sabato 29 aprile 2017

Andrea Martini - Parole, davanti al mare

Riviera Ligure, Luglio 1976
Avevo notato per la prima volta la ragazza – splendida e giovanissima- un pomeriggio di sabato. Stava lì, quasi immobile, seduta sulla barriera degli scogli, al limitare del prato nel piccolo cimitero del borgo del Levante, affacciato sul mare, in quel luglio poco dopo il giro di boa degli anni '70.
            I miei genitori avevano penato parecchio a trascinarmi, sedicenne inquieto e con gli amici tutti rimasti a Monza, nelle loro due settimane di assolata vacanza balneare in Riviera.
            Anno dopo anno, sgomitavo inquieto per conquistare i miei spazi di libertà: fantasticavo di viaggi in treno lungo le rotte dell'Europa col biglietto Inter-Rail. Ero sinceramente affascinato dai racconti -spesso boccacceschi, e gonfiati senza ritegno- dei ragazzi un poco più grandi di me, che avevano già varcato le nuove frontiere della trasgressione. Massimo e Stefano verso la Svezia o la Danimarca. Luca, addirittura, giunto l'anno passato fino a Capo Nord.
            Vagavo per le strade interne ed acciottolate del paesino, quindi, non sapendo che fare nel corso di pomeriggi bollenti ed annoiati. Dovevo fra l'altro aspettare le canoniche tre ore, che mia madre imponeva quale limite di sicurezza, dopo pranzo, per potermi immergere, e trascorrere poi lungo tempo in acqua, a nuotare fino al largo estremo, perdendomi nei pensieri. Ed anche, un po' annoiato, contando i giorni che mi separavano dal rientro in città.
            Nel corso di questo ciondolare solitario, alcuni giorni prima mi ero spinto fin dentro il minuscolo Camposanto, attratto dalle sue dimensioni inconsuete ma soprattutto dalla cura, quasi maniacale, con cui la mano di qualche ignoto custode teneva tutto in ordine, fiori, corone, vasi e candele.
            Le lapidi scintillavano sotto il sole a picco, mentre passeggiavo per i sentierini di ghiaia bianca, e mi divertivo a guardare le vecchie foto ed a leggere i nomi scolpiti sui marmi. Ignaro che, anni dopo, quello sarebbe diventato il mio mestiere, mi dilettavo ad inventare le storie di vite sconosciute, incrociavo ed avvolgevo fra loro quelle esistenze interrotte, simulavo trame oscure per le loro morti.
            Confesso che la giovane ragazza -avrà avuto un anno o due meno di me- rientrò fin da subito fra le attrattive del luogo. E tornavo lì soprattutto per rivedere lei, ogni giorno dopo il pranzo, a seguire quella prima volta in cui rimasi colpito dal suo viso sempre rivolto verso il mare, assorta, come rapita da qualcosa che solo lei riusciva a scorgere.
            Adelaide: ero riuscito a scambiare con lei qualche parola, e perfino a farmi dire il suo nome l'indomani, dopo uno sforzo che mi era costato una fatica suprema ed indicibile, timido e chiuso qual ero in quell'età. Adelaide era bellissima, ricordo, con lineamenti fini e delicati, capelli lunghi mossi scuri, pelle di un'abbronzatura dorata e naturale, occhi azzurro intenso.
            Al terzo giorno, avevamo iniziato a raccontarci qualcosa delle nostre vite. O meglio: ad essere sinceri, lei raccontava. Io, adolescente imbranato con esperienza pressochè nulla dell'altro sesso, per lo più tacevo, rapito e già perdutamente innamorato di quello sguardo magico, dello stesso colore del mare che avevamo davanti.
            Scuola, famiglia, amici, passioni, sport. Quasi tutto, in breve tempo, sapevo di lei: Adelaide sembrava sciogliersi giorno dopo giorno, e mi faceva partecipe della sua esistenza in maniera torrenziale, come se fosse divorata dall'impeto di comunicarmi l’essenza della sua vita.
            Era molto brava al liceo classico, frequentava con gli amici la parrocchia, giocava a pallavolo.  Amava follemente i Beatles, scioltisi da poco. Mi parlava di un cantautore nuovo, napoletano, che non avevo mai sentito: Edoardo Bennato.  I suoi genitori -che gestivano una rivendita di alimentari nell'unica piazzetta del borgo- sognavano per lei un futuro da avvocato. O da giornalista, chissà, rideva lei, quando le confessai che a me piaceva soprattutto scrivere, e mi isolavo volentieri nella mia cameretta, picchiando forsennato sui tasti di una Lettera22, a fissare sulla carta il mondo che mi circondava.
            Poi c'era Danilo, ad occupare il suo cuore. Mi raccontava spesso di questo suo amore immenso, il suo angolo felice. Lui aveva 17 anni, adorava le moto, le corse indiavolate lungo la strada Aurelia quando -all'imbrunire- il traffico si faceva rado, e potevano mangiarsi (disse proprio così: mangiarsi) le curve strette, sul pelo dei muretti, con lei che lo stringeva da dietro, i capelli al vento, e non chiudeva mai gli occhi. Neanche quando aveva paura.
