosa fare e cosa evitare. Io invece, dopo quasi vent'anni, non so ancora come comportarmi. Talvolta non riesco a distinguere il sottile confine tra amore e apprensione. Forse sono la stessa cosa. Amare, in fondo, vuol dire proteggere. E questo è quello che cerco di fare, è il motivo che mi spinge ogni sabato ad andare alla stazione per tenerlo d'occhio. Arrivo circa mezz’ora prima di lui, mi siedo e aspetto. Appena noto l’auto di mia madre mi nascondo. In questi mesi Tobia non mi ha mai visto, oppure ha sempre fatto finta di nulla. In questi mesi non gli è mai successo niente, è sempre andato tutto bene: non ha mai sbagliato binario, non è mai caduto a terra, non lo hanno mai derubato e non ha mai rischiato di finire sotto a un treno. In questi mesi ho capito che è perfettamente in grado di fare questo piccolo-grande viaggio. Certo, gli occorre più tempo per fare il biglietto come per salire sul treno, però riesce a fare tutto, con i suoi tempi e i suoi modi, ma ce la fa.
Sono io che, invece, non ce la faccio, che sono costretto ogni settimana a fare la solita, identica, sceneggiata. Non è una questione di tempo perso, intendiamoci, il fatto è che a volte mi sento in colpa. Come se lo stessi ingannando. Per lui è molto importante credere che io nutra abbastanza fiducia per farlo viaggiare da solo. Ha dovuto lottare molto come me, e soprattutto con nostra madre, per ottenere questa libertà. Ha anche imparato a usare il cellulare, mi chiama spesso. Insomma, Tobia è pronto, sono io a non esserlo.
Il fatto è che questi anni insieme non sono stati una passeggiata. Spesso è andato in crisi per delle cose così banali. Almeno ai miei occhi. Il bicchiere riempito troppo, il fatto che due o più alimenti si toccassero nel piatto, il colore delle maglie che indossava. Tutto ciò che esula dalla sua routine è una potenziale fonte di stress e paura. Anche questo piccolo, insulso viaggio di cinque minuti potrebbe scatenare una delle sue violente crisi. Finora non è mai successo, ma potrebbe. Il solo pensiero non mi fa dormire la notte. Ogni sabato mattina mi riprometto di non andare in stazione, di non spiarlo, di rispettare la sua indipendenza. Poi, inesorabilmente, la paura prende in sopravvento e corro a fare il biglietto. Ogni volta ripeto a me stesso: “questa è l'ultima”.
Il timer del forno a microonde suona. Il latte è pronto. Tiro fuori le tazze e afferro due cucchiaini. Gli faccio aprire il pacco di biscotti, ne va matto. Può sembrare una stupidaggine ma, vista la ridotta mobilità delle sue mani, anche i gesti più semplici come aprire un barattolo o premere un interruttore, possono diventare imprese molto impegnative. Che sia merito suo o di chi ha ideato la confezione, sta di fatto che questo pacco, questi biscotti, per Tobia non hanno segreti. Verso un cucchiaino di zucchero nella sua tazza e gliela poggio davanti. Il cucchiaio arancione, il suo preferito, è avvolto nella sua accartocciata mano destra. Nella sinistra, saldamente pinzato tra l'indice e il medio, il primo biscotto sta per essere inzuppato.
Lo osservo con affetto mentre sorseggio il mio latte. È felice, lo vedo. E anche io lo sono. In questi momenti mi sembra che tutto vada bene, che il peggio sia passato, che le cose non possano che migliorare. “Andrà bene, andrà tutto bene” mi ripeto.
Questa volta è stata davvero l'ultima, promesso.

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