Soltanto le sue labbra blu. Non
vedeva altro. Erano l’unica cosa che riusciva a catturare l’attenzione di
Pedro, mentre stringevano una Camel Light e ne aspiravano il fumo.
“E’ stata dura oggi fare la
strega cattiva al centro commerciale con quei mostriciattoli urlanti. Vediamo
se sei così bravo da farmi passare il mal di testa…”
A Pedro piaceva l’idea che Giulia
non si fosse struccata. Prima di quel pomeriggio non era mai stato con una
ragazza dalle labbra blu.
“Ma oggi non è Halloween! Come
mai ti sei dovuta vestire da strega?”
“Mi hanno dato cinquanta euro per
quattro ore di lavoro, in questo periodo per quella cifra andrei in giro anche vestita
da coniglietta!”
“Non ti sei mai vestita da
coniglietta per stare con me, però”, le aveva risposto Pedro, in tono vagamente
polemico ma scherzoso.
“Non mi hai mai dato cinquanta
euro per vestirmi in quel modo, amore!”
Faceva di tutto affinché lei
parlasse, per poter osservare meglio le labbra. Era come se volesse scattare una
macro, e gli serviva tempo per valutare meglio l’angolazione, trovare
l’illuminazione giusta, capire come impostare la fotografia. Il labbro
superiore di Giulia era lungo e non particolarmente pronunciato, mentre quello
inferiore era corto e parecchio turgido, e mostrava i segni di un vecchio
piercing.
Un lungo bacio, umidiccio e fresco
nonostante i quasi trenta gradi di temperatura esterna. Il rossetto blu aveva
un sapore strano, molto diverso da quello del lucidalabbra incolore solitamente
utilizzato dalla ragazza. Pedro non faceva fatica a soffermarsi su questi
particolari. Era sempre molto attento ai dettagli.
Il ragazzo era iscritto a scienze
della comunicazione, ed era appassionato di cinema e fotografia. Era di origini
peruviane ma aveva sempre vissuto a Dairago, un paesino ad ovest di Milano, in
cui aveva trascorso l’infanzia ad annoiarsi e l’adolescenza a fumare canne in
mezzo ai boschi. A Milano riusciva a procurarsi il fumo con maggiore facilità,
e poteva andare in giro vestito come voleva. Gli sembrava che la città gli
portasse fortuna.
Giulia l’aveva conosciuta al
Naviglio Pavese, proprio su quello che lui chiamava “ponte di Giulia”. Era il
ponte di quel famoso video musicale, che Pedro apprezzava per il coraggioso utilizzo
di un lunghissimo piano sequenza.
Avrebbe voluto citare quel video
nella sua tesi di laurea, se mai ci fosse arrivato. Avrebbe fatto una tesi
sulle implicazioni socioculturali del neorealismo. Per lui il famoso filmato con
la ragazza che cammina sul ponte del Naviglio Pavese era la massima espressione
del neorealismo italiano, cinquant’anni dopo il suo periodo d’oro. Forse la
canzone di quel video non sarebbe piaciuta ai radical chic milanesi che
frequentavano il suo stesso corso, ma i professori della commissione, ne era
certo, avrebbero apprezzato.
Giulia quel pomeriggio indossava delle
mutandine di pizzo nero e una canottiera bianca semitrasparente. Mai vista una
strega così sexy. E la sua bocca di un colore innaturale si stava
pericolosamente avvicinando a qualcosa che non era più la bocca di Pedro. Giulia
guardava Pedro dritto negli occhi. Lo trafiggeva con lo sguardo. E le sue
labbra, in quel momento, erano ancora più in evidenza. Il labbro inferiore
diventava sempre più marcato, e la macro scattata dalla macchina fotografica
immaginaria diventava un’opera d’arte sempre più vicina alla perfezione, per il
soggetto, l’equilibrio nella composizione della fotografia, i giochi di luce
che si creavano, la precisione della messa a fuoco.
La ragazza studiava scienze
dell’educazione alla Bicocca e condivideva con una sua compagna di corso un
bilocale in zona Navigli. Le vite delle due studentesse erano separate da una
porta scorrevole, quasi sempre chiusa. Giulia proveniva da una famiglia della
borghesia milanese. Avrebbe fatto qualsiasi cosa per far sì che la sua
condizione di benestante passasse inosservata. Durante quella torrida estate
milanese, aveva scelto di vivere così il suo voto di povertà: semplici
canottiere bianche con fiorellini, che coprivano reggiseni colorati e sportivi
di quelli che si potevano trovare dai cinesi al mercato del sabato mattina,
pantaloncini blu della tuta, infradito, niente vacanza con gli amici, vari
lavoretti part-time, e l’appartamento in condivisione, senza condizionatore e
con una lentissima connessione ad internet che spesso saltava.
