Verdi rimedi
Rovescio la barca della purezza
entrando di getto nei tuoi sogni
dono alle labbra un'innata ebrezza
morbida scheggia nei tuoi bisogni
Mentre perforo le strenue difese
e in te cerco una verde montagna
vagando in auto senza pretese
a Marcallo mi imbatto in viale Padania
Che arduo trovare la giusta poesia
un luogo appartato che possa ispirare
un verso non basta, che malinconia
meglio un diamante comprato in Tanzania.
giovedì 7 giugno 2012
Stefania Dondi - L'attrazione di fuoco
L'attrazione di fuoco
Risuona nella notte profonda una fiamma perpetua.
È l’anima della ciminiera, visibile da cotanta distanza
come dal fiume nella quale si specchia fiera.
Polvere nera. Sulle finestre
sul mobile antico della nonna
nei polmoni che si dilatano fino allo spasmo.
Rumore e indignazione sembrano spegnerla, smorzarne la
fiamma
ma quando la nebbia dai prati silenziosamente sale
le strade si animano a festa e nulla sembra essere cambiato.
Polvere bianca. Dove il denaro canta
la musica tace e una voce compiacente
ricorda il regalo ai bambini della scuola.
mercoledì 30 maggio 2012
Isabella Carlone - Metal detector
Metal detector
Prima di farmi scappare via per sempre,
dammi ancora un ultimo bacio
davanti al metal detector.
Creiamo invidia in quegli aridi che sanno portare un bagaglio,
ma non il cuore in mano.
I loro sguardi accusatori da Medusa verranno respinti dal nostro scudo d'indifferenza.
Non ci sarà alcuna interferenza che scalfirà il nostro
primo,
unico
e
ultimo
addio;
nessuno potrà rovinarlo, perché ce lo
MERITIAMO.
Prima di farmi varcare il confine per sempre,
dammi ancora un ultimo bacio
davanti al metal detector.
Così sarei sicura di oltrepassare la porta a prova di terrorista,
con un muscolo
PULSANTE
e non con un
freddo
oggetto di metallo
incastonato
nel mediastino.
Eviterei l'imbarazzo di suonare.
Le promesse da marinaio cosa diventano all'aeroporto?
Da aviatore?
Il risultato è sempre lo stesso:
un vuoto interiore che provo a colmare col calore dei primi raggi solari,
ma sono già ustionata dalla tua assenza.
Meglio non infierire, per evitare la lungodegenza.
Non mi rimane che dormire
e
SPERARE
che tu voglia tornare a danzare
nella mia dimensione onirica,
per poi baciarmi
davanti al metal detector.
A differenza della realtà,
non m'imbarcherei e prolungherei quest'istante.
Peccato che non abbia il sonno pesante.
Giuseppe Montaquila - Bacio
Bacio
Schiocco di labbra
che lentamente si sfiorano,
e si scambian festose
gli intensi sapori
dell’umana passione
sulle note sublimi
di questo suono labiale
che proviene dal cuore.
Quante parole, quanti
progetti,
quante intese
racchiusi in quest’unico gesto
di chi, innamorato,
fissa lo sguardo negli occhi,
scruta l’anima
in cerca di risposte
ai dubbi affannosi
che l’Amor produce
ad ogni palpito.
venerdì 25 maggio 2012
Yuri Astolfi - Miracolo raffinato
Miracolo raffinato
C'è una
cattedrale d'acciaio
incastrata
tra i campi allagati
che
l'abbracciano di specchi,
dove ogni
giorno avviene un miracolo chimicosociale:
tonnellate
di grezzo capitalismo
mutano in
raffinata democrazia statale.
Liquido
vitale quanto il sangue
per chi
solo sulla sua auto
gusta la
virile libertà.
Trapassato
sogno americano.
L'atto è
compiuto ed ancora si compirà.
Non
importa per l'ambiente stuprato
o per la
polvere nera dentro ad ogni fiato,
chi fa
profitti chi incassa gli interessi
non nutre
la sua famiglia all'ombra delle ciminiere,
e dai
camini può anche piovere veleno
ciò che
importa sono le tasche piene
e starne
ben lontano.
Yuri Astolfi - R...esiste
R...esiste
Esiste
una non vita che eppure appare attiva
ed
accostata allo stile sobrio inculcato alla massa,
mai
lontano dallo schermo d'ogni salotto.
Esistono
non vite occasionali per i frutti acerbi
che per
decenni marciranno nello spirito,
inseguendo
la logica dignità alla quale sono stati educati.
Esiste un
futuro rubato al pensionato
che solo
a settant'anni ha diritto e si riposa,
ed un
futuro dannato per chi invece ancora deve mettersi alla prova.
Esistono
mammoni,cervelli fugaci ed occupati giornalieri
ad armi
impari ma sempre contrapposti
ai
papponi,ai furbetti rapaci e agli eletti leccaculo.
Esistono
contratti che non guardano lontano
e
conseguenti le banche attente
fan le orecchie,più
che mai,da mercante.
Esistono
decine di modelli d'assunzione
ben lungi
da servire al dipendente,
ma bene
attenti alle esigenze del padrone.
Non
esiste l'appetitoso piatto delle certezze,
che dopo
breve e gustoso assaggio
è stato
tolto con scherno alla generazione entrante.
Esiste la
paura,ma non nell'universo
di chi è
stato amputato dell'avvenire:
in questi
non ha più ragione d'essere.
La
paura,ora,deve appartenere solo a chi permette questo.
Alessandro Ubaldi - Una goccia di speranza in un oceano di disperazione
Il cielo era completamente
coperto di nubi, un tuono squarciò quel manto scuro e insieme alla sua eco si
espanse una luce accecante, presto quelle nubi minacciose lasceranno al loro
seguito una pioggia battente.
Cadono le prime gocce, eccomi,
parto per il mio viaggio annuale, senza una meta precisa, posso vedere,
curiosare ed osservare; quanti bei ricordi porterò con me!
Sono limpida, emozionata dalla
mia trasparenza, elegante, scintillante, dai mille volti, dalle tante
trasformazioni. Scivolo sui vetri, mi addormento dentro un fiore, cado sui
sassi, scendo a valle, disseto prati, dove mandrie di animali verranno a
pascolare e uomini a raccogliere bacche.
Quante volte, a furia di
evaporare e di ripiovere, sono nevicata in cima a un monte, al disgelo sono
penetrata nella fessura di una roccia e a volte sfociata in mare aperto, ogni
volta la meta è diversa e una leggera brezza o una tormenta implacabile possono
alterare il mio tragitto.
Ma fra tanta euforia, dove sono
finita? Intravedo delle case, dei viottoli alberati, attorno campi coltivati e …
sento in lontananza schiamazzi, risa di bambini che si rincorrono, si rotolano,
giocano con un aquilone che volteggia inseguendo l’arcobaleno, tutt’intorno
sembra tranquillo, pacato, sarà di certo una piccola isola felice.
Seguo i rumori, e le voci si
fanno sempre più forti, infondono allegria, quei bambini hanno le guance rosse,
non rammento che giorno fosse, provo a vedere dove mi trovo, sulla carta
geografica questo paesello di campagna è contrassegnato con un insignificante
pallino grigio, penso che forse non avrò niente di così interessante né di curioso
da vedere.
Il caldo sole di primavera mi
invita a tuffarmi nel laghetto, dove un susseguirsi di caprette vengono ad
abbeverarsi, non resisto, la vista di quell’acqua mi attira, mi butto … ma ahimè!
che brividi! sembra non esserci più vita, ci sono pesci morti che galleggiano,
cosa sarà successo? Guardo intorno e vedo i larici coprirsi di teneri germogli
dai quali spuntano fiori, è uno spettacolo perché la brina ha ricamato la
ragnatela sospesa tra i rami.
Alice, Thomas, Federico, Ingrid
raccolgono le margherite e ci fanno corone di fiori, che posano sul capo e si
fingono fate e regine. Erano ancora capaci di sorridere al mondo, alla vita,
forse perché ancora troppo ingenui, forse perché ignari di quel mostro dai
sudici capelli color giallastro, sbiaditi e maleodoranti, che finisce qui la
sua corsa.
Nel cuore della notte, proprio
quando tutto è ovattato, avverto dei rumori, lentamente viene aperto il cancello
divorato dalla ruggine, chiuso con una catena, anch’essa logorata dalle
intemperie del tempo e che ad ogni capriccio del vento emette un rumore sordo
che echeggia nell’aria.
