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mercoledì 3 luglio 2019

Valentina Aldrovandi - Quell’estate con Andrea

Avevo conosciuto Andrea davanti alla gelateria di via del corso, mente era in fila con un suo amico attendendo il suo turno con aria svogliata.
Era un ragazzo alto e snello con i capelli neri, quel giorno aveva addosso un paio di bermuda verdi, una t-shirt bianca e un paio di scarpe da ginnastica blu ormai logore dall’usura e dal tempo. Dallo zaino a righe che portava sulle spalle, mezzo aperto, spuntava una cartella azzurra un po’ sgualcita con qualche foglio bianco. Era in quel locale con naturale noncuranza, parlava con il ragazzo al suo fianco mentre guardava i gusti dei gelati, indeciso tra cono o coppetta, scelta che da quando ero bambina mi affliggeva al momento di ordinare dinanzi a ogni gelataio impaziente.
Mi trovavo lì per caso, la scuola era finita da una settimana e mi ero ritrovata delusa davanti al cartellone con i risultati, trovandomi rimandata a settembre in fisica, e sapendo bene che l’avrei pagata cara soprattutto con mio padre, che ci teneva a esibire i risultati scolastici di sua figlia con parenti e amici.
Quell’anno non era andata come si aspettava, e dopo un primo quadrimestre brillante, mi ero arenata su numeri e formule, da sempre il mio tasto dolente, e non ero riuscita a recuperare un quattro di troppo preso in una verifica improbabile in una giornata assolata di inizio primavera.
Mi aspettava un’estate pesante, già lo sapevo. I miei sarebbero partiti con mia sorella a metà luglio per raggiungere la nostra casa in Puglia, mentre io sarei rimasta a Milano a studiare insieme al nostro vicino di casa, un professore universitario in pensione, che si era offerto di darmi ripetizioni in vista dell’esame di riparazione di settembre.
Solo ad agosto inoltrato avrei preso il treno per le mie due settimane di vacanza, una manciata di giorni, troppo poco per staccare la spina dopo mesi faticosi e stanchi.
Quel giorno il sole era alto, ero immersa nei miei pensieri mentre guardavo Andrea con curiosità, cercando di evitare che si accorgesse del mio sguardo insistente. Si era girato proprio mentre ero a una distanza minima da lui, rischiando di venirmi addosso con il gelato.
“Scusami, sono un po’ distratto”. Mi aveva guardato e aveva sorriso, illuminando quella giornata faticosa, iniziata con le grida di mia madre per le mie scorribande della notte precedente, in cui ero rientrata troppo tardi da un incontro con gli amici.
Ero uscita di corsa tirandomi dietro la porta, e mi ero ritrovata a passeggiare fino al Naviglio, cercando proprio quella gelateria affollata per perdermi in mezzo alla gente.
“Anche io oggi sono distratta, non ne vengo fuori”, avevo risposto, rendendomi conto solo dopo di aver allungato un po’ troppo la frase. “Scusa”, avevo aggiunto.
Andrea aveva esitato, poi inaspettatamente mi aveva invitato a sedermi in un tavolino fuori. “Magari hai bisogno di fare una pausa, siediti con noi”.  Il suo amico, sorpreso, aveva occupato il primo tavolino libero, in un delizioso cortile interno, e noi l’avevamo seguito.
Avevo iniziato a raccontare di me, della fine pesante  di quell’anno scolastico, Andrea a sua volta mi aveva parlato dei suoi progetti per l’anno successivo. Era in procinto di partire per un anno a Chicago, avevo sognato l’America attraverso i suoi racconti, stupita della facilità con cui mi lasciavo trasportare, rapita unicamente dalle sue parole.
Ad un certo punto il suo amico ci aveva salutato velocemente, eravamo rimasti soli con un lieve imbarazzo ad accompagnare lo scorrere del tempo.
Era iniziata così con Andrea, un po’ per caso,  da quel giorno le nostre vite si erano intrecciate e l’estate di quell’anno era rimasta sospesa nel tempo, un regalo inaspettato che mi ero presa con urgenza e desiderio.
