L’oceano era casa sua.
Libero era cresciuto in un villino a due passi da Bronte Beach e suo cugino Joe
l’aveva educato a vela e surf. Da quelle parti le onde erano abbastanza forti,
di certo non consigliabili per un bambino di dieci anni alle prime armi. Ma
Libero nell’acqua si sentiva al sicuro, e non solo perché aveva le braccia
forti di Joe a cui aggrapparsi. Madre di Sydney e padre di Rimini: il mare ce
l’aveva nel DNA. Aveva visto molte volte i guardaspiaggia salvare qualche
bagnante che si era lasciato sopraffare dalla Bronte Express, la subdola
corrente tipica di quella spiaggia. Ma Libero non si faceva impressionare molto
facilmente, anzi guardava con sguardo commiserevole i grandi temerari della
domenica che, per non affrontare la corrente, se ne stavano tranquillamente a
mollo nella piscina d’acqua salata costruita alla fine della spiaggia, circondata
da aree picnic, caffè e tutto quanto potesse essere contrario alla vera natura
di quel posto. Anche se si sentiva australiano al cento per cento, essendo nato
e cresciuto a Sydney, finito il liceo aveva voluto conoscere l’altra metà delle
sue origini e se n’era andato a Milano a studiare Marketing e Comunicazione
d’Impresa. Era stato uno strazio. Non tanto per l’atteggiamento delle persone,
il tempo cupo o la mancanza di spazi verdi in cui respirare aria con la “A”
maiuscola. Il suo problema era stato abituarsi a non sentire il profumo
dell’acqua salata ogni volta che usciva di casa. Poteva fare a meno dello
sciabordio delle onde nel silenzio della notte, e poteva anche non vederlo, il
mare, ma l’odore di salsedine era per lui come una droga e dopo una settimana
in cui non lo sentiva era già andato in astinenza. Per questo quando poteva si
spostava sulla costa ligure o toscana, o dai nonni in Romagna, per poter
tornare nel suo ambiente naturale. Si era sempre immaginato come un delfino che
lontano dall’acqua lentamente si disidrata e si spegne, ma una volta rimesso a
contatto col mare rientra in sé, la sua pelle ritorna lucida e gli occhi
riprendono vita. La stessa cosa doveva succedere anche a lui. Finita la laurea,
era tornato a Sydney e, non appena il taxi l’aveva accompagnato sulla soglia di
casa, non aveva nemmeno voluto entrare per mettere giù le valige, ma aveva
lasciato tutto sulla porta e si era lanciato verso la spiaggia. Via la
maglietta e via i pantaloni, le scarpe erano già state abbandonate in giardino,
si era immerso nella fredda acqua dell’oceano e, sotto lo sguardo divertito dei
passanti, correva e sguazzava nell’acqua. Come una bambino che, dopo un lungo
giorno di scuola passato seduto su una sedia ad ascoltare in silenzio la sua
maestra, può finalmente correre felice e urlare, una volta tornato a casa.
Da quell’esperienza
Libero non aveva più voluto separarsi dal mare e, anche allora che aveva
trent’anni ed era il delfino di un importante direttore d’azienda, uno squalo
dell’alta finanza, non aveva mai perso la spensieratezza che era in lui,
genuina e frizzante come la schiuma delle onde.
Quel martedì di giugno
stava facendo un’escursione sulle spiagge settentrionali della baia di Sydney.
Aveva avuto la fortuna di trovare tre amici che avevano la sua stessa passione
per la vita all’aria aperta e non si tiravano mai indietro se c’era da visitare
qualche nuovo spazio selvaggio. Ormai in zona era rimasto poco che i quattro
non avessero ancora esplorato, ma il bello della natura è proprio quello: quando
viene lasciata vivere col suo ritmo è un mutamento continuo e ogni volta che
visiti un posto troverai sempre qualcosa di diverso rispetto all’occasione
precedente. È solo l’uomo che ha paura dei cambiamenti e tenta di legare cose e
persone affinché rimangano uguali per sempre.
Per pranzo si erano
fermati a Manly, centro troppo turistico per i loro gusti, ma in cui le
occasioni per mangiare bene non mancavano di certo. Ma la spiaggia più
frequentata, dopo Bondi, dai cittadini di Sydney era troppo “commerciale” per
loro. Volevano qualcosa di più intimo. E lo trovarono a Collins Beach, venti
minuti di camminata più a sud. Non la classica spiaggia da vacanze famiglia,
lunghissima e stretta con centinaia di persone che si ammassano solamente per
rimanere sdraiati a prendere la tintarella. Collins Beach si trova in
un’insenatura, circondata da terra incontaminata in cui le rocce e
l’ingombrante vegetazione servono da scudo per il resto della civiltà. Oddio,
la presenza degli yacht dei visitatori di Manly ormeggiati a qualche centinaio
di metri sembrava un controsenso, ma a vederli impotenti, silenziosi e
dondolanti mentre seguivano il ritmo delle onde, sembrava che anche loro
fossero diventati parte integrante dello spirito della baia. Poco distante c’è
un piccolo promontorio, Jump Rock, da cui i giovani si tuffano per dimostrare
il loro coraggio. Una sorta di “Game of Chicken” australiano, in cui i modelli
James Dean si lanciano pregando di evitare le rocce ai piedi del promontorio.
Le autorità avevano installato delle ringhiere per porre fine a quelle
pericolose abitudini, ma non era servito a molto. E Libero e i suoi amici,
quando erano da quelle parti, non si lasciavano mai sfuggire l’occasione di
provare un tuffo da sei metri d’altezza.
