Una volta fu un rumore, una specie di sibilo
attraverso il muro della camera da letto. Sembrava il motore in folle di un’auto
nel garage del condominio, o una lavatrice che centrifugava in piena notte. Mi
vestii e scesi nel sotterraneo, una luce filtrava dalla porta socchiusa di una
cantina. Mi decisi ad entrare, la causa della mia insonnia era un freezer
lasciato aperto che tuonava come il reattore di un aereo. Quando mi avvicinai
mi accorsi di una figura umana al suo interno, o meglio si trattava di due
braccia e due gambe divelte dal corpo con colpi talmente precisi da farle
sembrare entità separate da sempre. Cominciai ad urlare ma non avevo bocca,
volevo correre e non avevo gambe, il mio corpo era lì, diviso, all’interno del
freezer a surgelare. In quel momento mi accorsi che stavo sognando. L’immagine
era perfetta per descrivere la mia vita, la condanna di un corpo che si spegne
quando meno te lo aspetti, la confusione di prospettive e di percezioni, la lotta
quotidiana tra il meravigliosamente vero e il veramente meraviglioso senza
poter scegliere in quale illusione vivere.
La narcolessia mi è stata diagnosticata quando
avevo 17 anni. All’epoca non capii bene la condanna che era nascosta in quella
parola, il destino di sentirmi inutile come un minuto di silenzio sui campi di
calcio. Entro pochi mesi molti miei compagni di scuola avrebbero preso la
patente, io avrei continuato a farmi scarrozzare dai miei genitori, poi non mi
avrebbero ammesso agli esami di maturità per scarsa attenzione alle lezioni e
avrei scoperto il pericolo di un bacio. Marco era timido e biondo, il labbro
imbronciato e lo sguardo ceruleo lo rendevano agli occhi di tutte un angelo
dannato. Forse per gioco o per scommessa s’interessò a me, per amore no, lo credevo
impossibile. Ma in effetti ero bellina, con tutto a posto a parte il cervello.
Venne a prendermi sotto casa e mi portò al lago. Parcheggio, gelato,
passeggiata sul molo, tutto andò bene fino a che non decise di avvicinare le
sue labbra alle mie. Dio punì quell’atto di superbia e scagliò un fulmine al
mio ego che si ergeva come torre di Babele fino al cielo. Mi piegò la schiena
vertebra per vertebra fino al cedere del collo e poi il crollo inevitabile delle
gambe. Giacevo in macerie, sparsa come le lingue per il mondo con la mente
scollegata dal corpo. Sognavo.
L’unico modo per sconfiggere la cataplessia è
rinunciare alle emozioni. Ognuna di loro può causare la perdita del tono
muscolare fino alla caduta o allo svenimento. Ma cos’è una vita senza coinvolgimenti?
I medici mi volevano come una mummia senza bende: la freddezza sarebbe stata la
conferma della mia volontà di essere presente a me stessa. Non sarei mai stata
così determinata, tanto più che era molto più interessante ciò che trovavo al
di là, in quel mondo onirico in cui venivo catapultata ogni volta che mi
addormentavo. Ci fu un’occasione in particolare che cambiò il mio modo di
intendermi malata.
Ero sul balcone di casa a fumare una sigaretta
e mi sono ritrovata in un bosco. Vidi uno strano edificio nascosto dagli
arbusti. Sembrava una torta di cemento a più piani, un sottomarino, o forse un
veliero ancorato alla selva pronto per salpare. Sulla facciata c’erano due
grossi cervi di cartone come le insegne di Camden Town, che reggevano la
scritta “LIDO DEI CERBIATTI”. Su un grande albero di fianco all’ingresso pendevano
scarpe di ogni genere e un cartello spiegava “ALBERO DELLE SCARPE, libera i
piedi prima di entrare”, mi tolsi le sneakers legai i lacci tra loro e le
lanciai su un ramo. In quel momento esatto tornai in me.
Quell’episodio mi aveva incuriosito così
decisi di allenarmi per prolungare il più possibile la durata dei viaggi. Per
facilitare lo scopo dissi ai miei genitori che volevo diplomarmi e proseguire
gli studi umanistici. Chiusa in camera la lettura dei classici mi emozionava a
tal punto da aprire le porte all’abisso. Pagine di Proust e di Cervantes mi
rimanevano tatuate sulle guance che appoggiavo ai libri durante il sonno.
Il Lido dei Cerbiatti era uno strano posto, varcato
l’ingresso l’edificio sembrava sparire e si apriva un grande spazio aperto.
Decine di tavoli scendevano fino al fiume, la gente beveva cocktail
fluorescenti decorati con ciliegie e ombrellini di carta, statue in plastica di
fenicotteri e cervi spuntavano un po’ ovunque illuminate da lucine di Natale.
Ma ciò che rendeva il locale particolare era la musica: sul palco una band
suonava insoliti strumenti elettronici che sembravano rami contorti, cuori di
tronchi, il suono che ne usciva era un mix di bip, ciottolame e tintinni. Mi
sentivo attratta. Ai miei piedi erano apparse frecce d’oro ad indicarmi la
direzione, le seguii, si dirigevano verso il palco, un attimo dopo ne fui
vicina e le frecce mi indicarono gli scalini per salire. Non avevo intenzione
di fermarmi e salii, ora ero vicino ai musicisti che mi invitavano a
proseguire, le frecce d’oro indicavano il centro del palco dove era sistemato
un microfono. Ne fui intimidita e feci un passo indietro. La gente ai tavoli si
era accorta della mia presenza e cominciò a urlare “AIDORU! AIDORU!”, decisi
sorridendo che sarebbe diventato il mio nome d’arte. Mi avvicinai al microfono.