Due carovane in fila indiana lo
attraversano, vedo delle ombre vicino al laghetto che si agitano, che
inabissano nelle viscere della terra liquidi neri e un odore acre pervade il
paese e gli occhi pizzicano. Rimango perplessa, al mattino tutti si chiedono
cos’era, ma senza una risposta, nell’aria rimane solo la nausea di quel gusto
nauseabondo e dal sapore amaro.
Non tarda molto e l’estate arriva
impetuosa, il sole è là fuori, alto nel cielo , imponente, ma sembra che i
raggi non arrivino ad accarezzare le chiome; è abbagliante, soffocante.
Sconfinati campi di grano maturo
colorano d’oro il paesaggio, ma al calar della sera non si vedono le lucciole,
dove saranno? Questo è proprio uno strano paese!
E’ tardi e quei piccoli
continuano a giocare, in circolo seduti con le gambe incrociate come gli indiani
raccontano storie, hanno con loro i propri cuccioli. Alice porta con se la sua
capretta, è nata da poco e vuole farla conoscere ai suoi amici, ma non è una
solita capretta, è nata senza gli arti posteriori, fa difficoltà a muoversi,
non può correre, camminare come le altre, ma Alice l’accarezza, gli sussurra
parole incoraggianti, la carica sulle spalle e corre, anche gli altri bambini
la prendono in braccio e ci giocano, povera bestiola!
Tra me e me, penso che la natura
è capricciosa e imprevedibile, alterna sonno e veglia, follia e sofferenza, non
conosce mezze misure e quando sembra aver trovato un equilibrio ti sorprende.
Ancora rumori, sono le quattro di
notte, si apre di nuovo il cancello, un uomo bianco e tanti altri mostri con
delle maschere al volto scaricano liquidi neri, inabissandoli nella terra.
Al mattino le voci si fanno più
dure, denunciano il fatto, ma sono respinti come pezzenti.
Quando pian piano l’estate lascia
il posto all’autunno, i colori sono forti, gli uccelli volano leggiadri nel
cielo, l’odore ha il sapore forte del vino nuovo che riposa tranquillo, ma pian
piano diventa amaro come il caffè, la piccola capretta di Alice muore, viene
sepolta vicino al laghetto perché possa ancora sentire le voci dei piccoli che
giocano.
Ancora una notte insonne, ancora una
volta qualcuno apre quel cancello, ancora uomini bianchi come angeli versano
liquido, fiumi impetuosi che bagnano
quella terra, facendo raggrinzire quei ciuffi d’erba incolta che piegandosi su
se stessi, finiscono al suolo, poi le loro sagome si nascondono velocemente tra
la foschia.
Ecco che l’urlo collettivo fa
eco, ma svanisce come nell’occhio di un uragano.
Il tempo sembra volgere
inesorabile, l’inverno si è presentato con prepotenza, è in bianco e nero, la
luce del giorno è breve e le notti senza stelle.
Corre veloce la notizia che è
nato il piccolo fratellino di Alice, Lorenzo, un nuovo amico di giochi, ma non
ha il sapore della gioia, i volti scuri, adombrati, anche l’aquilone cade al
suolo, il piccolo Lorenzo è nato con l’arto destro incompleto, bisogna
intervenire subito, amputargli la gamba e sostituirla con una protesi. Inizia
la corsa, ospedali, medici, cliniche specializzate, viaggi, sofferenze, i
genitori hanno il dolore scolpito in quella faccia di cera, c’è tanta tristezza
negli occhi della gente, sono mesi lunghissimi, difficili, tra speranze e
delusione, ma ecco che finalmente Lorenzo ritorna a casa nel suo paese.
Povero piccolo, lo stesso destino
della sua capretta!
Ora comincio a capire chi sono i
tanti fantasmi che si muovono indisturbati per questo paese. Quegli angeli
bianchi, infernali, come assassini, hanno preso la vita di questa gente. Io
sono solo un misero frammento di questo patrimonio e mentre mi ritrovo qui a
vegetare, osservo e penso che dentro quelle tute non c’è un cuore, ma solo una
marionetta insensibile. Pensavo che i fantasmi non esistessero, invece sono
proprio qui, tra noi, come un vecchio che viene da un mondo antico, che cammina
indifferente sotto il suo cappello, con i lineamenti non ben definiti, che
vende la nostra terra per denaro e la uccide senza ripensamenti.
In un istante sono passati anni
si sono alternate stagioni, in un batter di ciglio passerà la mia vita e la mia
anima tornerà dal niente, da dove sono venuta, ma porterò con me solo i tristi
ricordi, solo i volti di questa gente tradita, non sarò più trasparente, ma
opaca e mi dico: «non essere triste
gocciolina, non sei giunta alla fine, potrai ritornare cristallo di ghiaccio
sulla cima di una montagna e riprendere il tuo viaggio».
Un tuono rimbombò dando inizio
alle danze, un bagliore quasi accecante penetrò debolmente e mi mostrò una
scala di fasci di luce. Risalii con fatica fino a raggiungere il soffice manto
delle nuvole, dall’alto scorgevo quel
cimitero senza croci. Non ho mai capito cosa fossero quelle piccole goccioline
nere che, troppo pesanti per volare, se ne stavano laggiù, accatastate,
inconsapevoli del loro destino.
Di nuovo respiro a pieni polmoni,
cercando di gustarmi ogni piccola particella di quest’aria così vellutata, che
sotto forma di scie di vento descrive un tragitto confuso. Scivolo via come la
prima volta e precipito quasi danzando su una pagina di giornale un po’
sbiadita, che aspettava di essere gettata, perché del giorno precedente.
Notai subito un particolare che
richiamò alla mente la mia avventura, in quello stralcio di giornale dominava, su
tutte le scritte sbiadite, quella foto ancora così chiara di Lorenzo, dietro le
sue spalle si vedevano quelle montagne minacciose, piene di liquami velenosi e
si leggeva: “quando decine di camion scaricavano tonnellate di rifiuti ogni
giorno, noi protestavamo ma nessuno ci ascoltava, nessuno controllava. Ora i
Noe hanno sequestrato quella cava, ma nessuno è intervenuto per la bonifica, siamo stati abbandonati”.
Il dramma di Lorenzo non è
finito, tutti sono stati assolti, tranne lui, che per tutta la vita dovrà
continuare a scontare la pena della sua malformazione.
E così pian piano anche
l’immagine di Lorenzo svanisce, ma questo inchiostro che lentamente scivola dalle
pagine, si espande; ma la sua immagine rimane presente, anche se in una diversa
disposizione.
E’ più il male che porta una
scura goccia che scivola al suolo da quei camion, che la purezza che ripristina
una limpida goccia d’acqua.
Caro piccolo, vedo la tua
innocenza, la voglia di afferrare l’inafferrabile, ti osservo quando zoppicando
corri avanti e indietro. Al vento i tuoi riccioli neri svolazzano come
libellule, sento la tua voce gioire, intravedo dentro i tuoi occhioni neri la
gioia di vivere e l’amaro della vita.
Sarà proprio con questi occhi che
ti vedrai crescere, farti grande, diventare alto, le tue braccia forti e
invecchiare.
Guarderai in faccia il mondo, non
odiarlo, irati contro le ingiustizie, sopporta con pazienza il dolore,
ricordati di non frenare la voglia di cambiarlo.
Daniele Bevilacqua - Inside - La direzione per conoscersi dentro
Melissa
Darche è deceduta nella nostra dimensione reale il 18 ottobre 2011.
Quella
sera pioveva in modo torrenziale.
Il
suo corpo è stato trovato senza alcun segno di vita in un modesto quartiere di
Manhattan, precisamente in un bagno del “White rabbit’s ”. Nel bagno del locale
sono stati ritrovati accanto alla salma, alcuni evidenti detriti che
costituivano le pareti della toilette. La spiegazione più plausibile che la
scientifica e la stampa giornalistica hanno depositato, è che la pioggia,
filtrandosi dalle fughe di areazione sopra il complesso centrale dell’impianto
di energia elettrica, abbia scatenato un violento cortocircuito che si è
scaturito nella zona dei bagni del locale. La potente scarica ha fatto breccia
sulle pareti delle toilette, frantumandone alcune.
Una
di queste, proprio Melissa ne fece uso quella sera.
Buongiorno Elite, buongiorno!
Eccomi.
Ho sempre saputo che il tempo sia
un’arma a doppio taglio. Alcuni sostengono che abbia la capacità di guarire
profonde ferite o ricorrenti sensazioni significative. Tanti altri invece sono
convinti che non sia altro che una sottile strada interiore che tutti noi
dobbiamo percorrere lungo il sentiero chiamato “vita”. E perché no? c’è anche
chi presta attenzione al tempo come un pesante calcolatore, che incide sulla
nostra giovinezza e immaginazione.
