Seduto in un bar fumoso, a sorseggiare il solito caffè,
senza pensieri.
Cercando qualcosa di insolito, da rimirare in solitudine,
nel mio silenzio affollato di suoni.
Provando a concentrarmi sulla musica in sottofondo,
estraniandomi dal vociare quotidiano di incontri casuali, a cui dare,
inutilmente, peso.
Il brano pareva troppo malinconico per un locale anonimo, ma
perfetto per chi, come me, inseguiva “qualcosa”.
“Resti immobile
guardando i vetri che si sfumano e i miei passi che si perdono. Mordi le tue
labbra e puoi ti muovi in un silenzio assente. Conti le automobili che
passano.”
Parole che giunsero al cuore come uno schiaffo, a svegliarmi
dal torpore della nebbia che ricopre il cielo, congela i pensieri ed il caffè
non riesce a diradare.
La mia attenzione venne catturata da una giovane donna, rapita
da quelle parole quanto me. Poggiava il mento su di una mano, ciondolando la
testa a ritmo di musica, guardando nella direzione del juke box, come se stesse
attendendo una qualche risposta.
Del suo viso, scorsi solo le labbra, che sembravano sfuggire
da sotto ad un cappello che nascondeva il capo quasi per intiero, e ne rimasi
affascinato.
Cambiavano continuamente espressione, mutanti al timbro
della musica, accoccolandosi attorno al suono.
La osservai portare a sé una tazza di caffè fumante con un
garbo ed una grazia che difficilmente scorgevo nelle donne moderne ed attendere
un impercettibile attimo prima di posarla di nuovo sul tavolo, quasi che ogni
movimento dovesse essere posato, vissuto, sentito.
Accavallò le gambe, elegantemente fasciate di nero, accennò appena
ad un sorriso, scherzò con una penna che teneva in equilibrio sulle dita e
chinò il capo, intenta a trascrivere i suoi pensieri sopra un block notes.
Avrei voluto trasformarmi
in parola,
lasciarmi scorrere tra
le pagine che da bianche, cambiano colore.
Captare i suoni con
l’orecchio della sua anima,
giungere al cuore ed udire
un unico, perfetto battito.
Sussurrare alla sua
mano di divenire gesto,
condurla a disegnare
circoli nell’aria per dipanare il fumo e trasformarlo in luce.
Desideravo che questo
sogno ad occhi aperti non avesse mai fine e mi lasciai cullare dalla musica,
guardandola alzarsi per sparire nel nulla.
“Non avrei mai trovato il coraggio di seguirla. – mi dissi -
Perché mai? Per porle quale quesito?
Con quale sprezzante motivo di volgerle la parola e turbare
i suoi pensieri?
E se si fosse accorta della mia presenza?
E se il mio sguardo si fosse fatto troppo insistente?
Non me lo sarei mai perdonato!”
Decisi di riprendere la via del ritorno, allungando il mio
cammino, alla ricerca di un segnale.
Mi sentivo rapito, assorto e abbandonato in un mondo di cui sentivo
di non appartenere, come se mancasse qualcosa di me.
Seguitando il mio cammino, la nebbia si rischiarò e mi
ritrovai di fronte al mare.
Da bambino, lo raggiungevo ogni qualvolta mi mancasse
qualcosa, ogni qualvolta avessi bisogno di rintanarmi nei miei pensieri.
Stavo a rimirarlo per ore e avvertivo che fosse specchio dell’inquietudine
di un giovane che si ritrovava a sbattere sugli scogli come un’anima in eterna
pena, alla ricerca della propria pace.
Mi ritrovai a pensare alla mia infanzia.
Non avevo tanti amici, anzi, quasi nessuno.
Prediligevo trascorrere il tempo ad osservare la natura,
riconoscerne i mutamenti, amarne i colori, i contorni sfumati dal susseguirsi
delle stagioni e non avendo soldi per potermi comprare la cultura, mi sentivo
fortunato a poter ascoltare le storie degli adulti, con cui crebbi, schivo, al
caldo del camino.