I musicisti annuirono con gli sguardi e cominciai a cantare. Non conoscevo il
pezzo e non sapevo cosa dire, ma decisi di farmi trasportare. Cominciai a
cantare di me, del mio vivere divisa, di ciò che di magico abbiamo dentro:
“Questo mondo
non comprende
quel che vive in me.
E se il mondo
non comprende
il segreto
è dentro me”
Il
pubblico mi guardava ammutolito e stupito. Fu allora che mi accorsi di non
possedere un corpo. Ero un ologramma, pura immagine, luce liquida in movimento.
Quello che cantavo acquisiva ancora più senso: ero trasparente, niente di me
era celato, il segreto era nascosto in un recipiente di vetro, quindi esposto,
dichiarato. Tutto mi attraversava senza trafiggermi.
La vita
reale proseguiva tranquillamente. Il quotidiano non mi interessava, ma
paradossalmente proprio questa noia mi aiutò moltissimo a vivere un’esistenza
normale. Riuscivo a rimanere calma e a programmare i momenti in cui perdere il
controllo. Con l’allenamento potevo dormire fino a sette ore per notte, così ho
trovato un impiego pubblico e un piccolo appartamento in affitto. Non avrei mai
barattato quell’indipendenza
faticosamente conquistata per vivere con un uomo. Decisi di rimanere sola.
Le mie esibizioni al Lido divennero di volta
in volta più elaborate. Apparivo direttamente sul palco. A volte ad
accompagnare il mio ingresso era un lontano schioccare di nacchere sempre più
intenso e veloce, oppure comparivo in volo sulla schiena di una balena gigante
che avevo chiamato Giona. Avevo appreso in un documentario che una balenottera
azzurra può pesare fino a 180 tonnellate. Per poter nuotare l’acqua scorre sul
suo ventre, comprime ogni punto del suo corpo enorme, la forza di
galleggiamento ne riduce il peso apparente e la solleva, leggera. Giona andava
oltre questo prodigio naturale, addirittura volava e così anch’io sopra di lei.
Mi sembrava una bella metafora della mia resurrezione. Giona interveniva
durante le canzoni con suoni gutturali e fischi, a fine concerto, come un
incantesimo che si spezza, mi inghiottiva facendomi sparire tra le sue fauci. Il
problema delle illusioni è che in esse niente è definitivo. Il gioco prima o
poi deve finire.
Quella volta fu un fracasso. Una pioggia battente di latte dalla luna
cadde picchiettando sui tetti e ingorgando grondaie. Era come se una manciata
di milioni di perle fosse stata lanciata dall’alto e rimbalzasse su tegole e
comignoli inondando le strade. Io festeggiavo il plenilunio allungata nella
vasca da bagno. Delle speciali ventose posizionate all’altezza delle natiche,
su schiena e spalle evitavano che io rischiassi l’annegamento nel caso avessi
perso conoscenza. Mi è sempre piaciuto fare il bagno immersa in un mare di
schiuma. Anche quella sera cumuli di nuvole bianche mi nascondevano, erano così
dense da sembrare montagne di ghiaccio dove s’arrampicava il mio sguardo. A
valle le braccia e le gambe affioravano, come se non mi appartenessero ma
fossero parte del paesaggio. Ero di nuovo lì con il corpo macellato senza
spargimenti di sangue. Una piccola balena di gomma galleggiava sull’acqua
sfiorando le nubi. Di fianco alla vasca una radio vintage con i manopoloni
cantava a voce spiegata. D’un tratto da uno degli infiniti universi paralleli
che nascono e muoiono in ogni momento non troppo distanti da noi, tramite
impalpabili radiazioni elettromagnetiche venne trasmessa la mia canzone. Il
gigantesco segreto incompreso in fondo al mio cuore si rivelava al mondo attraverso
onde sonore. Ma a chi poteva importare? Aidoru in giapponese significa idolo e
io finora ero stata l’apparizione della mia immaginazione in uno degli infiniti
mondi possibili. Per tutta una vita avevo sognato di me. Ma se davvero esisteva
quella canzone doveva esistere anche il corpo che la cantava. L’unico modo per
provarlo era dare carne all’illusione.
Diedi un calcio alla radio lasciandola cadere
nell’acqua. Milioni di scosse e bagliori illuminavano nuvole bianche in cui
sfrecciava una balena volante pronta a prendermi. La melodia mi penetrava nelle
ossa, quella voce si insidiava sotto pelle, l’ologramma diventava a poco a poco
creatura vivente durante il suo ultimo concerto. Non provavo dolore e nemmeno
nostalgia. Era un improvviso appisolamento come mi era già successo un miliardo
di volte. La realtà era stata la matrigna indigente a cui vantavo crediti da
sempre. Ma in quel lento rilassamento non mi importava più. Avevo solo molto
sonno, un sonno arretrato, vecchio di secoli. Tutto era diventato semplice e
chiaro.
Morire, dormire. Cantavo. Niente ha più realtà
del sogno.
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