Che incuti terrore o speranza, il
tempo non è mai abbastanza per imparare a conoscersi dentro.
Un giorno ti svegli e divieni
consapevole che il mondo la fuori appare in un “vestito vergine” , ti guardi
indietro e pensi che la felicità l’hai sempre trovata negli sguardi degli
altri, allora decidi di volere cambiare le cose, cercare di imparare a sorridere
con pura maturità.
A volte sarebbe bello parlare
attraverso il tempo, senza condannarlo. Gli stereotipi di sensualità e bellezza
mutano in generazione in generazione, ma ieri come oggi la frase “ti amo” sono
solo 2 parole, cinque lettere, che non servono a niente se non vi è qualcuno
che le vuole sentire.
Fin dall’età adolescenziale ho
fatto parte di questo “mondo” tossico, di cui sono pochi i valori per la quale
oggi posso essere fiera, mi riferisco al piccolo cerchio dell’elite di
Manhattan. Tutto ciò che porto addosso con vero clamore è il mio nome: Melissa
Darche. Non riesco neanche a immaginare quante volte è stato attribuito alla
mia identità, l’idea di poter fare ogni cosa che mi girava per la testa. – “Ma tu sei Melissa Darche, puoi essere ciò
che vuoi e fare tutto quello che ti piace nella tua vita” – ecco cosa mi è
sempre stato ribadito fin dalla mia giovinezza. La verità e che dietro alla
presenza di una bella ragazza bionda dalle gambe chilometriche, non c’era che fragilità e impotenza. Il denaro e
le mie avventure con uomini importanti hanno solo generato la falsa stabilità
interiore che tento di esternare.
Ricordo ancora il primo evento
che decretò la nascita di “Melissa Darche”al mondo del gossip. Divenni parte di
questa realtà per aver indossato una
maglietta davvero scollata e molto bagnata sul pullman in una gita di ritorno,
al liceo. A volte incolpo mio padre, William Darche, famoso impresario e
costruttore immobiliare, che ha dato alla mia famiglia il grande peso del
nostro cognome.
Certo essere la figlia dell’uomo
che dagli anni 80 costruì su tutta la città il suo impero, ha dato
sostanzialmente grandi seccature per tutto il percorso della mia esistenza.
Ad oggi mi ritrovo con 4
matrimoni alle spalle, uno in corso, ricordi sfocati di feste , brunch e tutti
gli sbagli che ancora si riflettono sul mio presente,senza lasciarmi lo spazio
per imparare da essi.
Il mio attuale marito, Bart Van
Der Birth, deputato democratico di New York, fa parte di una dinastia
colossalmente incedente nel mondo politico. Vivo con la mia attuale famiglia in
un attico del Palace Hotel, dato che a mio marito non piacevano i colori delle
pareti della casa in cui abitavo prima. Ebbi 2 figli dal mio primo marito:
Charles e Samantha. Su entrambi feci pesare i miei insuccessi esistenziali, e
ora come ora a parte importanti fondi fiduciari a loro nome, i miei figli non
riconoscono nulla di concreto in loro madre.
Per quanto concerne la mia
stabilità psichica, ho contratto dalla nascita di Samantha, ricorrenti stati di
sonnambulismo e sogni che probabilmente rispondono al mio subconscio. Il
dottore di famiglia mi diagnosticò 19 anni fa una sorta di ansia post-parto,
che giustificava questi miei problemi notturni, ma ad oggi, a 41 anni, le mie
notti sono ancora disturbate da altarini del passato.
Nel 1995 mi laureai in fisica,
con un master di specializzazione nel 1998 per l’approfondimento del multi universo
e le dimensioni tangenti. L’unica giustificazione ai miei studi universitari fu
il fatto che persi la mia migliore amica Vanessa ai tempi delle medie. Lei
aveva una passione smisurata per la fisica in generale e la curiosità di cosa
ci poteva essere in corrispondenza della nostra dimensione. La cosa più
sorprendente, è che nelle parole di Vanessa Bagley non vi era nulla di ingenuo, come potevano sembrare per la mente
di una tredicenne. Vidi la morte della mia amica con quel tipo giusto di occhi
increduli a una scena violenta. Fu travolta da un tir davanti casa sua. Ma il
fatto più curioso è che io vidi la scena nel sonno. Sono consapevole di non
essere una veggente o di intraprendere la via del destino, non sono neanche
sicura di credere davvero in Dio, ma quella notte sono certa di aver dato
spiegazione alla scomparsa misteriosa della mia migliore amica. Il corpo non fu
mai trovato, ma quello che razionalmente non può assomigliare alla realtà è per
me la soluzione a ciò che è accaduto a Vanessa.
Ignoto 18 ottobre
Ogni primo venerdì del mese, accompagno mio marito alla solita cena,
organizzata con il sotto segretario Tayler e la propria moglie. Quella sera ci
recammo al White Rabbit, un locale situato nella zona meno rinomata di
Manhattan, fuori dall’Upper East side, luogo dove si teneva una beneficenza in
occasione dei quartieri più poveri del paese, un ottimo pretesto, per
rinvigorire l’immagine e la nuova campagna per le elezioni, offerto su un
piatto d’argento, da non farsi scappare.
Dopo esserci seduti e aver
ordinato la portata principale, umida dalla pioggia, e molto poco entusiasta,
dalla solita conversazione burocratica, mi alzai con la scusa di andare ad
asciugare la mia Luis Vuitton e di rifarmi il trucco, con l’intenzione di
dirigermi in bagno.
Raggiunto il lungo atrio che
sfociava a destra per la toilette, e a sinistra per l’uscita del locale,
rammento di aver avuto un mancamento e di essere svenuta a terra. Nel sonno
avvertii la sensazione di una presenza sinistra, che, mi si presentò davanti,
con le sembianze di una strana
ragazzina vestita di viola. Il suo viso pareva sfocato. Una voce
femminea accompagnò quell’immagine che appariva distorta, sussurrandomi più volte:
– Seguimi.
Ed io con voce tremante ma allo
stesso tempo incuriosita :
– Perché?
– Ti ho
osservata a lungo – aggiunse.
L’ultima cosa che ricordo è essermi svegliata su una panchina, la
mattina seguente, davanti le vetrine del “Socialista”, un pub nella zona East
di Manhattan. Con i capelli e gli indumenti ancora bagnati dalla pioggia della
precedente sera, e una forte emicrania, forse dovuta al fatto di aver sbattuto
la testa al momento dello svenimento. Raggiunsi immediatamente l’hotel, per
riferire l’accaduto a mio marito , spiegando la mia strana scomparsa.
Arrivata all’hotel vidi la
polizia e la stampa accerchiata a Bart, evidentemente aveva già denunciato la
mia scomparsa a tutte le autorità.
– Amore,
tesoro! Sono stato così in pensiero, sei scomparsa da ieri sera e non ho avuto
più tue notizie – esclamò mio marito.
– Ho perso i
sensi poco dopo essermi alzata dal tavolo, sono stata vittima di un
sonnambulismo e non ricordo più nulla – gli dissi.
– Non immagini
quanta paura ho avuto, ieri sera al locale c’è stato un cortocircuito molto
violento che ha distrutto alcuni bagni della toilette e non sapevo più cosa
pensare – aggiunse.
– O mio Dio! –
esclamai – ci sono stati feriti? O delle vittime?
– No, nessuno
si trovava in bagno al momento dell’accaduto, per fortuna, ma quando il
direttore del White Rabbit ci ha avvisati dell’incidente, ho pensato subito al
peggio, perché sapevo che ti stavi recando in bagno – mi disse mio marito Bart,
con gli occhi lucidi e ancora quel tremore addosso.
Non sapevo più cosa pensare. Non
dissi nulla a Bart a proposito del dialogo con quella ragazzina, ma avevo il
presentimento che dopo aver perso i sensi, fu proprio quella strana presenza a
guidarmi in un sonnambulismo.
Due giorni dopo decisi
all’insaputa della mia famiglia,che il lunedì seguente mi sarei recata dalla
signora Caller, la psicologa che ha seguito mio figlio Charles in un periodo
difficile. Avevo timore di dover affrontare quello che mi stava accadendo con
il mondo esterno, ma volevo avere un parere professionale.