Così Libero si lanciò.
Mentre stava precipitando nell’oceano, pensò per un nanosecondo alla
possibilità che quell’abbuffata di libertà potesse essere l’ultima sensazione
della sua vita. Non gli era mai successo prima, non aveva mai considerato che
il suo continuo susseguirsi di emozioni forti potesse giungere a un termine, ma
quella volta la sua mente si offuscò proprio nel momento più bello. Poi
l’impatto con l’acqua, fragoroso e grandioso come sempre, la caduta verso il
fondo come un tutt’uno con il mare, e la riemersione da vincitore alla luce del
sole. Quei brutti pensieri erano già spariti, ma ora c’era qualcos’altro di
strano. Nell’acqua aveva percepito una strana energia, la presenza di qualche
misteriosa forza attrattiva. Quando tornò a galla, i suoi amici si stavano sbracciando
in maniera insolita. In un primo momento non capì cosa stessero dicendo perché
le loro parole erano coperte dal suo respiro affannoso, ma poi, una volta che
si fu calmato, capì chiaramente le loro urla. «Shark, shark!».
Libero guardò d’istinto
dietro di sé ma non avvistò nulla, si immerse e allora sì, lo vide: un enorme
squalo bianco che si avvicinava a lui. Gli sfrecciò accanto, poté sentire lo
spostamento d’acqua provocato dal movimento della sua coda, ma l’animale non
sembrava essersi nemmeno accorto di lui. O forse non gli dava la minima
importanza.
Al contrario della
maggioranza delle persone, a Libero lo squalo bianco era sempre piaciuto. Di
più, lo stimava. Era il padrone assoluto degli oceani e tutti gli altri animali
lo temevano, era lo spauracchio persino dell’uomo che si credeva l’essere
superiore della Terra. Rappresentava, ai suoi occhi, la rivincita della natura
sull’umanità, il suo monito per farci capire che potremmo anche aver raggiunto
il culmine dell’innovazione tecnologica nella nostra breve storia, ma in una
lotta corpo a corpo senza altri trucchi la natura selvaggia ha ancora la meglio
su di noi, non siamo ancora riusciti a sottometterla. Strano da dirsi per un
ragazzo australiano, ma fino ad allora non aveva mai visto uno squalo dal vivo.
Nemmeno in un acquario perché si era sempre rifiutato di andare a vedere dei
pesci costretti in una gabbia per il piacere di qualche bambino viziato.
E ora era lì, a pochi
passi dal Signore dei Mari. Iniziò a nuotare verso riva, ma non sapeva bene
nemmeno lui cosa stesse facendo. I suoi amici continuavano a gridare spaventati
e lui non li sentiva. Il suo corpo era mosso dallo spirito di sopravvivenza,
mentre la sua mente era attratta dallo squalo, sedotta dall’energia che la sua
sola presenza propagava in tutta l’acqua. A un certo punto si immerse
nuovamente. Non aveva più visto lo squalo, ma sapeva benissimo che era ancora
nelle vicinanze. Anzi, era vicinissimo a lui, lo percepiva chiaramente. Se
avesse voluto attaccarlo, la sua nuotata disperata verso riva sarebbe stata
inutile, una battaglia ad armi impari. Se doveva morire, voleva almeno
guardarlo un’ultima volta e non finire la sua vita scappando. Si immerse e,
dopo aver guardato qualche secondo intorno a sé, lo vide arrivare dalla sua destra.
Era bellissimo. Non poteva non essere terrorizzato dai denti triangolari che
sporgevano dalla sua bocca e che presto l’avrebbero probabilmente dilaniato, ma
il suo sguardo lo immobilizzò. Non era lo sguardo assassino di un predatore,
era regale e orgoglioso. Lo squalo si stava dirigendo velocemente contro di lui
e per un attimo Libero smise di vivere. Quando lo racconta dice sempre che il
suo cuore si fermò e che sentì che tutti i suoi organi si erano letteralmente
bloccati. All’ultimo momento lo squalo cambiò direzione e passò sotto i piedi
di Libero, e questa volta lo sfiorò veramente. Il ragazzo si voltò per vederlo
andarsene un’ultima volta e ammirare quella combinazione sublime di eleganza e
potenza che si inoltrava verso il profondo oceano. Sapeva che non sarebbe
tornato, l’aveva graziato. Riemerse in superficie e nuotò tranquillamente verso
la riva, mentre i suoi amici si stavano contorcendo disperati perché non
vedevano più lo squalo e Libero stava nuotando con un’andatura da settantenne
in riabilitazione. Corsero giù dalla scogliera per andargli incontro e lo
trovarono immerso in uno stato estasiato, quasi come fosse stato il testimone
di un’apparizione.
Il mattino dopo, prima
di andare al lavoro, Libero si fermò a fare colazione in un bar vicino a casa.
Sfogliò di sfuggita il giornale e trovò una notizia che lo fece sorridere. Il
giorno prima era stata fermata una banda di pescatori di frodo che tentava di
catturare squali al largo di Sydney. Le autorità australiane erano intervenute
appena in tempo per liberare uno squalo bianco di cinque metri che i pescatori
stavano per uccidere. Libero sapeva che era lo stesso squalo che aveva
incontrato il giorno prima.
In fondo erano uguali.
Amavano tutti e due la libertà e cercavano tutti e due di tenersela stretta in
un mondo che invece li spingeva nella direzione opposta. E per il momento ci
stavano riuscendo alla grande.
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