Tutto di lui era la spia di un malessere, quando lo conobbi.
Gli occhi, soprattutto. Due fessure acquose di tristezza, perennemente rivolte a terra, a marcare la distanza tra sé e il mondo, a sottolineare il disagio del momento. E quel suo sguardo, perso e languido, di chi è sopraffatto dagli eventi, vittima suo malgrado delle incomprensioni degli altri, degli adulti, di coloro che anziché preservarlo dal dolore, il dolore glielo avevano arrecato. I suoi genitori, per l’appunto.
L’incarnato, di un pallore quasi niveo, il riflesso di una condizione esistenziale che si trascinava lenta e stanca, spiccava su un viso magro ed asciutto, dai lineamenti delicatamente definiti. La bocca, un tratto di matita che raramente sbavava in un sorriso, dava voce, in tonalità monocorde, ad un bisbiglio sussurrato che si coglieva nei rari monosillabi che di tanto in tanto venivano pronunciati.
“ Pietro, hai capito?” gli domandavo spesso al termine di qualche spiegazione, per distoglierlo da quell’alone di vacuità in cui volentieri annegava i suoi pensieri. Un sì grugnito a denti stretti, mentre fissava il mondo fuori dalla finestra , era la barriera che erigeva a sua difesa e che fungeva da freno a qualsiasi mio desiderio di indagare. Quello spazio oltre, oltre le mura della scuola, oltre il “qui ed ora“, nel vuoto di certezze e valori, quel buio liquido di sensazioni ed emozioni il rifugio ai suoi tormenti interiori.
Ma era il suo incedere che dava la misura del suo straniamento. Camminava, o meglio, scivolava lungo i corridoi e fra i banchi con passo leggero e a spalle basse e ricurve, il cappuccio della felpa calato sul capo chino e leggermente reclinato a destra e le mani sprofondate nelle tasche. Con quell’atteggiamento tipicamente adolescenziale a metà fra il fastidio e il disinteresse verso un tutto indifferenziato, persone e cose, in egual misura. E con il senso del disincanto cucito addosso e la precarietà marchiata a fuoco sulla pelle.
“Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie ” pensavo, parafrasando la sua condizione. Sulla carta il primo incontro con lui: un tu per tu con le descrizioni degli assistenti sociali e degli educatori e coi freddi rapporti compilati dagli psicologi di turno, da coloro che in un qualche modo erano entrati nella sua vita e ne avevano preso le redini.
Estranei che si erano intromessi nel suo mondo di relazioni parentali violandone l’intimità e che avevano scompigliato le carte della sua partita con la vita da poco iniziata. Pagine di dossiers a decretare la sua condizione di disadattato sociale, vittima innocente di tensioni familiari sfociate in sentenze e appelli, carte bollate e ricorsi. Pagine e pagine di sterili tecnicismi e aride conclusioni. Sui sentimenti, i suoi in quel frangente e le emozioni, le sue, da ascoltare, niente di più che qualche riga.
Aveva 15 anni quando iniziò la prima superiore, un anno in più dei suoi compagni, ma la stessa fragilità e apatia di molti di loro. Il pit stop in seconda media. All’epoca viveva con la madre, di cui portava il cognome, e tre fratellastri insieme ad un’orda di cani in un piccolo appartamento non lontano dal centro. La cura di quest‘ultimi un must in quella famiglia, al primo posto dopo gli umani.
Il padre, che non l’aveva riconosciuto alla nascita, si era qualche anno prima riscoperto in quel ruolo e ne richiedeva la custodia, vista la situazione di degrado in cui il figlio vegetava. Nella giungla delle accuse tra i grandi, il ragazzo lasciato allo sbando, vivacchiava e consumava i giorni seduto sul divano di casa trastullandosi coi videogiochi, tra pigrizia e indolenza, tra uno sbadiglio e l’altro, tra una carezza ai cani e un film alla tv. Ma soprattutto sordo al richiamo del dovere scolastico, un po’ per indole, un po’ perché in parte indotto. Già perché il controllargli i compiti richiedeva fatica e presenza tanto quanto il controllargli lo zaino che vuoto rimaneva per giorni e giorni. La leggerezza della cartella, di libri, di quaderni e di merende, la misura del vuoto attorno a lui; l’assenza di cura e amore la cifra del suo disagio.