Quando i miei erano partiti, avevamo preso l’abitudine di vederci tutti i pomeriggi in un locale vicino a casa sua, una libreria caffè con i tavolini per studiare. Io con il mio libro di fisica, lui con la sua ricerca per l’università di Chicago.
Le serate erano nostre, salivamo da lui ad ascoltare la musica e a sentire il profumo della pianta di limoni del suo terrazzo.
Lui metteva i dischi di Cole Porter e si sdraiava sul divano, io mi sedevo per terra e chiudevo gli occhi. La musica mi stordiva e così le sue parole, che mi facevano sentire dentro un racconto degli anni settanta.
“Hai mai visto il mare del Nord?”
“No, non ho fatto molti viaggi”, rispondevo.
“Ti ci porterò un giorno”. Mi parlava come se fossi la sua cosa più bella, apriva i suoi libri di poesie e le leggeva per me. Non le avevo mai amate molto, eppure quella è l’estate in cui ho scoperto Sereni, Seifert, Konstantinos Kavafis, che avrebbero accompagnato da quel momento i miei giorni e le mie notti.
Evitavo di pensare alla sua partenza ormai vicina, mancavano solo poche settimane alla data prevista per il suo volo, il cuore si stringeva all’idea che tutto ciò sarebbe durato solo il tempo di pochi respiri. Centellinavo le ore e i minuti, il profumo dei limoni scandiva i miei giorni e le mie ore.
Mi piaceva il momento in cui correvamo a casa sua. Entravamo in un cortile attraverso un portone verde grande, uno di quelli antichi che sono la mia passione e che amo fotografare da sempre. Sentivo sempre un odore forte provenire dalla portineria, sapeva di peperoni, aglio e carne alla griglia, una miscela che per sempre mi avrebbe parlato di lui e delle nostre corse verso l’ultimo piano di quel palazzo antico.
Andrea mi parlava poco della sua famiglia, sapevo che aveva una sorella più grande di lui, e che o suoi genitori passavano l’estate in una grande casa di famiglia situata nelle campagne toscane, rifugio di amici e parenti che in un modo o nell’altro amavano passare di lì.
Lui invece preferiva restare a Milano. Diffidava di quell’atmosfera fintamente gioviale che si respirava tra quelle mura, le lunghe discussioni a cena in cui ognuno cercava di convincere gli altri della bontà del proprio pensiero. Cene lente davanti a portate interminabili e infinite bottiglie di vino, che finivano per stordire gli animi e inasprire le dinamiche a volte arrugginite dei commensali.
La madre di Andrea era amareggiata e dispiaciuta circa la scelta del figlio di rimanere in città, e non comprendeva come non amasse quello che per lei era ormai un rifugio sicuro, in cui nascondersi e affondare le delusioni dell’anno trascorso, facendo finta che non fossero mai esistite.
Andrea la accusava per questo, e pensava che gran parte delle incomprensioni tra lei e suo padre fossero una conseguenza di questo atteggiamento, ovvero la scelta di non mettersi in discussione sottraendosi a qualsiasi confronto.
Anche quell’anno, come i precedenti, aveva passato in Toscana solo un week end, ed era subito tornato a Milano per godersi la sua casa vuota e la silenziosa solitudine delle stanze in letargo.
Anche io avevo goduto di quell’immobilità piacevole e irreale, di quei giorni fuori dal tempo che precedevano la sua e la mia partenza, ormai incombenti.
Quel martedì mi ero svegliata di soprassalto, avevo dormito a casa per finire di preparare gli ultimi bagagli, a malincuore avevo lasciato Andrea che finiva un grafico per la sua ricerca. Era tardi ma non avevo voluto farmi accompagnare, lo vedevo intento e non volevo si distraesse dal suo lavoro.
Mi ero addormentata quasi alle tre dopo aver fatto una doccia per far scivolare via la tristezza che stava iniziando a soffocarmi, all’idea dei pochi giorni che mi restavano per stare con Andrea. Per quanto mi sforzassi di rimanere lucida, il pensiero della sua assenza mi atterriva e mi sentivo persa e sola come mai mi era capitato sino a quel momento.