Eva contro Eva
Quella domenica notte, ricordo di
aver sognato me stessa nei panni di Bette Devis, ero a una premiazione di
giovani emergenti nel campo teatrale, in torno a me vi erano tante ragazze con
il proprio accompagnatore, e a pochi posti dalla mia sedia c’era Vanessa, o
almeno la sua immagine cresciuta, e mentre il presidente fondatore della
facoltà teatrale, iniziò il proprio discorso su perché premiare una ragazza in particolare, per la sua
devozione e brillantezza, fui pervasa da un senso di delusione , e la mia sensazione
si concretizzò quando il presidente annunciò: – Ecco a voi la signorina Vanessa
Baglye. Evidentemente lei rivestiva il ruolo di Eva. Vanessa si alzò sorridente
e raggiunse il palco per la premiazione, ma quando rialzai lo sguardo per
osservarla, mi apparse davanti agli occhi ancora quella ragazzina vestita di
viola, ma il volto era coperto da una maschera di elefante. Mi svegliai di
soprassalto, e davanti al divano su cui mi ero addormentata, trovai ancora
quell’essere inquieto. Stavo ancora sognando? O ero caduta un altro stato di
sonnambulismo? – Mi chiamo Dandy – affermò quella bizzarra ragazzina,
avvicinandosi sempre di più. – Perché ti presenti nei miei sogni? Cosa cerchi?
E perché indossi quella maschera da elefante? – Le domandai.
– Perché tu
indossi quel vestito da umana? – rispose.
– Ma come puoi
fare questo? Provieni da una remora ragione dimensionale? – chiesi io.
– Io posso
viaggiare nel tempo perché sono morta in una dimensione tangente. – mi disse.
– Un momento,
“Dandy” hai detto? Ma certo, Dandy era il nome del peluche preferito di Vanessa
– pensai dentro di me – Perché mi hai salvato la vita?
– Te l’ho
detto, ti ho osservata a lungo e mi è parso che tu abbia sprecato quasi la tua
intera esistenza, dimenticandoti cosa vuoi davvero dentro di te, è giunto il
momento di trovare una direzione verso la tua salvezza – affermò.
Il lunedì
mattina mi svegliai nello sgabuzzino davanti a un vecchio scatolone di ricordi,
tra le dita avevo delle fotografie scattate al tempo dei miei vent’anni, e sul
pavimento c’era una foto mia insieme a Vanessa, ma il suo viso non si riusciva
a focalizzare in modo chiaro, evidentemente l’usura aveva danneggiato la foto.
Il tocco di Eva
Come da stabilito quella mattina
andai all’appuntamento con la dottoressa Caller, la seduta era fissata per le
11.00.
Raggiunto lo studio entrai senza
pensare troppo a quello che stavo andando in contro.
– Buongiorno signora Caller! –
esclamai.
– Buongiorno a lei Melissa, si
accomodi – rispose.
– Allora, innanzitutto da dove
vuole cominciare? – mi chiese.
– Ho ricorrenti stati di
sonnambulismo e inizio a pensare di avere una specie di amica immaginaria, di
nome Dandy, che in qualche modo è divenuta promotrice del mio destino – le
dissi.
– Capisco, beh, le posso dire che
le allucinazioni sono un effetto comune
per chi soffre di schizofrenia paranoide, le è mai stato diagnosticato
questo? – domandò lei.
– Oddio no, non credo, anzi ne
sono certa – risposi.
– Mi parli ancora di questa amicizia surreale, ci sono stati altri
collegamenti? – mi chiese.
– La scorsa notte ho sognato di
essere Bette Devis penso in “Eva contro Eva” , io non ho mai voluto essere
Bette Devis, fin da ragazzina ho sempre sognato di assomigliare a Grace Kelly,
ma la cosa che nonostante tutto mi ha rammaricato di più è che non ero io Eva
nel sogno. – dissi io.
– E chi era Eva? – domandò lei.
– Sono sicura di aver visto la
mia defunta amica Vanessa per il ruolo di Eva. – risposi.
– Penso che questo progressivo distacco dalla realtà potrebbe
derivare dalla sua incapacità di affrontare quelle forze del mondo che lei
percepisce come una minaccia, di che cosa ha più paura Melissa? – chiese.
– Mi terrorizza l’idea di restare
sola – sospirai.
– Lei pensa di essere sola o che morirà sola? – mi domandò.
– Sono solo certa che quando un
essere vivente lascia la terra, si resti soli, me l’ho ha fatto presente Dandy –
risposi io.
– Credi davvero nelle parole di
un’allucinazione? – domandò.
– Signora Caller dopo tutto
quello che ho passato, i drammi familiari e gli insuccessi persistenti, non so
più a cosa credere, non so nemmeno se esiste una spiegazione razionale che lega
la scomparsa della mia amica Vanessa a questa Dandy. – affermai con tono
vigoroso.
Uscii dallo studio
immediatamente, e ricordo che salutai la dottoressa con un secco”arrivederci”.
Nel pomeriggio andai da “Bendel”
per acquistare un abito da indossare il giovedì 24 ottobre, in occasione del
party “ Nessun Dorma” organizzato al Palace Hotel. Nel momento in cui fermai un
taxi per tornare a casa dal negozio di abbigliamento, vidi ancora una volta
Dandy e la sua bizzarra maschera all’interno della vettura. Sono convinta che
in quell’episodio non avessimo avuto alcuna conversazione, ma lei stringeva tra
le braccia un abito rosso. Arrivata all’hotel corsi subito nella mia suite, e
raggiunsi la mia famiglia in soggiorno. Ero tanto agitata.
Arrivò la sera del 24 ottobre, io
e mia figlia Samantha ci stavamo finendo di preparare per andare al party
fissato per le 21.30. Mancavano ancora circa 20 minuti.
– Tesoro lo sai che sei
bellissima? – le dissi.
– Si, lo so mamma, me lo hai già
detto. – rispose con voce snervata.
– Vedo che alla fine hai deciso
di indossare l’abito che ti ho preso per l’occasione, sono molto felice. –
affermai io.
– Come se mi avessi lasciato
alternativa – ribatte Samantha.
– Beh, scusa se ho voluto dare
un’immagine meno volgare del solito, alla tua presenza! – le risposi con tono
acceso.
– Ecco ci risiamo, vuoi iniziare
ancora con la solita storia, che io sono una ragazza problematica e che devo
stare attenta ai pericolo che incombano nella mia vita? per favore lascia
perdere – disse lei. – Samantha , Samantha! dove stai andando?
– Mi allontano da te, non riesco
a starti vicino per più di dieci minuti , senza dare di matto!
Scoppiai in lacrime, non riuscivo
neanche a instaurare una conversazione civile con mia figlia.
Finito di prepararmi scesi al
salone dell’hotel per raggiungere mio marito e tutti gli invitati.
Mi accorsi che mia figlia
Samantha si stava allontanando dal ricevimento, avviandosi fuori dal Palace,
allora mi precipitai a seguirla, raggiungendola. – Samantha cosa fai qui fuori?
torna dentro –
le urlai. – Non vedi che sto
aspettando le mie amiche? guarda stanno arrivando, ora vado via con loro –
rispose apertamente.
– Tu non vai da nessuna parte,
torna al ricevimento, e poi spigami perché ti sei cambiata d’abito, perché indossi
questo vestito rosso?
– Senti , va al diavolo, tu e il
tuo stupido ricevimento, ora lasciami andare che sono di fretta!
– Samantha attenta, Samanthaaaaaaaaaaaa!
– gridai con tutta me stessa.
Nello stesso istante una
limousine l’ha investì, evidentemente non si era accorta che stava arrivando
una vettura dalla strada. Rimasi impietrita. Il mio corpo era incapace di
comunicare sia con la colonna vertebrale che con gli altri sensi. Un’amica di
mia figlia si avvicino correndo dall’altro lato della strada, e con terribili
lacrime agli occhi, mi fece capire che non c’era più nulla da fare.
La dimensione esterna si annullò
completamente alla mia vista, corsi subito nel mio sgabuzzino, dove ho trovato
le foto mie e di Vanessa, presi quella in cui eravamo immortalate insieme,
divisi la foto con uno strappo, in modo da stringere in mano solo la mia
giovane immagine. Salii sul terrazzo del mio attico, non sapevo più a cosa
credere. La mia salvezza ha manifestato in seguito la morte di mia figlia,
pensai. Era la così detta “ goccia che fa traboccare il vaso” dopo una vita di
terribili insuccessi, anche la perdita prematura di un figlio. Non so cosa mi
spinse a recarmi sul terrazzo, ma dentro di me avevo solo il grande sogno di
poter eseguire, almeno una dannata volta nella vita un’azione per trovare un
po’ di conforto. Vidi addensarsi sulla città un inquietante turbine di nuvole
nere, e sono sicura che fu la manifestazione fisica di un wormhole, scaturita
dal paradosso creato dai nuovi eventi che hanno mutato il mio destino. Ad un
tratto solo nero intorno a me, e fu così che capii di stare per essere
riportata a “casa”.