In quel momento Giulia stava facendo
l’amore con Pedro, con il quale stava insieme dall’autunno dell’anno
precedente. Era sopra di lui, con modi decisi. Dopo alcuni minuti il suo respiro
era diventato ansimante. Pedro era sempre concentrato sulle labbra blu,
perdendo un po’ dell’intimità del momento, ma guadagnandone in eccitazione ed
appagamento del suo complesso senso estetico. Giulia si eccitava terribilmente
quando si sentiva desiderata in quel modo. Come spesso era accaduto in
quell’estate, entrambi avevano raggiunto l’apice del piacere insieme. Questo,
per Pedro, era anche l’apice di ciò che le relazioni umane potessero offrire.
Faceva caldo. Giulia si era
staccata impulsivamente da Pedro con un rapida spinta di gambe sul materasso,
ed aveva appoggiato la sua schiena nuda contro il marmo del davanzale della
finestra aperta. Stava riprendendo fiato.
Pedro aveva già tirato fuori una
cartina e stava sgretolando un pezzo di fumo. Dopo due o tre boccate, Giulia
gli aveva rubato la canna dalle mani, ed aveva fatto un paio di tiri, aspirando
profondamente.
“Tu che dici? E’ meglio Germania
o Belgio? No, non rispondermi, tanto ho già deciso. Belgio”.
Non si trattava di una vacanza
studio. E neanche di un anno all’estero per l’università. Lo sguardo di Pedro
era diventato improvvisamente fisso. “Germania o Belgio per fare cosa?”, la
domanda era retorica, ma lui l’aveva fatta comunque.
Una studentessa milanese che
aveva tutto dalla vita decideva di andare a vivere in Belgio a cinque esami
dalla laurea. Pedro non riusciva più a parlare, a fare altre domande. Era fermo
immobile in un angolo del letto. Con il suo spinello e lo sguardo rivolto verso
il soffitto.
“Puoi venire a trovarmi, puoi
vivere lì anche tu se vuoi, cosa te lo impedisce?”. Un “ti amo” alla fine della
frase avrebbe potuto sancire il proseguimento del legame, ma la ragazza non si
era sentita di dirlo. Anche il non detto, per Pedro, costituiva un dettaglio
importante.
Pedro amava Giulia, forse perché
l’aveva conosciuta nel suo periodo fortunato. Era in cerca della fotografia
giusta da utilizzare per la tesi. Era salito sul ponte a lui tanto caro, e
Giulia era già lì, che percorreva la strada nella direzione opposta. Aveva i
capelli rossi all’epoca, e due libri sottobraccio. Una maglietta sintetica
aderente, nera, ed un maglioncino rosso sulle spalle. Una gonna né lunga né
corta, calze a righe rosse e nere, anfibi da punk. Esistevano due versioni del
video musicale che tanto ispirava Pedro. Nella versione più famosa, trasmessa
spesso sui canali musicali, la protagonista era una Giulia bionda. Nella
seconda versione, Giulia era mora. Pedro aveva davanti a sé una terza Giulia, rossa,
che camminava affannata con la bocca semiaperta ed un piercing sul labbro. Una terza
Giulia, rossa, non poteva essere un caso: bisognava scattarle la fatidica
fotografia, era un segno del destino. Da quella foto era nato tutto il resto.
Pedro non si sarebbe fatto
problemi a stare con Giulia tutta la vita. Due bimbi e due pastori tedeschi, e
qualche giro in montagna durante la bella stagione per far prendere un po’ di
aria buona a tutta la famiglia. Un bicchiere di buon vino a duemila metri,
versandone qualche goccia per terra per ringraziare la Pacha Mama, come si
usava nella sua terra d’origine, e poi tutti a casa in macchina con l’autoradio
a tutto volume, perché i bambini dovevano abituarsi alla buona musica già da
piccoli. Il passato lo si cancellava con un po’ di fumo, la ricetta per la
felicità futura era semplice, ed anche il presente non era male, fino a quella
frase sul Belgio.
Pedro ora lavora in uno studio
fotografico a Villa Cortese, a due chilometri da Dairago. Sono passati sette
anni e qualche mese da quel pomeriggio di fine estate.