            Immaginarsi la mia ostilità, la gelosia immediata da ragazzetto innamorato, verso questo malefico Danilo.  Colui che mi aveva già rapito, senza neppure saperlo, la ragazza più bella che avessi mai visto : sì, a Monza mica ce n'erano di tanto splendide. L'unica, insomma.
            Dopo circa una settimana di parole davanti al mare, Adelaide interruppe improvvisamente i nostri pomeriggi sulla scogliera: “Da domani non ci vedremo più, mi dispiace” e fu la prima stilettata, a freddo, al mio giovane cuore “sai, debbo raggiungere Danilo, è partito da un po' di tempo, mi manca tantissimo e non vedo l'ora di rivederlo, di stendermi al sole vicino a lui, di parlargli abbracciandolo stretto”, ed ecco la seconda lama di ghiaccio a ferirmi, spietata.
            Lei sorrideva, appariva inconsapevole di tutto questo mio dolore e felice: “Mi ha fatto piacere conoscerti, tanto, davvero. Sei un ragazzo speciale, mi sei piaciuto moltissimo fin da subito: hai dentro qualcosa che gli altri non hanno, come una fiamma segreta, che brucia senza farsi vedere, ma chi sa guardarti dentro può scorgerla. Sei tanto timido, e questo è il bello di te”.
            Io, taciturno come sempre, ero imbalsamato dal dispiacere, incapace di decidere se dovevo sentirmi fiero e lusingato da simili parole, che nessuna ragazza mai mi aveva dedicato prima, o se invece maledire il Cielo, perchè la creatura più bella del mondo mi stava sfuggendo per sempre.
            “Ne sono certa, un giorno diventerai un giornalista, uno di quelli bravi e famosi”. E gli occhi iniziavano, inevitabilmente, a riempirmisi di lacrime. Mi diede un bacio, come un soffio leggero e caldo sulla guancia. “Ricorda, io farò il tifo per te, anche se non mi vedi” sussurrò.
            Incapace di trattenermi oltre, lì seduto dov'ero, con la testa chiusa fra le ginocchia esplodevo, singhiozzando, nel primo vero pianto d'amore della mia giovane vita, disperato e profondo.  Quando, alcuni minuti dopo, rialzavo la testa, con gli occhi gonfi e rossi, Adelaide non c'era più, se n'era andata via in silenzio.
            Rientrai con un nodo doloroso a stringermi la gola nella casetta presa in affitto dai miei, mentre loro certamente erano ancora a rosolarsi al sole, ignari, sulla spiaggia. Mi rifugiai verso il mio porto sicuro, alla fidata Lettera22.  E lì, seduto alla mia amata tastiera, con gli occhi velati dalle lacrime raccontai a lettori immaginari della mia storia sventurata. Il cui ricordo era destinato -ma questo non lo potevo sapere- a dissolversi rapido con la ripresa delle scuole, e le prime nebbie, lassù in Brianza.
            Era il 22 Luglio 1976.
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Riviera Ligure, Maggio 2015
            Sbarcato dal volo Parigi -Milano, neppure il tempo di cambiare valigia, ed eccomi – su ordine del mio Direttore- catapultato dopo un viaggio tortuoso in treno, in un paesino che ben conoscevo, lindo e piccolissimo, disteso sul mare, poco più a Levante di Genova.
            Il mio reportage sulla banlieu francese deve avere riscosso un notevole successo fra i lettori, se l'incarico successivo -comunicato con una mail asettica, letta sul tablet in attesa dell'imbarco al “Charles de Gaulle”-  è quello di raccontare di una locale  Sagra del Pesce che si ripete ogni anno in questo periodo, dalla notte dei tempi, a quanto pare...
             Quanti ricordi, però. Ricordi che affiorano, un po' a fatica, da un passato lontano e polveroso: estati calde ed assolate. I miei genitori, con me adolescente, seduti a tavola nella piccola casa sulla strada principale del paese. Mia mamma giovane, sempre col sorriso ed i suoi costumi interi a grandi fiori colorati. “Ragazzo, devi fare il pieno di sole in queste due settimane” ripeteva in quei giorni mio padre, abbronzato da fare paura “che poi su da noi l'inverno è maledetto e lungo, e ti entra nelle ossa”.
            Sorrido, pensando a queste scene di ordinaria vita familiare ormai sbiadite dagli anni -quanti? quaranta? forse sì- e mi avventuro, sotto una pioggerella leggera, fra le poche stradine che s' intersecano strette, cercando un bar aperto. Anzi, “il” bar, visto che l'emporio nella microscopica piazzetta pare ancora essere l'epicentro del borgo: tabaccheria, alimentari, giornalaio, e chissà cos'altro.