“Nuovo Mondo”
...18 ottobre…
Era il 18 ottobre, nella nostra
dimensione reale. Mi alzai dal tavolo per raggiungere la toilette. Arrivata al
lungo atrio del locale, entrai nella toilette. Il ritornello di una canzone
riprodotta dalla radio del bagno, esclamava : Smile
like you mean it, Smile like yuo mean. It.
Cara Vanessa Baglye, ci sarebbero
molte cose che vorrei chiederti, ma ho paura di quello che potresti dirmi, ma
soprattutto ho paura che tu mi dica che non sia tutto frutto della fantasia.
Posso solo sperare che la
risposta mi arrivi nel sonno, eterno, e spero anche quando il mondo finirà, che
potrò tirare un sospiro di sollievo, perché ci sarà così tanto da contemplare
avidamente.
“Ahaha ahahahah” Sorridendo come
se lo volessi davvero, almeno questa volta… tua
M
D.
Melissa darche è deceduta nella nostra
dimensione reale il 18 ottobre 2011.
Quella sera pioveva in modo torrenziale.
Gli atti delle persone intorno a Melissa, in seguito, sono tutti inconsapevolmente
diretti a dare un senso al paradosso, portando infine Melissa a creare lei stessa il wormhole che la porta
nell'universo reale, dove lei stessa viene uccisa. Quelli che hanno interagito
con Melissa nell'universo tangente tuttavia, conservano una lieve
consapevolezza degli eventi in esso accaduti.
Antonino Cervettini - Il bisogno di accettarla
Oramai “lei” passa tutto il suo fottutissimo tempo a
guardare quella stramaledetta fotografia in cui si vede ancora bella e giovane.
Si osserva per un po’ e poi ricomincia i suoi giri di casalinga maniaca della
pulizia, dei servizi e di ogni stramaledetta cosa al suo posto.
“Lei” è mia moglie e mi sta rovinando la vita.
All’inizio non era davvero così. Eravamo una coppia
normale, con una vita normale, con degli interessi, amici simpatici, serate divertenti.
Poi, quasi senza accorgersene, “lei” è precipitata in
un vortice, è stata risucchiata dentro un gorgo malefico che l’ha presa e non
l’ha più lasciata andare. E adesso la nostra vita è un grigio e uniforme vuoto
dentro il quale io annaspo.
*****
Sono letteralmente ossessionato da questa frase: Dio è
morto, Marx è morto e anche io non mi sento tanto bene. Sì, lo so che è di
Woody Allen. Il fatto è, però, che da un po’ di tempo ormai non sto bene per
davvero. Non fisicamente, no. Per quello, grazie a Dio, sto benissimo. Intendo
dire che non mi sento a posto con me stesso. Mi sveglio la mattina e ho già la
precisa sensazione, anzi la certezza che sarà un’altra giornata di merda.
L’umore mi finisce sparato sotto i piedi. Per quanto mi sforzi non riesco a
trovare un solo valido motivo per alzarmi dal letto, mettermi in tiro, uscire
di casa, sorridere alla vita. E mentre conduco la mia quotidiana battaglia
contro questa insostenibile pesantezza dell’essere, “lei” cinguetta incessante
tutto il giorno insensatamente ilare, molesta come una mosca importuna quando
d’estate vuoi fare una pennichella, come la suocera che telefona alle sette di
ogni domenica mattina per sapere cosa stanno combinando i suoi amati figlioli,
come la processione di amici che scopri immancabilmente di avere ogni qualvolta
si approssimano le elezioni.
*****
Probabilmente mi sto prendendo l’esaurimento nervoso.
Sono diventato scorbutico e ombroso come un mulo di montagna tanto che, ormai,
al lavoro i colleghi mi evitano e mi guardano storto al riparo del loro
perbenismo. Li sento borbottare commenti velenosi alle mie spalle quando li
incrocio nei corridoi.
A casa, invece, a “lei” tutto sembra filare col vento
in poppa. Mi accoglie con le pattine ai piedi, i bigodini in testa e un sorriso
insensato e insopportabile stampato in faccia. E più sono scontroso più “lei” è
flautata e melliflua, interamente assorbita dalla necessità di rovesciarmi
addosso le sue ridicole, insulse questioni esistenziali.
*****
Sono ormai allo stremo. Sono arrivato al punto che non
sopporto neppure più l’idea della convivenza, della relazione con una tale
rompipalle di prima categoria. Mi interrogo spesso su cosa devo fare,
soprattutto quando sono in bagno.
Il bagno è diventato il mio rifugio preferito, la mia
cellula di sopravvivenza. È l’unico posto dove la mignatta sente il dovere di
lasciarmi da solo. Parlo a muso duro con la mia faccia da allucinato che mi
fissa nello specchio e le chiedo come posso uscire da questo buco nero che
sembra avermi inghiottito. L’ultima volta una vocina dal profondo mi ha
risposto: «Tu lo sai! La devi accettare! Accettala o sei perduto!»
*****
Sono sconvolto. Non dormo neanche più. Mi aggiro per casa come uno spiritato. È
oltre un mese che la vocina ripete sempre la stessa litania ma adesso non solo
in bagno, anche quando siamo seduti a tavola o per strada in mezzo agli ignari
passanti e persino a letto, mentre facciamo l’amore.
«Accettala! Accettala!» martella incessante come un
disco rotto la perfida istigatrice. E così oggi finalmente mi sono deciso. Tra l’altro avevo fatto
il filo solo qualche settimana fa e la lama è venuta tagliente come quella di
un rasoio.
L’ho accettata in quattro e quattr’otto in bagno
mentre faceva la doccia. L’ho fatta in sei pezzi e sistemata a sgocciolare
nella vasca insieme alla sua amata fotografia. Non è mai stata tanto discreta e
silenziosa.
Mi sento un altro.
Ora vado a farmi un toast. Il sangue lo laverò
dopopranzo.
mercoledì 23 maggio 2012
Bruno Bianco - Le due parti
Uscendo dal bar il commissario
Fortunato si prese in faccia l’ aria gelida della serata dicembrina, ma lui sapeva
bene che non gli avrebbe fatto nessun effetto; non era la prima donna che
vedeva con i polsi tagliati e non sarebbe certo stata l’ ultima. Quello che
doveva fare l’ aveva fatto e poteva rientrare in ufficio; sarebbero rimasti i suoi
uomini a fare i rilievi per la burocrazia e il dottore ha studiare i termini medici
giusti per dire che la poverina si era uccisa con le proprie mani nei bagni di
un elegante caffè del centro.
Lui adesso doveva fare spazio agli
altri casi e archiviare questo come il solito suicidio senza responsabili;
anche se se lo sapeva bene che da qualche parte sulla faccia della terra doveva
esserci un uomo che era stato il vero motore delle azioni di quella povera
donna, perché c’è sempre un uomo così quando una donna decide di superare l’
ultima barriera dello sconforto. In genere non puoi metterti a fare indagine
specifiche per cercare un fantasma, ma questa volta c’ era qualche elemento in
più; in fondo quella fotografia avrà ben voluto dire qualcosa, perché una non
si ammazza senza motivo tenendo tra le mani la foto di quando era una ragazzina.
Senza dimenticare il racconto dell’ amica sulla vittima appena tornata da una
crociera dove aveva voluto andare da sola, diceva, per rimettere in ordine i
pensieri della sua vita; e doveva esserci riuscita perche la sua amica era
sicura di non averla mai vista così serena e di buon umore come dopo il ritorno
dal viaggio.
Il commissario prese dalla tasca la
bustina trasparente con quell’ immagine un po’ sfuocata e cercò di immaginarsi la
ragazzina della fotografia e la donna dai polsi tagliati in un unico corpo che
cammina sul ponte di una nave da crociera….
Mi sembra che la nave abbia
lasciato il porto solo da pochi minuti e invece già non riesco più a vedere la
costa; non ero mai stata in crociera prima d’ ora e forse devo solo abituarmi
al diverso scorrere del tempo di quando sei in vacanza. Mi stacco dal parapetto
e mi guardo intorno sul ponte; lui non si vede, allora guardo verso l’ ingresso
del salone… ah sì, eccolo! Sta entrando per la cena e come lo vedo scendo di
corsa dalla scala per raggiungere anch’ io i tavoli di quella sala enorme. Mi
hanno sistemato con quattro giovanotti vestiti come Christian De Sica in un
film dei Vanzina e tre ragazze che avranno speso metà del loro patrimonio dal
parrucchiere e l’ altra metà per una scorta industriale di balsamo e fissante
per capelli; penso proprio di essere finita in un tavolo di single che gli
organizzatori hanno deciso di far accoppiare prima che venga il mattino. Cerco
di non farmi notare e per la centesima volta da quando siamo partiti apro la
mia trousse di raso e controllo di non aver dimenticato niente…
-Come mai una giovane e carina come
te va in crociera da sola? Non hai un marito, un fidanzato o anche solo uno
spasimante?-
-Tutti quelli che avevo mi hanno
lasciato per andare in crociera da soli a fare i cascamorti con le donne che
incontrano al loro tavolo!-
E con questo i giovanotti sono
sistemati; adesso devo mettere in riga le signorine che sanno parlare solo di
vacanze a Porto Cervo e di vita notturna nelle discoteche di Milano.