Alle sette avevo iniziato a sentire la pioggia contro la finestra della mia camera, prima gocce leggere, che si erano tramutate in pochi minuti in goccioloni pesanti, colpi rumorosi che rimbombavano sui vetri. Non mi ero più riaddormentata e mi sentivo stanca e sopraffatta dalle emozioni.
Avevo provato a chiamare Andrea ma stranamente non mi aveva risposto. Il suo telefono suonava a vuoto e dopo dieci squilli la voce fredda della segreteria si era unita alla mia delusione. Avevo riprovato e il copione era stato lo stesso.
Con il telefono in mano mi ero alzata e avevo camminato fino al soggiorno, avevo guardato fuori e fissato per qualche minuto il cielo grigio, sfondo dei miei pensieri tristi.
Un operaio aveva gridato qualcosa dal cantiere della casa di fronte in costruzione, un altro era sceso da un ponteggio e per un attimo aveva alzato lo sguardo e mi aveva fatto un cenno.
Non me la sentivo di aspettare ancora, Andrea continuava a non rispondere e non mi davo pace. Mi ero vestita ed ero corsa fuori, correndo sulle scale per fare più in fretta. La casa di Andrea non era distante dallamia, ma quella strada mi era sembrata lunghissima quella mattina. C’erano in giro solo pochi passanti, era troppo presto per una domenica di agosto inoltrato, la città era ancora addormentata, in attesa della scoperta del nuovo giorno.
In dieci minuti ero davanti al portone, impaziente di rivedere Andrea. Mi ero attaccata al citofono a lungo, avevo un presagio triste ma preferivo non abbandonarmi alle mie sensazioni.
Nessuna risposta.
Avevo provato di nuovo, Andrea non rispondeva. Mi ero guardata intorno sperando che uscisse qualcuno, ma tutto sembrava immobile e sospeso. Volevo sentire la sua voce e mi ostinavo a fissare il portone sperando che lui mi si materializzasse davanti, ma tutto taceva.
Dopo una decina di minuti uscì Flavia, l’insegnante che abitava sotto Andrea, alle medie era stata la sua professoressa di italiano, conosceva bene lui e la sua famiglia, da sempre.
La fermai impaziente.
“Buongiorno, posso entrare? Ha visto Andrea per caso?”
“Andrea Benatti?” Mi disse guardandomi con curiosità.
“Si’ lui”, risposi con ansia. “Lo sto cercando ma non risponde”.
“Mi spiace ma Andrea e’ dovuto partire stanotte per la Toscana. E’ venuto a chiedermi le chiavi della macchina”.
“E’ successo qualcosa?”, le chiesi.
Stette in silenzio e non mi rispose.
“Sono preoccupata”, proseguii.
“Mi spiace, sarà un brutto momento, riprova più tardi”, e aggiunse, “ti ho intravista qui in questi mesi, so che frequenti Andrea, ma credo dovrebbe essere lui a raccontarti. Scusami”.
Mi salutó velocemente e sali’ in una cinquecento rossa parcheggiata davanti a casa.
Ho provato invano a contattare Andrea per giorni, quell’estate di dieci anni fa, ore interminabili passate davanti a uno schermo buio, che non si è più illuminato per me. Dopo aver cercato di parlargli senza successo, ho aspettato che mi chiamasse lui prima del ventun agosto, giorno fissato per la sua partenza per gli Stati Uniti. Non mi spiegavo perché avesse interrotto ogni rapporto, improvvisamente, dopo che per due mesi eravamo stati così vicini, uniti, complici, se pur per un tempo così breve.
Non aveva più voluto avermi accanto, ma l’aveva fatto senza una parola che decretasse una rottura e che servisse a me per dare a  tutto quello un senso.
Aveva preferito dileguarsi e partire senza spiegarmi, senza coinvolgermi nell’urgenza di quella notte, senza condividere oltre, lasciando intatti quel frammenti di tempo insieme, come una perla preziosa isolata da tutto il resto.
Avevo sentito con dolore lo scorrere del tempo, fino al momento in cui avevo ripreso le abitudini di sempre, e Andrea si era perso, come il resto di quell’estate, nelle pieghe dei miei giorni.

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