Così Pietro era cresciuto, insensibile ai suoi doveri verso la scuola per colpa di chi aveva l’obbligo di seguirlo nella sua crescita e che preferiva tacitare la sveglia ogni mattina piuttosto che assecondarne il richiamo, lasciando il figlio al caldo delle coperte. Perché essere madri richiede impegno e sacrificio e una buona dose di responsabilità. Delle proprie azioni, così come del proprio ruolo. Non fu difficile capire che una resa scolastica inadeguata, un impegno insufficiente unitamente ad una marea di assenze furono le motivazioni che decretarono la sua bocciatura.
Doveva ancora compiere 15 anni quando lo portarono via. Una tiepida giornata di fine Estate, accarezzata da un malizioso venticello, accompagnò il suo ingresso in una comunità per ragazzi sulle colline, a parecchi kilometri di distanza da casa. L’allontanamento dal suo nucleo si consumò in fretta e senza spargimento di lacrime da parte di nessuno; a testa china e con i nervi tesi, Pietro racchiuse i suoi indumenti in pochi borsoni sportivi, salutò con gli occhi la madre e i fratelli e senza proferire parola seguì gli assistenti sociali verso il suo nuovo domicilio. Verso l’ignoto, di persone e luoghi, che accettò con tacita rassegnazione. Nel silenzio del proprio dolore, però, non un cenno di stizza, né di odio fu mai pronunciato. Nel silenzio sulla propria condizione, invece, tanti gli interrogativi che presero a macerare.
L’allontanamento dalla madre, decretato dal Tribunale, e l’inserimento in una comunità il primo passo verso la sua rieducazione ed il recupero della sua personalità. Con lei solo un colloquio telefonico alla settimana, in modalità protetta, con gli educatori ad ascoltare aride telefonate inframmezzate da lunghe, lunghissime pause. Puri soliloqui a mezze voci.
“Ciao. Come stai? gli chiedeva freddamente e puntualmente.
“Bene”, le mentiva spudoratamente, a tacitare il suo apparente interesse. Poi il gelo del silenzio a rimarcare le distanze. Sulla nuova scuola, sui docenti, i nuovi compagni in classe e in comunità, sul nuovo mondo che roteava attorno al figlio, non una domanda le uscì mai dalla bocca, tantomeno dal cuore.
Nel contempo, lentamente Pietro andava recuperando il rapporto col padre che, assuntosi finalmente le sue colpe e responsabilità, aveva intrapreso un percorso impegnativo di riavvicinamento al figlio, imparando a gestire quel ruolo ex novo con tutta l’insicurezza e l’improvvisazione dei novizi, ma con l’energia e la determinazione dei vincenti. E soprattutto con amore. Con l’obiettivo della piena tutela del ragazzo e la conquista della sua fiducia.
Il tempo per entrambi e la perseveranza di ambedue le chiavi per la riuscita in un percorso lungo ed impervio, fatto di regole, orari e doveri da rispettare e incontri settimanali con gli assistenti sociali. Una strada in salita, dove tutto era nuovo, o quasi, ed aveva il sapore del sacrificio, soprattutto per il ragazzo. A partire dalla mattina quando si alzava prestissimo, cambiava due pullman per andare a scuola, assisteva alle lezioni e ritornava in comunità verso le tre del pomeriggio. Poi la vita di gruppo e la condivisione delle attività. Spazio per la libertà individuale quasi nullo.
L’aveva scelta lui la scuola, attratto dall’informatica in cui riusciva senza problemi. Nelle altre discipline, invece, aveva lacune come i buchi della groviera. E poca simpatia per le lingue straniere, l’Inglese in special modo.
“Sei nato l’11 Settembre nell’anno dell’attacco alle Torri Gemelle”, buttai lì uno dei primi giorni per stimolare la conversazione.
“Prof, l’anno prima”, mi corresse con voce flebile ed un impercettibile sorriso , senza indirizzare il suo sguardo verso il mio. Poi lasciò che l’orizzonte al di là dei vetri catturasse i suoi umori. Capii che sarebbe stato un percorso di luci ed ombre e che le sfumature ci avrebbero dato il senso degli ostacoli in parte superati. A lui in primis, poi a me. Ritroso com’era schivava le discussioni come le pozzanghere e per non caderci dentro si trincerava dietro un aspetto del suo carattere.