“Pedro, stammi a sentire. Qui non
abbiamo tempo di lavorare per bene, abbiamo sei matrimoni tra oggi e domani. E
questi quattro sfigati non diventeranno mai famosi: guarda com’è brutto il
cantante. Prendi quella cazzo di videocamera, e visto che ti piace il
neorealismo italiano ora ti do da fare una ripresa molto realista, mentre io
faccio un filmato di questi quattro stronzi che suonano”.
“Ma come facciamo a girare un
videoclip con questa luce qui? Bisogna aspettare almeno un paio d’ore. Il
tecnico video sono io, ascoltami per una volta, che tu avrai pure sessant’anni
ma io con la cinepresa in mano ci sono nato”.
“L’unica cosa che avevi in mano
quando sei nato era il tuo cazzo. Le tue uniche esperienze sono le pippe. Sei
peggio di questi quattro sfigati che cantano e suonano. Fai la tua cazzo di
ripresa neorealista, che poi modifichiamo tutto in postproduzione”.
“Che cacchio ne sa questo qui di
postproduzione?”, si domandava Pedro, incuriosito.
“I due attori più o meno sanno
già cosa fare. Ora si inseguono per la piazza e fanno un po’ di cose loro, tu
mettiti in coda con la videocamera e non perderli mai di vista. Mai”.
Le riprese in movimento con una
videocamera portatile non erano facili da eseguire ma andavano abbastanza
d’accordo con l’estetica di Pedro: bastava fissarsi su un particolare. La
videocamera seguiva gli attori in una specie di lotta con i cuscini, lungo i
portici del centro. Era dicembre, faceva freddo ma c’era una luce
fastidiosissima che abbagliava la piazza. Sotto i portici, invece, il buio più
completo. Neanche un lampione acceso. Bel video di merda che avrebbe
realizzato, e poverini i quattro sfigati, che poi in realtà non erano neanche
così male.
Ma ora c’era da correre per non
perdere di vista i due attori. Uno slalom tra le colonne dei portici fino ad
arrivare ad uno spazio aperto, con una giostra per bambini. Un giro intorno
alla giostra, sempre con la videocamera in mano. Un leggero senso di nausea.
Frustrazione. Rabbia. Ad un certo punto un ginocchio urta qualcosa. Si sente un
bimbo urlare, piangere. Intorno è pieno di bambini, chissà qual è che ha
urlato. Pedro non ha tempo di controllare, non può perdere di vista neanche per
un secondo i due attori che intanto continuano ad inseguirsi.
Sulla sinistra della piazzetta ci
sono delle animatrici che regalano palloncini. La piazza è piena di bambini, e
sembrano tutti felici. Chissà chi è quello che si è fatto male. La videocamera nel
frattempo riprende tutto. Tutto, tranne gli attori del video, perché
l’attenzione di Pedro è ormai altrove. Pedro incrocia lo sguardo di una delle
animatrici. Una donna di circa trent’anni. Si guardano dritti negli occhi e con
una singola occhiata la donna riesce a punirlo per aver fatto cadere a terra un
bambino. Le labbra sono serrate e contratte, i muscoli del viso sono tesi, le
sopracciglia sono corrugate. Se non dovesse curare i bambini, andrebbe da Pedro
e lo colpirebbe con violenza.
“Non è lei, non può essere. Non è
mai venuta a casa mia in vita sua, figuriamoci se viene a Busto Arsizio”. La
videocamera torna prontamente sugli attori, che in assenza di direttive vanno
avanti a tirarsi i cuscini e sembrano divertirsi un mondo. Pedro li segue fino
a tornare dove c’è il gruppo che fa finta di suonare.
“Segaiolo, spegni la videocamera
e salta in macchina. Abbiamo fatto abbastanza riprese. Ora c’è da andare al
matrimonio. Muoviti”. Seduto sul sedile del passeggero, Pedro manda avanti e
indietro la registrazione. Ci sono solo un paio di fotogrammi che gli interessano,
e hanno una definizione pessima, ma lui li guarda in continuazione, lungo tutto
il viaggio in macchina. Ogni volta che i due fotogrammi scorrono, c’è una fitta
al cuore.
Per la prima volta nella sua
vita, Pedro piange, singhiozza, gli tremano le mani, le extrasistole gli
tolgono il fiato, vorrebbe urlare. E accanto a lui c’è un fotografo frustrato che
gli parla di postproduzione.
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