            Entro, e mi accoglie cortese un uomo anziano. Avrà ottant'anni se non di più. Ha la pelle cotta dal sole, le rughe profonde a solcarla, i capelli bianchi e lucenti così come i denti, impressionanti da quanto sono regolari ed immacolati.
            Dietro il bancone, intenta a pulire l'affettatrice con una salvietta, una vecchietta magra -certamente la moglie-  dagli occhi azzurri e lo sguardo dimesso.
            Sono un po' provato dal viaggio. Chiedo un panino, mi siedo allo sgabello e -gesto ormai automatico ed incondizionato- consulto la posta sull'Iphone, perennemente in mano. Appena il tempo di borbottare qualcosa sulla linea che arriva debole, ed alzo lo sguardo, verso la parete alle spalle della signora che sta lentamente affettando il pane.
            Una fotografia incorniciata, di quelle con i colori ormai sbiaditi dagli anni. Il primo piano, ingrandito, di una ragazzina di un'altra epoca, sorridente, con i capelli scuri, e gli occhi azzurri, illuminati dal sole. Il tempo passato si sgretola, si deframmenta in un secondo. Non può essere....
            Come se, dalla vetta di un ghiacciaio lontano, si staccasse una piccola palla di neve, silenziosa. Come se rotolando a valle si facesse sempre più grande, e più grande ancora. Come se diventasse una valanga, che si schianta infine, fragorosa e devastante.
            Adelaide.
            Si apre, lentamente, uno squarcio di ricordo, dentro di me. La signora, anziana e gentile, si accorge di qualcosa. Certamente nota il mio sguardo fisso sulla foto, ed il suo aspetto si fa ancor più triste.
            “E' la mia bambina, vede? Sono passati tanti e tanti anni, ma per me è come se ne avesse sempre 14... “le si inumidivano gli occhi “aveva tutta una vita davanti, era bravissima a scuola e tutti gli insegnanti ci dicevano che avrebbe avuto un grande futuro Ed invece...”inizia a piangere sommessa.
            Suo marito, che ascolta poco distante riordinando uno scaffale, si torce le mani ed annuisce in silenzio.
            “Cosa le è successo, signora?” chiedo. E mentre pronuncio queste poche parole, mi ascolto la voce, e neppure la riconosco, da come esce tremante ed insicura.
            “Mi fa ancora male, male, parlarne, sa... Adelaide era giovane, innamorata di un ragazzo di un paese vicino, Danilo, bravo e bello come lei. Insieme erano una coppia meravigliosa, sembravano nati per incontrarsi e stare insieme felici.  Danilo era appassionato di corse in moto, spericolato come tutti i ragazzi a quell'età. Non sapeva cosa fosse la paura. Una notte, era marzo e pioveva a dirotto, lo hanno trovato schiantato in un burrone, morto sul colpo, a pochi chilometri da qui, sulla strada Aurelia”.
            Interviene il marito, quasi in soccorso della povera donna, che ormai singhiozza, incapace di proseguire, con un fazzoletto ad asciugarsi il viso.
            “Adelaide era troppo giovane ancora, per un amore tanto grande. Non ce l'ha fatta, a sopportare il dolore. Mia moglie ed io abbiamo provato in ogni modo a consolarla, a farla distrarre, a spiegarle che il suo ragazzo avrebbe voluto vederla di nuovo felice e col suo bel sorriso. Ma i giorni ed i mesi passavano, inutilmente. Sfioriva sempre più, i suoi occhi azzurri erano divenuti sbiaditi, sempre persi a guardare nel vuoto. Diceva che Danilo la stava aspettando, che la notte poteva sentire la sua voce, e sarebbero tornati presto insieme”.
            Mio Dio.
            “Cercavamo di restare sempre con lei, di non lasciarla mai sola. Ha approfittato di uno dei pochi momenti in cui abbiamo abbassato la guardia... e... “deglutisce nervosamente, le mani sempre tormentate “una sera buia, senza luna, l'abbiamo trovata impiccata nel giardino, ad una trave della sua altalena”.
            Lungo la schiena, brividi sulla pelle. Mi accorgo di avere la bocca completamente asciutta, e sono incapace di proferire parola.
            “Lei non può immaginare “interviene ancora la donna, che pareva essersi un poco ripresa “quante volte, con mio marito, abbiamo scongiurato Dio di perdonarla, di lasciare che si riunisse al suo Danilo, per sempre, come lei sognava. Le piaceva tanto stare distesa vicino a lui, a leggere libri, nella spiaggetta sotto la Chiesa, ed abbronzarsi al sole”.
             Rialzo lo sguardo, sconvolto, alla fotografia che mi sorride dalla parete. La mia bellissima Adelaide. Sulla cornice, alla base, i genitori hanno applicato una targhetta in ottone, con la data di nascita e quella -quanto deve essere costato a queste povere persone- della sua tragica morte. Mi sforzo di leggere.



            Era il 23 Luglio 1976.

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