-Non dirmi che non sei mai stata
all’ Hollywood di Milano; la bella gente che trovi lì alle quattro del mattino
non la vedi da nessun altra parte.-
-E tu non dirmi che non sei mai
stata ai Mercati Generali di Torino; la gente che scarica le cassette di frutta
alle quattro del mattino la vedi anche dalle altre parti, ma forse tu hai orari
differenti da loro.-
E adesso che le mie compagne e i
miei compagni di tavolo parlano tra loro ignorando del tutto la mia presenza,
io posso finire con tranquillità il dolce senza smettere di controllare cosa
capita dalla parte opposta della sala.
Poi lo vedo alzarsi, salutare con
eleganza i suoi compagni di tavolo e dirigersi verso il fondo del salone; allora
mi alzo anch’ io facendo cadere il tovagliolo che tenevo sulle ginocchia e saluto
con un grugnito i miei compagni di tavolo.
Lui esce dal salone e io lo seguo
tenendomi a una decina di metri; prende le scale del ponte, sale di un piano e
io sempre dietro. Mi sembra un instancabile camminatore, o forse un anima in
pena, o forse tutte e due le cose. Sale ancora di un piano e sul ponte si
dirige verso prua; io sto controllando a fatica il fiatone che mi è venuto un
po’ per lo sforzo e un po’ per la paura che mi possa vedere. Finalmente si
ferma a guardare l’ acqua nera della notte, appena appoggiato al parapetto che
lo separa dal mare. E’ il mio momento; decido di usare un vecchio e banale trucco
da film che si adatta perfettamente alla finzione della vita di crociera.
-Mi scusi ma a forza di camminare
in questo labirinto devo essermi persa; può essere così gentile da aiutarmi a
ritornare al salone della festa?-
Lui si volta di scatto tra lo
stupito e l’ infastidito; certo che è davvero un bell’ uomo e i capelli sale e
pepe dei suoi sessant’ anni lo rendono ancora più attraente.
-Torni indietro da questo lato e
prenda la prima scala che incontra sulla sinistra; scenda di due piani e vedrà
sulla destra le luci del salone.-
A quel vecchio corso di recitazione
che avevo fatto ai tempi del liceo ho imparato che per piangere basta pensare
con intensità a una situazione di grande impatto emotivo e io non faccio fatica
a farlo.
-La ringrazio e mi scusi se l’ ho
disturbata.-
I miei occhi sono ormai lucidi e
lui non può non notare le lacrime che stanno annacquando il rimmel che avevo
messo con tanta cura prima della cena.
-Si sente bene signorina? Forse è meglio che aspetti un attimo
prima di rientrare nel salone.-
-Non è niente di grave. E’ solo che
forse non è stata una buona idea venire in crociera da sola per lasciarmi alle
spalle i segni di ferite troppo recenti.-
Ormai le lacrime mi attraversano spietate le guance e mi lasciano ridicole
strisciate di rimmel dagli occhi fino al collo; ma l’ importante è aver
scardinato la freddezza di quell’ uomo così affascinante.
-Prenda il mio fazzoletto; non le servirà per le sue ferite recenti, ma almeno
la leverà dall’ imbarazzo di farsi vedere in questo stato da un perfetto
sconosciuto quale io sono per lei.-
Affascinante e gioviale; sono sempre più convinta che sto facendo la cosa
giusta. Adesso lui si presenta e in pochi minuti ho già messo via il fazzoletto
sporco di rimmel che prometto di rendergli nella giornata di domani; si stacca
dal parapetto e mi dice che anche lui è da solo in crociera per lasciarsi alle
spalle delle ferite recenti come le mie e che non è il caso di aggiungere sofferenza
a quella che altri hanno già creato. Parliamo e camminiamo; camminiamo e parliamo.
Restiamo sempre nella parte più periferica della nave perché a me non va di
incontrare gente, di vedere luci, di sentire musica; lui lo ha capito e mi
cammina di fianco come chi vuole proteggerti dai pericoli che ti stanno intorno.
Dopo avere disceso e salito decine di scale esterne della nave, adesso siamo uno
di fronte all’altra in quello che nella mia ignoranza nautica chiamo il piano
terra della nave; alla nostra destra il parapetto ci protegge dal mare e riusciamo
a vedere con chiarezza le onde grazie alla luce generosa che la luna spande
tutto intorno.
-Sono più delle due! Saremo anche in crociera, ma come prima serata direi
che può andare.-
-Se le andasse, domani sarei davvero lieto di pranzare con lei.-
-In questo momento non me
la sento di prendere impegni per la colazione, figuriamoci per il pranzo. Se
vuole però mi lasci il suo numero di cellulare; prometto di chiamarla prima di
mezzogiorno.-
Apro la mia trousse di raso anche se so bene di
non avere dentro né la biro né un foglio di carta, ma tanto lo so che sarà così
premuroso da pensare lui sia al foglio sia alla biro; scrive il numero
sul biglietto e adesso che me lo porge è davvero vicino, mentre i suoi occhi mi
lanciano uno sguardo che sa essere allo stesso tempo paterno e sensuale. Io continuo
ad armeggiare nella trousse, ma sento che ormai ho deciso; la sua faccia mi è
vicina, i suoi occhi mi sono vicini, la
sua bocca mi è vicina…
Mi sveglio che la cabina è illuminata da un sole avanzato; guardo l’ ora
e vedo che è quasi mezzogiorno. I miei vestiti sono buttati alla rinfusa sulla poltrona;
faccio la doccia e mi vesto con una lentezza che non ricordo di avere mai avuto.
Prima di uscire per il pranzo ho ancora un’ incombenza da fare; apro la trousse
e mi assicuro che ci sia ancora la bomboletta spray con l’ etere. Gliene ho fatto
respirare più di metà, come quando continui a spruzzare l’ insetticida sullo
scarafaggio anche se vedi che è già completamente stecchito; d’ altronde per
prenderlo di peso e buttarlo in mare al di là del parapetto non potevo
permettermi che fosse tanto sveglio. Sono anche soddisfatta perché prima che
crollasse ho potuto urlargli nelle orecchie il mio nome in modo che capisse bene
chi ero; poi la luna ha illuminato quel corpo che nel vuoto ha fatto quattro
giri su se stesso prima di sbattere sull’ acqua dura del mare.
Il primo è per tutte le volte che è entrato nel mio letto dicendo che la
mamma era molto contenta che lui mi mettesse le mani dentro le mutandine.
Il secondo è per tutte le volte che è uscito dalla mia stanza per
rientrare nel letto della mamma e fare l’ amore con lei che pensava quanto era
stata fortunata ad aver trovato un uomo così affettuoso dopo un matrimonio tanto disgraziato.
Il terzo è per tutte le volte che si è ripetuto con altre bambine di
dieci anni, figlie di donne vedove o divorziate sedotte da un uomo che quando
si stufava delle figlie non aveva più nessun motivo per restare con le madri.
Il quarto è per tutte le volte che in questi quindici anni ho dovuto
aspettare prima di trovare l’ occasione giusta, perché non vale la pena finire
in galera per aver schiacciato uno scarafaggio e siccome il delitto perfetto
non esiste bisogna avere la pazienza di aspettare l’ occasione buona che nella vita prima o poi arriva, visto che c’
è sempre una giustizia a questo mondo.
-Non vorremmo disturbarti, ma avremmo qualcosa da dirti.-
Ad aspettarmi sul ponte ci sono i quattro giovanotti a scusarsi per il
comportamento alla cena della sera prima e a invitarmi a un aperitivo tutti
insieme prima del pranzo.
-Non volevamo infastidirti con i nostri discorsi insulsi di ieri sera, ma
ci siamo fatte un po’ prendere dal clima di festa che c’ è tutto intorno.-
Anche le tre ragazze nella notte sembrano aver riflettuto sulle regole
della buona creanza e mi chiedono di non mancare all’ aperitivo.
