martedì 26 giugno 2018

Clara Tacchi - Quello che conta

(racconto breve in ricordo di un uomo perbene)

Era una gelida giornata di dicembre.
Sembra l’inizio di un  commovente racconto di Dickens, lo so, ma la storia che sto per raccontare non se ne discosta poi tanto.
Era una gelida giornata di dicembre, dicevo, quando mio padre salì su un treno per Milano, diretto all’abitazione di un uomo, un poveruomo, che da tempo gli doveva dei soldi.
A questo gesto era stato costretto da mia madre, e solo a distanza di molti anni, troppi, riesco a comprendere le sue ragioni, e a perdonarla. Allora lo vissi solamente come una costrizione, una violenza nei confronti di mio padre.
 Anche lui, agli occhi delle persone o meglio della cosiddetta “buona società”, poteva apparire come un poveruomo, un perdente. Unico figlio di una famiglia benestante, aveva ereditato da suo padre una piccola fabbrica che lavorava il ferro, come tanti in quegli anni, nella cittadina in cui vivevamo.
Ma tutto era andato storto. Dopo alcuni anni la fabbrica era fallita, in seguito ad alcune scelte avventate dovute, credo, al carattere ingenuo e ottimista di mio padre, che non aveva certo l’indole dell’imprenditore senza scrupoli.
Ricordo ancora, con pena, un giorno di quel triste periodo, in cui tutto sembrava andare in rovina, nella nostra famiglia. Lui era seduto di fronte a me a tavola, ed eravamo soli. Non so dove fossero mia madre e le mie sorelle. Non c’erano, anche perché in quel momento non era facile stare insieme. Senza neppure guardarmi, senza alzare gli occhi dal piatto disse con amarezza: “Quando morirò, la gente dirà: E’ morto un cretino”. Inutili, o forse no, le mie parole di protesta, le mie assicurazioni che no, non era vero, che per noi figlie lui era sempre stato un uomo da ammirare, un padre meraviglioso sempre pronto ad ascoltarci, a consolarci per le nostre piccole o grandi delusioni.
Il suo fallimento aveva ovviamente trascinato la famiglia in una situazione difficile, che non eravamo preparati ad affrontare. Si viveva solo con lo stipendio da insegnante di mia madre, ma quei soldi non bastavano per vivere, e per pagare tutti i debiti che lui aveva contratto e che voleva ripagare.
Partì dunque per Milano, quel giorno, con l’animo prostrato dai sensi di colpa verso la sua famiglia ma anche verso quell’uomo a cui avrebbe chiesto dei soldi, e che sapeva trovarsi in grande difficoltà. La sua situazione era, con ogni probabilità, ancora pù grave della nostra.
Tornò tardi, con un treno della sera. Tra le mani teneva una scatola di fazzoletti da uomo, bianchi.  Mia madre lo apostrofò subito – era ancora sulla soglia –chiedendogli ragione dei soldi che avrebbe dovuto riscuotere.
Ricordo ancora la sua espressione, avvilita e stanca, quando le rispose, quasi balbettando, che no, quei soldi non li aveva. Era entrato nella casa di quell’uomo, in quel gelido pomeriggio di dicembre, e aveva visto lo squallore, la miseria: nelle stanze semibuie i mobili non c’erano più, se li era portati via un ufficiale giudiziario, e quell’uomo non aveva più nulla, neanche i soldi per comprarsi da mangiare.
Mio padre non aveva avuto il coraggio di chiedergli nulla e l’altro, forse illudendosi di saldare in qualche modo il suo debito, gli aveva dato quella scatola di fazzoletti, che vendeva come rappresentante prima del suo crollo.
Non voglio ricordare la lite violenta che ne scaturì, con mia madre che urlava contro di lui una sequela di insulti e di parole di disprezzo. Preferisco dimenticare, perché fa ancora troppo male.
Una cosa, però, la ricordo con chiarezza, come se fosse accaduta ieri. Mentre con le mie sorelle assistevo a quella scena, in preda ad una rabbia impotente, ad un tratto sentii affiorare nella mia mente i primi versi di una poesia di Camillo Sbarbaro, versi che avevo sempre amato:
“PADRE, SE ANCHE TU NON FOSSI MIO PADRE / SE ANCHE FOSSI A ME UN ESTRANEO / PER  TE  STESSO  EGUALMENTE  TI  AMEREI”.
Così era allora e così è anche adesso, a distanza di 34 anni dalla sua morte.


Per alcune persone della mia famiglia, scrivere ha spesso rappresentato un modo per superare momenti difficili. A loro dedico questo racconto, e la mia gratitudine per aver sempre condiviso con me questa esperienza 

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