Tante furono le figure adulte attorno a me, ma non serbai
ricordi che per la nonna, il calore protettivo del ventre materno, finché la
terra non la strappò via e ritornò, spirito tra gli spiriti.
Sovente mi parve di rincontrarla in sogno, quando i pensieri
divenivano buio e all’ombra della mia cameretta, le coperte calde la sostituivano.
Percorsi il medesimo tragitto del giorno prima ed i gesti
inconsci della giovane donna mi riapparvero davanti agli occhi come se la sua
presenza fosse un’apparizione: il modo di riporre dietro l’orecchio una ciocca
ribelle dei suoi lunghi capelli castani, l’intrecciare le dita sotto il mento,
per appoggiarvi la testa, eternamente immersa nei propri pensieri, l’allungare
le gambe sotto il tavolo, stirandole leggermente di lato.
Ogni sua movenza mi era famigliare e nonostante non avessi
potuto connotare i suoi lineamenti con precisione, la sua andatura leggera ed
austera, mi rimandava alle giovani madri di un tempo, spesso a capo, solitarie
e severe, di un’intera famiglia e maturate troppo presto, per aver fatto a
tempo a conoscere i fasti della gioventù spensierata, la levità dei primi
rossori, la passione del corteggiamento.
Avrei voluto incontrarla ancora, per scoprire cosa mi avesse
inquietato a tal punto da voler dissipare l’alone di mistero che l’avvolgeva.
Avevo compreso che conoscere quanto celasse in sé,
appartenesse al mio vissuto e avevo il dovere di scoprire, finalmente, la
storia della mia vita.
Ripercorsi la mia infanzia daccapo, come se la vivessi una
seconda volta e mi rividi, eternamente solitario, a rimirare i colori delle
giornate che passavano, delle nuvole che giocavano a rimpiattino con il sole e
lo ricoprivano, finché non trovava spazio nel cielo per ritornare alla luce.
E quando il cielo si tingeva di rosa, stavo col naso
attaccato al vetro, attendendo che la luna venisse a salutarmi.
I miei amici erano la natura, il cielo, il sole, il mare ed
il vento, a risvegliare la mente assopita e divenuto ormai adulto, a lenire il
dolore della solitudine.
Cosicché divenne la mia unica compagna, allorquando i vecchi
alimentarono in me la saggezza derivata dalla sofferenza ed essi stessi riconobbero
nei giovani, col trascorrere delle stagioni della vita, la perdita di amore per
le persone, per il luogo natio e per i derelitti.
Di conseguenza, decisi di allontanarmene e di condurre la
mia vita alla ricerca di quanto avevo, semplicemente, riposto in un cassetto
della memoria, perduto tra i pensieri della quotidiana esistenza.
Il cammino che la vita riserva ad ognuno di noi è fatto solo
di ciò di cui abbiamo bisogno.
Rivela i colori che non conosciamo, l’arcobaleno con le
giuste sfumature e quando sembra che rechi soltanto dolore, è perché la
sofferenza deriva dalla nostra mancanza di armonia.
Quella donna, era solo uno spirito, giunto a ricordarmi chi
fossi.
Quelle labbra, erano a me note, ma le avevo come cancellate,
relegate in un angolo del mio cuore che avevo chiuso, credevo, per sempre.
Quelle labbra, erano il segno delle mie radici.
Quel sorriso, famigliare come il latte materno, era un luogo
della mia mente che mi fu strappato via troppo presto, ma che sarebbe rimasto
nei miei gesti, a rimembrarmi i passi che avrei percorso, la terra da cui
nacqui, i segni del viso che si sarebbero approfonditi.
Ed ora, che ritorno al mare con più frequenza di un tempo,
stranamente, lo vedo calmo, così come la serenità alberga al centro dei miei
pensieri.
“Ti proteggerò
restando lontano, nel silenzio”.
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