Io accetto le scuse di tutti e do appuntamento ai tavolini del bar tra
qualche minuto; me li lascio alle spalle e vado oltre, nel punto esatto dove
stanotte si è chiusa la prima parte della mia vita. Apro la trousse di raso,
prendo la bomboletta che ho usato da insetticida e la butto lontano tra le onde
del mare; mentre chiudo la cerniera vedo che è rimasto il biglietto dove aveva
scritto il suo numero di telefono. Lo prendo e inizio stracciarlo con ordine e
rigore, in due, in quattro, in otto; poi apro il pugno e i ritagli iniziano a
cadere nel vuoto, oscillando con precisa lentezza. Resto a guardare fino a che
anche l’ ultimo coriandolo non scompare nello strato più profondo dell’ acqua
dura del mare; chiudo la trousse, guardo la ragazzina di quella fotografia che
tengo da vent’ anni nelle mie borsette e quasi senza accorgermene sorrido.
La prima parte della mia vita, quella passata annegando nelle onde molli,
finisce; adesso inizio la seconda, quella che si appoggerà sull’ acqua dura del
mare.
Il commissario Fortunato rimise la bustina trasparente nella tasca e decise
in un momento. La prima parte dell’ indagine, quella passata annegando nelle
onde molli della routine, finisce stasera; domani inizierà la seconda, quella
che si appoggerà sull’ elenco dei partecipanti di una crociera. E se un uomo
esiste lui lo farà uscire. Vivo o morto.
Marco Spotti - Serva d'acciaio
Serva d’acciaio
Schiava è
la macchina dei nostri bisogni,
Serva
sotto egoismi zitta ancella.
Giostra
dell’orrore finta giusta madre.
Nero
sangue. E’veleno il seme tuo.
Prigioniere
macchine devastanti.
L’ordine
alla schiava è distruggere,
consumare,avvelenare
piano
la casa
del padrone scemo,
Palese
stupidità sarà fatale.
Qui, il
poeta dal suo paese osserva,
Nel di’
il fumo e nella notte polveri di luci.
Qui, il
poeta pensa.
Piangendo
scrive alla mai pensata musa
Che
raffina,inquina e ci da benzina.
Jennifer Bevilacqua - Perchè t'ho uccisa io
Perché t’ho uccisa
io
E'
tossico il tuo sorriso, quasi come questo mare;
ad
uccidermi sei tu,
perché t’
ho uccisa io.
Nel mio
consapevole delitto ,inconscia del tuo dolore.
Tu che
respiri il rumore assordante di questa via
tu ,ferma
da questa sporcizia.
Arida è
l'aria in cui vivo, arido è il campo soffocato dalla chimica
invenzione
umana.
Puzzano
di virtualità le parole, velenose quasi quanto il mio piatto,
petrolio
mortale la nostra comunicazione,
è fisico
e morale il nero del cielo.
Amara di
sconfitta ,inetta nella tua voglia;
tu,mia
cara terra
ingannevole,
con tutti
i tuoi abitanti,
soffocata
in tutto
il tuo silenzio.
Valentina Rodighiero - Dove tutto va a finire
17
febbraio
Oggi è un giorno meraviglioso. Tu
sei meraviglioso.
La vita mi inonda quando mi guardi
negli occhi con il tuo mezzo sorriso e le tue mani leggere e decise sui miei
fianchi mi appoggiano alla parete. La mia schiena tocca le piastrelle ed è
attraversata da un brivido di eccitazione proibita mentre mi baci proprio qui,
tra le mura di questo bagno stretto che ci proteggono dagli sguardi indiscreti
dei colleghi.
Sento il profumo dei tuoi capelli
mentre le tue mani e la tua bocca percorrono il mio corpo. Ti soffermi un
attimo, incantato dal mio piccolo sole tatuato; la mia mano trema sfiorando la
chiave di violino disegnata sulla tua schiena. Sei dentro di me, il tempo si
ferma ed esistiamo solo noi, vibranti all’unisono in un unico corpo.
Poi restiamo stretti l’uno
all’altro, cercando di calmare il ritmo forsennato del cuore e del respiro,
increduli e perfetti per un attimo in un mondo immobile e imperfetto.
20
febbraio
Sono felice, felice, felice.
La felicità si nasconde in cose
piccole, in luoghi ovvi, dove non ci viene neanche in mente di cercare, sotto
forma di un fine scintillio frizzante, una marea inaspettata, una vibrazione
sulla lunghezza d’onda giusta.
E basta poco per frizzare: l’alba,
una giornata invernale di sole con il sapore della primavera, un bacio rubato
profumato di mela e caffè.
21
febbraio
La tua casa è come te, calda e
piena di polvere e sogni.
È così facile per noi spogliarci
dei vestiti; arduo, invece, mostrare nuda la nostra anima, che abbiamo sepolto
dietro muri d’acciaio per impedire che venga ferita ancora. Lentamente scopro
il tuo corpo e mi innamoro di ogni centimetro della tua pelle. Facciamo l’amore
ancora e ancora, come volendo recuperare in poche ore gli anni trascorsi l’uno
senza l’altro. Ci sentiamo protetti dalla notte che corre veloce.
Ti vedo, divina opera d’arte, in
piedi al centro della stanza, di spalle, illuminato di traverso dalla luce del
bagno dimenticata accesa. Vedo i tuoi ricci indomabili, le tue spalle forti,
vedo parole di inchiostro che ti abbracciano il petto e si muovono con il tuo
respiro. Ti volti e sorridi, ma è un riso amaro quello che ti piega le labbra
mentre mi mostri un lembo della tua anima. C’è rammarico nelle tue parole, c’è
la determinazione di vincere e di arrivare in alto per riscattare e guarire le
ferite subite. Si dice che, se scruti dentro l’abisso, l’abisso scruta dentro
di te; ed è così che la tua anima si insinua sotto la mia pelle senza che io
possa fermarla. E all’improvviso ti accorgi che stai perdendo il controllo
della tua vita e della tua anima. Forse mi hai mostrato troppo, forse hai visto
troppo di me, forse non sei abituato a sentire l’armonia di cui risuoniamo ora.
Sei ancora vicino a me ma sento che ti dibatti e scappi, ti allontani correndo
mentre scivoliamo nel sonno.
È notte e io
ascolto il tuo respiro profondo e regolare. Sento, violenta, la paura di non
poterlo più ascoltare, la paura della tua paura, la paura di trovarsi a lottare
contro fantasmi perfetti, essendo così imperfetta. E respiro quello che ormai è
un ricordo di respiro, raccogliendo le energie per proseguire, al buio, sul
filo del rasoio.
3
marzo
Dove sei finito, ossigeno puro che
mi mantiene in vita? Dov’è finita la condivisione profonda di corpo e anima?
Ti ho incontrato per caso oggi. Non
mi hai salutato, non mi hai nemmeno guardato negli occhi. Non sono sicura
dell’esattezza delle mie percezioni, sento troppo me stessa quando tu mi sei
vicino; però oggi ho sentito la paura, e non era mia. Quando ti sento debole mi
sento forte. Non è cattiveria, è che non sono più sola con il mio sentimento
grandissimo e mi torna la forza di respingere il panico. Torna anche la rabbia
per un rifiuto, per un silenzio che non capisco. La rabbia e la forza non mi
rendono felice, ma mi aiutano a sentirmi meno triste. Però verso sera mi sento
più stanca e, nel silenzio, i pensieri sembrano gridare di più. E mi tornano in
mente le tue parole e le cose che amo di te, e il tuo corpo si disegna ancora
nitido nei miei occhi. E non voglio spiegazioni, non voglio nient’altro che
tornare indietro e avere ancora la tua pelle sulla mia e il tuo odore intorno.
Vorrei solo poter ancora credere alle parole che ricordo. Vorrei solo sentire
che ci sei. Ma questa notte cammino da sola.
5
marzo
Piove forte su Novara.
Ti prenderei per mano e camminerei
con te fino in capo al mondo sotto questa pioggia. Ti abbraccerei mentre i
nostri capelli si bagnano. Mi basterebbe poterti guardare, con i tuoi occhi a
pochi centimetri dai miei occhi. Ancora una volta mi basterebbe sentire che ci
sei. Invece sei così dannatamente lontano, e sotto questa pioggia di nuovo
cammino da sola.
8
marzo
Fortunatamente mi restano le
amiche, che mi indicano una via e mi danno speranza. Traggo da lì la forza in
attesa di tuoi cenni.
Però il venerdì pomeriggio e il
ricordo di te sono un tutt’uno. Forse è solo la stanchezza della settimana, o
la relativa solitudine, o il weekend che inizia senza un tuo sorriso, o
l’effetto della sera. Ma sospetto che il ricordo sia legato proprio a questi
corridoi semideserti, alle luci spente negli uffici, a questa atmosfera abbandonata e notturna, la stessa che si respirava
quando ci incontravamo di nascosto e mi prendevi un bacio tra un sorso di caffè
e l’altro.