“Sono timido, prof, lo sa!”, mi ripeteva con un certo imbarazzo quando lo spronavo ad esprimersi.
“ Come on!”, replicavo, aspettando il suo intervento. Imparai a dare tempo al suo tempo, a metter da parte rigorosi schemi di valutazione e ad apprezzare i minimi risultati da parte sua, quei piccoli passi verso le tappe intermedie.
Ci mise qualche mese a sfoderare una fila di denti bianchissimi e ben allineati e a liberare un cenno di sorriso nel rispondermi. E un guizzo compiacente negli occhi. Mi bastavano quei segnali per dare sostanza al mio lavoro e giustificare gli sforzi fatti e quelli, ancora tanti, dietro l’angolo a venire.
Gli diedi spazio e tanto quell’anno, e fiducia da riporre nelle sue capacità. Sorvolai sui contenuti, scarsi, che apprese, sulla sua pronuncia non certo di Oxford, ma molto maccheronica, sulla sua proverbiale lentezza e puntai sulle sue conoscenze dei fatti del mondo derivate dalle frequentazioni sul web e sulla sua capacità di cogliere il nesso nelle relazioni. Intuizione e logica non gli mancavano, mentre pigrizia e apatia abbondavano.
Continuò a raccontare di sé e delle sue relazioni interpersonali agli assistenti sociali e agli educatori, obbedendo ai dettati del giudice. Continuò a frequentare la scuola sino alla fine, senza mai assentarsi un giorno, ma sbuffando quotidianamente. Quando entrava e quando usciva.
Superò il primo anno non senza qualche difficoltà, con alcune insufficienze che colmò agli esami di fine Agosto.
Aveva 16 anni quando, finalmente, fu assegnato al padre. L’inizio della seconda superiore coincise anche con una nuova vita a due e un rapporto da ricostruire nel segno della continuità e della condivisione di un progetto di vita. Con una certa serenità nell’animo Pietro proseguì gli studi, sempre in bilico, però, tra apatia e apparente disinteresse e sempre in altalena col profitto.
Lo persi due anni dopo, all’inizio della quarta, quando fui assegnata ad altre classi. Ci incontrammo nel corridoio della scuola a metà Settembre, nel caos dell’intervallo. Ebbi la netta sensazione che mi stesse aspettando, appoggiato allo stipite della porta, con il capo, libero dal cappuccio, reclinato sulla spalla e le mani sempre nascoste nelle tasche.
Gli occhi, sgranati in una malinconica espressione, parlarono prima di lui.
“Prof, perché ci ha abbandonato?, liberò con un tono lamentoso quando ci trovammo uno di fronte all’altro.
“Ci manca”, continuò sostenendo per la prima volta il suo sguardo nel mio, regalandomi, poi, un sorriso di riconoscenza. Nel gelo che seguì a quella rivelazione inaspettata ebbi il tempo di osservare meglio quel mio studente: avevo di fronte non più un ragazzino imberbe ed impacciato, ma un giovane uomo, distinto nei modi e ben curato, dall’incarnato un po’ più roseo e dalla capigliatura definita con cura. Un giovane cresciuto in fretta che con la vita aveva già fatto a pugni diverse volte e che messo alle sbarre aveva sfoderato colpi prodigiosi. E vincenti.
Balbettai, trattenendo a stento l’emozione, una risposta che non lo convinse più di tanto. E quella volta fui io a tenere gli occhi rivolti a terra.
“Impegnati e comportati bene anche quest’anno ”, riuscii a dirgli nel congedarmi da lui. Ma prima che mi dileguassi con il cuore gonfio e le gambe deboli, lo sentii urlare:
“Prof, aspetti. Facciamoci un selfie!”
Mi girai e mi avvicinai a passo deciso verso di lui che tra le mani già racchiudeva il telefonino. Le varie foto che scattò ritraevano due volti ravvicinati e sorridenti , due identità accomunate da un lungo e delicato percorso, due anime finalmente appagate.
“Fai attenzione alle piccole cose, perché un giorno ti volterai e capirai che erano grandi” ( Jim Morrison)
Scritto prodigiosamente, toccante e profondo!
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