11
marzo
Oggi ti vedo nuotare per la prima
volta. Il tuo delfino è una poesia non scritta che ad ogni bracciata svela un
nuovo verso. Nessun sogno può eguagliare la visione di te, seduto a bordo
vasca, la tua pelle lucente di gocce e lo sguardo perso nel vuoto. Vorrei
essere blu e mimetizzarmi con l’acqua, per spiarti non vista. Mi rendo conto di
nuotare con rabbia, ma non so se è rivolta contro di te che sei meraviglioso e
lontanissimo, o contro di me che continuo a desiderarti così intensamente.
15
marzo
Il tuo rifiuto mi colpisce allo
stomaco. Credimi, non è una metafora se ti dico che non riesco più a respirare.
17
marzo
Un mese dopo sono seduta sul
pavimento, in questo bagno dove tutto è cominciato.
E tu sei con me, finalmente.
Non sono più felice, il cuore è
spezzato e mi fa ancora male; ma ora anche il tuo è spezzato e mi tieni
compagnia nel dolore.
Mi sembra di sentire la tua voce,
un suono più flebile di un respiro. Mi stai chiedendo perdono per avermi
ferita? O forse stai pregando, tu che non hai mai creduto in nulla? Mi chino su
di te ma troppo tardi, hai già smesso di mormorare. La luce nei tuoi occhi si
spegne lentamente. È una lacrima quella che ti riga il volto? Il tuo sangue
continua a scorrere dalle ferite di coltello. Una scia scarlatta scorre sulle
piastrelle fredde verso l’esterno.
Poso la testa sul tuo petto, umido e appiccicoso. Aspetto. So che tra
poco verranno a prendermi; ma tu sei con me ora ed io non ho più paura.
Finalmente respiro di nuovo.
Raffaele Montefusco - Labbra rosse
Quando
suonò il campanello Gianluca si stava facendo la doccia; si infilò
l’accappatoio e, lasciando una scia gocciolante per tutto il percorso, andò a
rispondere al citofono. Era il postino che doveva consegnare una raccomandata “sarà
una multa”, pensò, e la prese con familiarità, come se ogni giorno ricevesse
delle multe; la posò sul tavolino nel salotto e ritornò a finire la doccia.
Qualche
minuto più tardi Gianluca, avvolto nell’accappatoio, era seduto in una poltrona
di pelle nera con un bicchiere di Martini dry. La lettera era ancora lì dove
l’aveva posata. Solo allora si accorse che la busta era di colore rosa pallido.
La prese in mano e la soppesò: era leggera e l’indirizzo era scritto in viola a
penna stilografica; la scritta era un po’ sbiadita nei punti dove lui l’aveva
toccata con le mani umide.
La
ripose sul tavolino senza aprirla, fece tintinnare i ghiaccioli nel bicchiere e
bevve una lunga sorsata. Quella lettera lo intrigava. Chi poteva mai spedirgli
una busta rosa pallido? Provò mentalmente a fare l’inventario delle sue ultime
conquiste. Gianluca piaceva alle donne, per il suo fisico, ma non solo; aveva
un modo di ascoltare le cose e una disponibilità innata che lo rendeva
prezioso, e spesso le sue amiche gli confidavano i loro segreti e i loro
problemi.
La
lettera era ancora lì, ma lui non voleva aprirla subito; gli sarebbe piaciuto
indovinare chi l’aveva spedita.
Bevve
l’ultimo sorso di Martini e incominciò a vestirsi; erano le sette e quella sera
aveva un appuntamento con Paola, una ragazza che aveva conosciuto al circolo
della Croce Verde e a cui teneva molto. Lei aveva resistito parecchio tempo
prima di concedergli una cena. Gianluca aveva prenotato in un ristorante di
Recco, la Manuelina, e doveva passare a prenderla sotto casa sua, a Sturla alle
otto.
Indossò
una camicia bianca e un vestito di lino blu, senza cravatta, e si guardò
soddisfatto allo specchio; questo gli restituì l’immagine di un uomo tra i
trenta e i quarant’anni, con i capelli di colore biondo scuro e gli occhi
marroni, alto quasi un metro e ottanta.
Lasciò
la lettera sul tavolino. L’avrebbe aperta al suo ritorno. Scese in garage a
prendere la Saab e si diresse verso la casa di Paola; mancava ancora un quarto
alle otto e aveva tutto il tempo di guidare con calma.
Quando
Gianluca giunse in prossimità delle case colorate di fronte al mare, dove
abitava Paola, lei non era ancora scesa. Spense il motore, scese dall’auto e si
accese una sigaretta; aveva appena gettato il mozzicone che lei arrivò:
indossava un vestito di raso verde e aveva la borsa e le scarpe col tacco dello
stesso colore; i capelli castani, leggermente arricciati, le scendevano sulle
spalle. Ma la cosa che colpì Gianluca erano le labbra, belle, carnose, messe in
evidenza da un rossetto di colore carminio intenso.
Si
salutarono e si avviarono verso Recco.
Gianluca
stava percorrendo la strada del ritorno passando per la costa. Aveva messo un
disco di Coltrane e guidava lentamente, gustandosi il ricordo dell’ottima cena
a base di pesce, dei sorrisi di Paola e delle miriadi di luci che si
riflettevano sul mare e che ora gli correvano incontro.
Paola
si era confidata con lui e gli aveva raccontato della sua ultima storia andata
male: aveva convissuto per un anno con un uomo di dieci anni più vecchio di lei,
che beveva, e che spesso tornava a casa ubriaco; era un tipo nervoso e violento
e qualche volta erano venuti alle mani. Per questa ragione lei non voleva più
mettersi con gli uomini; almeno per qualche tempo. Gianluca l’aveva ascoltata
come faceva di solito, con la massima attenzione, socchiudendo gli occhi, come
se volesse fare filtrare le parole attraverso le ciglia… e Paola aveva parlato
e parlato… non le sembrava vero di avere un interlocutore così attento… e così
bello…
A
Sturla si salutarono con un semplice bacio. Poi Gianluca tornò a casa: pensava
alla lettera rosa.
Posteggiò
l’auto in garage e salì nel suo appartamento; ancora vestito com’era si versò
un bicchiere colmo di whisky con ghiaccio e, dopo aver messo la musica di Cesaria
Evora si sedette in poltrona. Riprese la busta in mano, la guardò di nuovo con
attenzione e la annusò: gli parve di sentire un leggero profumo, ma non ne era
sicuro. La aprì: estrasse un foglio rosa piegato in tre.
Lo
guardò e lo svolse: sulla carta liscia e leggermente odorosa c’erano stampate
delle labbra rosse. Una donna aveva appoggiato le sue labbra e sulla lettera ne
era rimasta l’impronta nitida e tumida. Non c’era nient’altro. Nemmeno una
parola, un nome, una firma, nulla.
Gianluca
si soffermò a guardare l’immagine e tutto quello che questa rappresentava: il
sorriso, l’amore, il desiderio, il piacere… ma di chi erano quelle labbra
morbide dalla linea perfetta? Di certo di una donna che conosceva…
Riprese
in mano la busta: la raccomandata proveniva da Genova; ovvio, la città nella
quale lui viveva… Guardò la rubrica della sua agendina: chi poteva mai essere?
Alba no, aveva labbra troppo sottili e poi non era il tipo da fare una cosa del
genere. Avrebbe potuto essere Margherita, ma con lei aveva litigato; ripicca? No,
ci avrebbe giurato. Ripassò per ben tre volte tutta la rubrica bevendo tre bicchieri
di whisky. Poi il lampo, l’intuizione. Sì, era credibile… molto probabile… e
perché no?
Qualche
giorno dopo Gianluca e Paola stavano bevendo l’aperitivo a Nervi, in un bar a
picco sulla scogliera. Paola non aveva rossetto ed era ancora più bella. Parlavano del più e del meno, ma lei aveva
gli occhi lucidi: quell’uomo le piaceva molto; raramente aveva conosciuto
qualcuno con quel fascino. Gianluca aveva ordinato un Pigato della Riviera di
ponente e lo sorseggiava lentamente, per estrarne tutto l’aroma.
Ad
un certo punto si mise a guardare la donna: lei rispose al suo sguardo con un
tenero un battito di ciglia e con le labbra turgide che tremavano leggermente;
allora le disse: «Ora lo so: sei stata tu».
La
donna non rispose; lo guardò ancora negli occhi e poi sorrise. L’istante
successivo Gianluca sentì il calore umido delle labbra di lei e capì di avere
indovinato.
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